La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono "Tutti sono uguali,
tutti rubano alla stessa maniera".
Ma è solo un modo per convincerti
a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.
E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.
(“La storia siamo noi” - 1985 - di Francesco De Gregori.
“Attenzione alla rabbia degli esclusi”, intervista dello scrittore Paolo Di Paolo a Nadia Urbinati – docente presso l’Università “Columbia” di New York – pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del 13 di settembre 2024: (…). Si dice: la democrazia è fragile. Ma questa fragilità o vulnerabilità va considerata un dato storico, legato a una specifica dimensione geopolitica nel corso del tempo, o una caratteristica costitutiva e inevitabile di questa forma di governo? «La democrazia costituzionale con sistema rappresentativo andrebbe interpretata come un processo in corso di formazione e rafforzamento almeno dal diciottesimo secolo, una storia in movimento in cui gli avanzamenti, i progressi si sono alternati a regressioni e cadute. Non aiuta dunque guardare al qui e ora. Da quando è nata, la democrazia moderna ha mostrato notevole capacità di innovazione istituzionale. Vive le sue stagioni, le sue evoluzioni e fasi con grandi contraddizioni ma anche nel complesso con grande elasticità e dinamismo».
Un cittadino, una cittadina del ventunesimo secolo in uno Stato che definiremmo democratico sono automaticamente allenati alla democrazia? È qualcosa a cui bisogna essere educati e allenati? «Stabiliti alcuni parametri che ci fanno giudicare democratico un sistema, il punto è che non tutti godono delle stesse condizioni. È una questione di fragilità economica e sociale, di impossibilità di partecipare attivamente alla vita civile e di fare sentire la propria voce, di avere una rappresentanza non aleatoria. Guardiamo a molte nazioni latino-americane, a diverse zone dell'Europa, agli Stati Uniti (…)».
Sta dicendo che, giocando con una famosa frase di Orwell, la democrazia è uguale per tutti, ma per qualcuno è meno uguale? «Sto dicendo che c'è in molti contesti nazionali una democrazia del 50%. Metà della popolazione è parte effettiva dello Stato democratico agevolata da una efficace forza di interconnessione, l'altra vive ai margini, con scarsa possibilità di accesso ai diritti, lasciata nell'insoddisfazione, nell'afonia. Fuori dal gioco. Senza interconnessione, in una solitudine sociale che alimenta sfiducia e anche risentimento e si traduce in astensione elettorale e, a volte, in ribellione (pensiamo ai gilets jaunes in Francia)».
Questo spinge alla ricerca dell'uomo/donna forte al comando? «Non necessariamente. Può generare anche tentativi di riparare alla disintermediazione con la creazione di movimenti sociali e di nuovi partiti. Dagli indignados nacque Podemos. Pensiamo alle premesse di un movimento politico come i 5 Stelle. In questo orizzonte di rifiuto della rappresentanza tenuta da partiti e politici di professione, emergono i profili di uomini e donne "forti" che per paradosso - vedi Trump e, prima, Berlusconi - vengono da classi sociali diverse rispetto a gran parte del loro elettorato». Perché non pesa, agli occhi dell'elettore, la ricchezza anche esagerata del leader? «Perché conta di più, ai suoi occhi, la capacità di far saltare il tavolo, di rompere una continuità (questo il caso di Milei in Argentina), di dimostrare che le regole e gli schemi possono cambiare dall'oggi al domani. Tutto questo ha il nome di populismo».
Quando e dove se ne coglie la deriva autoritaria? «Il populismo nasce in seno alla democrazia. Se si traduce in una dimensione stabile (da un populismo a un altro), se diventa populismo permanente - lo chiamerei così - può mettere a rischio la democrazia costituzionale. Infatti, il populismo definisce il popolo per sottrazione ed esclusione, discrimina e reprime. La faccia del leader diventa il popolo, coincide con esso, e così lo Stato, le cui leve devono essere controllate e irreggimentate anche attraverso prebende e corruzione. Oltre a questo, per mostrare efficacia e rapidità, diciamo pure per "fare in fretta", il populismo permanente dà forza al momento esecutivo. Non c'è tempo per la dialettica parlamentare... Non c'è tempo nemmeno per ascoltare le opposizioni».
... che vengono additate come ostruzioniste. «Nemiche del fare. Ma la democrazia senza dissenso non è tale, c'è bisogno di contestazione e diversità cognitiva e di opinione».
Come siamo messi in Italia? «Con un governo in carica che ha una forza comunicativa straordinaria, tenendo in conto il fatto che un vizio italiano di lunga data ha sempre considerato il sistema televisivo organico ai poteri della maggioranza. Gran parte del consenso si costruisce a tutt'oggi con la propaganda delle reti televisive, in particolare di una rete ammiraglia che racconta il Paese come il bengodi, non analizza mai i problemi, riduce l'informazione a proclami e storielle edificanti sul presunto buon governo. Peccato che i conti in banca di molti elettori dicano qualcosa di un po’ diverso».
Ci sarà un brusco risveglio? «Ci sarà un momento in cui l'attrito fra realtà effettiva e favole creerà scintille. Forse sta già accadendo. La premier può trattare i cittadini come infanti e incoraggiarli quanto vuole, ma se i servizi mancano o peggiorano, se le cose non funzionano come viene proclamato, qualcosa si muoverà...».
Nel frattempo? «Nel frattempo questo governo si difende operando essenzialmente attraverso decreti. Cioè trasforma strumenti in teoria emergenziali in strutturali. Rendendo il Parlamento subalterno, consolida pezzo per pezzo una "democrazia del capo” (un ossimoro)».
«Afascista» (…)? «C'è una buona dose di fascismo nel Dna della destra italiana e di molte destre al governo in Europa, a cominciare da quelle peggiori e meno addomesticate. Ma nel nostro caso va diagnosticato e descritto un preciso progetto di smantellamento del concetto stesso di antifascismo, come qualcosa di superato e inservibile. Dove è cancellata la contrapposizione tra fascismo e antifascismo, ovvero negata ogni contrapposizione valoriale, ha piede più libero chi - come i leader e i militanti di Fratelli d'Italia - non accetterà mai di condannare il fascismo, non solo quello storico, ma anche l'ideologia. Il rischio è che proprio in questa rimozione, in questo oblio imposto, in questo "afascismo” istituzionalizzato, si annidi il germe del fascismo del ventunesimo secolo».
Chi può fare la differenza? Il famoso granello di sabbia nell'ingranaggio? «In assoluto, come sempre nella storia, il mondo degli scontenti. Che puoi anestetizzare fino a un certo punto... Anche il governo afascista dell'audience può essere messo in crisi quando propaganda e realtà diventano clamorosamente e tragicamente inconciliabili».
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