"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 17 settembre 2024

Piccolegrandistorie. 100 Azar Nafisi: «Le biblioteche sono gli spazi più democratici che esistano. Contengono libri scritti in ogni parte del mondo, tutti lì, tutti a contatto l'uno con l'altro, e non raggruppati per ideologia o posizione politica. Comunque li disponiamo creiamo uno spazio democratico e loro ci trasportano ai quattro angoli del pianeta».

 


Leggere”. “I libri mi hanno regalato la libertà”, “racconto” di Azar Nafisi – iraniana, vincitrice della 17esima edizione del Premio Crédit Agricole per “La storia in un romanzo” al Festival di Pordenone – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 15 di settembre 2024: Nabokov dice che i grandi libri ci procurano un brivido lungo la spina dorsale. Io avevo tre anni quando imparai cos'era una biblioteca e credo che il mio primo brivido risalga più o meno a quel periodo. Ogni sera mio padre mi leggeva o raccontava una storia, e il venerdì, giorno di riposo settimanale in Persia, mi portava nella libreria per ragazzi. Ma i momenti più straordinari erano quelli che passavamo nella sua biblioteca personale, piena di testi di filosofia, storia e, soprattutto, narrativa. Là c'era anche uno scaffale con i titoli per bambini. Sceglievamo i libri insieme, poi lui mi faceva sedere nel mio posto speciale. Ero piccola, perciò gli chiedevo di prendermi in braccio per poter curiosare sui ripiani più alti. In fatto di storie mio padre era egualitario: mi leggeva libri che venivano da tutto il mondo. All'epoca impilavamo quei volumi contro il muro, proprio accanto al mio letto, e certe volte mi addormentavo abbracciata al libro da cui mio padre aveva appena finito di leggere. Ancora oggi il mio comodino è stracarico dilibri, cosa che a modo suo mi rilassa e insieme mi procura quel brivido lungo la spina dorsale di cui parlava Nabokov. Adoravo, e continuo ad adorare, questo risveglio dei sensi, la sicurezza che mi danno i libri. Li associo alla voce di mio padre: calma e confortante, intima, ma capace di evocare emozioni e sentimenti fortissimi. Grazie a quelle storie il mondo intero mi si spalancava davanti, e al di là delle sue porte magiche mi attendevano creature incantate. Mondi immaginari. A quei tempi mi sentivo invulnerabile. Verso i tredici anni, però, scoprii che in un attimo potevo essere privata di cose che avevo sempre dato per scontate: la casa, la famiglia e gli amici, persino il mio paese. I miei decisero di mandarmi in Inghilterra a studiare. Dissero che era per il mio bene, che avrei imparato a essere indipendente e conosciuto persone e mondi nuovi. Se non potevo portare l'Iran con me, potevo comunque portarmi via il meglio che l'Iran aveva da offrire, perciò misi in valigia tre libri di poesie: due di Hafez e Rumi, i nostri grandi autori classici, e il terzo della mia amatissima poeta femminista Forugh Farrokhzad. Di colpo mi ritrovai in un ambiente estraneo e sconosciuto, dove l'unico sistema per sopravvivere fu crearmi un «mondo portatile». Iniziai a costruirmi una specie di precaria biblioteca accanto al letto, e là lessi e rilessi quei libri. Con l'università la biblioteca crebbe, finché l'intero soggiorno e la sala da pranzo traboccarono di volumi. Ogni sera andavo a letto e leggevo racconti e poesie fino a addormentarmi, abitudine che ancora conservo. In questo modo arrivai a sentirmi a casa anche in Inghilterra, e in seguito in America: leggendo grandi libri. Mi sentivo a casa per· ché i loro mondi immaginari erano casa. La biblioteca vicino all'obitorio. A un certo punto i cattivi delle storie uscirono dalle pagine dei libri e presero vita: arrestarono mio padre, che era stato il sindaco più giovane e tra quelli più amati di Teheran. Lui trascorse la sua reclusione nella biblioteca del carcere vicino all'obitorio e approfittò di quell'insolita «cella» per leggere poeti, scrittori, pensatori e quanti avevano lottato per i diritti democratici. L'obitorio, raccontava, era stato lì per ricordargli la transitorietà e mutevolezza della vita. I libri erano una vittoria sulla fugacità della vita e sull'irrevocabilità della morte: costituivano la prova inoppugnabile del fatto che eravamo esistiti. Con le loro pagine custodiscono la memoria, trasformando attimi effimeri in momenti capaci di durare a lungo anche dopo che ce ne siamo andati. Parlando della biblioteca, mio padre sorrideva con aria maliziosa e diceva che in quella stanza circondata di libri si era sentito un uomo fortunato. «E non dimentichiamo l'obitorio» aggiungeva. Era certo che, insieme, quei due luoghi ci insegnassero ad apprezzare la vita e ad affrontare la morte. Durante la sua permanenza in prigione scrisse più di mille pagine di memorie, imparò a dipingere e studiò il russo. Lesse e tradusse poesie, saggi e libri. Quei quattro anni, spiegava, erano stati tra i più fertili della sua vita. Degli esseri umani aveva conosciuto non soltanto la capacità di ferire e infierire, ma anche quella di amare, gioire e coltivare la speranza. Si sentiva fortunato anche perché là dentro aveva trovato molti amici; nella sua cella non era mai solo, diceva, perché era una biblioteca e aprire quei libri equivaleva a far visita a dei buoni amici. L'amico in carne e ossa più importante era il bibliotecario, il signor Khorouti, un uomo timido e dall'aria dignitosa che frequentava i salotti del venerdì di mia madre, dove gli amici dei miei si riunivano per parlare di tutto, comprese le ultime notizie riguardanti mio padre. Il bibliotecario passava un sacco di tempo a discutere con lui di storia, letteratura, arte, a volte persino di politica. Procurava a mio padre i libri che lui gli chiedeva, e capitava che gli portasse anche dei fiori: i libri e i fiori stanno bene insieme, sosteneva. Uno dei reati di cui mio padre era accusato era quello di «insubordinazione» e periodicamente gli dicevano che se avesse mostrato pentimento per la sua testardaggine lo avrebbero liberato. La sua risposta era che preferiva restare in prigione, subire regolare processo e difendersi. Perciò, nell'attesa del processo, fu tenuto in stato di cosiddetta «detenzione temporanea» per quattro anni. Quando finalmente arrivò davanti al giudice, aprì la sua arringa citando dei versi del grande poeta epico Firdusi, ma tutto il suo discorso era punteggiato da citazioni tratte da poeti, scrittori e pensatori come Sa'di, Victor Hugo e il Corano. Fu prosciolto da ogni accusa. Un prospero Iran. Per un po' mio padre aveva lavorato per un'agenzia governativa di programmazione dove dirigeva una rivista chiamata Prospero Iran, che si occupava di questioni legate allo sviluppo del paese. Lui, però, ci teneva a pubblicare anche articoli di cultura. Nel periodo della sua reclusione mio fratello, che aveva dodici anni, decise di costruire con l'aiuto di uno zio più giovane una biblioteca circolante. La chiamò Prospero Iran, come la rivista, e la impostò come una vera e propria impresa commerciale a cui si poteva partecipare versando un contributo - sollecitò i nostri parenti e amici a farlo - ma animata dall'invito di nostro padre ad aspirare, oltre che alla ricchezza materiale, a quella spirituale. La biblioteca sopravvisse fino al giorno in cui mio fratello, ormai diciassettenne, fu spedito a studiare all'estero. Il Museo dei libri e dei manoscritti. La passione per libri e biblioteche non riguardava solo la mia ristretta cerchia familiare. Anche i nostri cugini, che stavano a Isfahan, avevano le loro biblioteche e producevano una rivista scritta a mano piena di racconti, poesie e cronache di viaggio. I Nafisi non si lasciavano impressionare dalla ricchezza e dal potere, ma in fatto di arte e letteratura erano decisamente snob. Quando ero giovane il patriarca di famiglia era un cugino di mio padre, che tutti chiamavamo Amu (zio) Said. Mio padre era il suo protetto. Amu aveva una ventina d'anni più di lui e lo elesse suo esecutore letterario. Come ho già ricordato nei miei scritti autobiografici, Amu Said aveva studiato in Europa ed era uno dei più celebri intellettuali del paese. Oltre a numerosi saggi sulla storia e la letteratura dell'Iran, aveva scritto un dizionario francese-persiano, diversi libri di narrativa, e tradotto varie opere, tra cui l'Iliade e l'Odissea. Nel 1921Amu Said e altri intellettuali come lui fondarono l'Iran-e Javan (Club del Nuovo Iran), con l'obiettivo di far nascere un paese democratico. Reclamavano la cancellazione di tutti i privilegi legali e giudiziari di cui godevano i cittadini stranieri; lo sviluppo della rete ferroviaria; una scuola pubblica e obbligatoria; facilitazioni ai giovani per studiare all'estero; l'incremento di musei, biblioteche e teatri; l'adozione degli aspetti più progressisti della civiltà occidentale; l'emancipazione femminile e la creazione di uno stato laico con la separazione della legge civile da quella religiosa. I miei genitori mi portavano spesso a casa sua, in fondo a via Nafisi, una traversa apparentemente abbandonata con in mezzo un torrentello asciutto. D'inverno era una casa fredda e umida, e aveva così poca luce che sembrava sera a qualsiasi ora del giorno. Le poltrone e i divani sfondati sembravano dei mobili fantasma, immateriali come i segreti che immaginavo abitassero quella casa fantastica. L'unica stanza luminosa era la biblioteca, dove pile di libri si ammucchiavano sugli scaffali e sul pavimento. Ai miei occhi quei libri sembravano vivi, come tartarughe quadrate dalle zampe invisibili. Ogni volta che andavamo a fargli visita, Amu Said a un certo punto, con uno strano sorriso seminascosto dalla barba, mi mandava in biblioteca a prendere un libro, di cui mi forniva l'esatta collocazione. Forse per questo ho sempre immaginato i luoghi incantati non come sontuosi edifici ma come rovine in penombra, rese ancora più solenni dai segreti nascosti negli angoli bui. Perciò mi sembra giusto che, dopo la sua morte, la sua casa sia stata trasformata in un museo di libri e manoscritti. Un'oasi democratica. Nel 1979, dopo la laurea, lasciai gli Stati Uniti e feci ritorno in Iran. Affidai la mia biblioteca a mia cognata, che un po' alla volta diede via i libri, tranne i pochi con cui mi accolse quando, diciotto anni più tardi, mi ripresentai in America. In Iran avevo attinto alle biblioteche di mio padre e mio fratello, ma ne avevo anche inaugurata una nuova tutta mia. Dedicarmi a quell'attività mi era piaciuto molto, assistita da due studenti/studentesse che venivano regolarmente ad aiutarmi. Insieme parlavamo di arte e letteratura, della vita nella Repubblica islamica, dei film che avevamo visto e di pettegolezzi legati al mondo intellettuale e accademico. Quel posto era diventato un rifugio dalla prigione in cui il regime islamico aveva trasformato l'intero paese. Aveva finestre affacciate su un giardino dove crescevano fiori e un albero di cachi, e ci trascorrevo ore. Là dentro leggevo e intrattenevo amici e colleghi. L'esistenza stessa di libri provenienti da tutto il mondo, rappresentativi di contesti, voci e punti di vista diversi, ma sistemati l'uno accanto all'altro sugli scaffali, creava un'oasi di democrazia nella terra del totalitarismo. Il regime aveva provato a isolarci, ma i libri erano un collegamento con il mondo che ci era stato sottratto e in questo modo riuscivo ad accedere a spazi altrimenti negati dalla Repubblica islamica. Un mondo portatile. È così che ho capito che le biblioteche sono gli spazi più democratici che esistano. Basta dare un'occhiata ai loro scaffali: contengono libri scritti in ogni del parte del mondo, tutti lì, tutti a contatto l'uno con l'altro, e non raggruppati per ideologia o posizione politica. Comunque li disponiamo, in ordine alfabetico o in base alle dimensioni e al genere, creiamo uno spazio democratico e loro ci trasportano ai quattro angoli del pianeta. I grandi libri sono sovversivi non solo perché mettono in discussione il mondo, ma anche perché invitano noi, i lettori, a fermarci e a chiederci chi siamo e come siamo. A considerarci alla stregua di punti interrogativi. Quando sono emigrata negli Stati Uniti ho trasformato la nostra casa in una biblioteca. Sentivo che quello era il mio mondo portatile. Cemento e mattoni dobbiamo lasciarceli alle spalle, ma i libri possono viaggiare con noi ovunque andiamo. Questo concetto di «mondo portatile» l'ho preso in prestito da Nabokov, che ci descrive Pnin, esule protagonista dell'omonimo romanzo, mentre in un negozio tenta di spiegare a gesti che vuole comprare un pallone da calcio: «E con i polsi e i palmi delle mani tracciò nell'aria un globo portatile. Era lo stesso gesto che usava in classe quando parlava della "pienezza armonica" di Puskin». Oggi il pensiero di andarmene non mi preoccupa più. So che, qualunque sia la mia destinazione, avrò sempre con me questo mondo portatile. Una biblioteca. Ospiti graditi ma inattesi. Quando lasciai l'Iran diedi via i miei libri e smantellai la mia biblioteca. Arrivata negli States giurai a me stessa che non ne avrei mai più costruita una, per poi ritrovarmi costretta a demolirla: troppo doloroso. Ma si trattava di una promessa che non potevo mantenere: la sicurezza che i libri offrivano era insostituibile. Continuavano a bussare alla mia porta come ospiti graditi ma inattesi, così decisi che gli unici che avrei ammesso sarebbero stati quelli che amavo o con cui condividevo una passione speciale. Mi reputo fortunata, perché oltre alla mia biblioteca privata c'è quella di zona ad allargarmi gli orizzonti e a offrirmi un panorama più vasto, portando il mondo fino a me in una maniera diversa. E quindi, anche se la mia biblioteca è diventata uno spazio privato, ogni singola stanza della nostra casa, camera da letto compresa, è una biblioteca in miniatura. Il mio kit, il mio manuale di sopravvivenza.

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