Sopra. "Il rapimento di Elena".
“SempliciStoriediEsseriUmani”. 1 “La mia torre di controllo” di Concita De Gregorio: Angelina, mi ha detto da dietro la tenda. Angelina, come la Jolie. Non avevo voglia di parlare. Avevo dolore, paura e una stanchezza arretrata di quelle che vorresti dormire due giorni ma non puoi, appunto, perché fa un male da non potersi dire e poi c'è l'allarme, cosa succederà adesso, devo stare in guardia, restare sveglia. Lei invece sì. Lei voleva parlare moltissimo come le persone che vivono sole, le persone che cercano ascolto come l'acqua alle fontane di strada, lo cercano dove c'è. Appena ha sentito le ruote del letto con la nuova ospite a bordo ha detto sono Angelina, come la Jolie. Sono la tua vicina, e ha cominciato a parlare. Non ero ben disposta. Non volevo nemmeno essere sgarbata, sentivo il suo bisogno, ma non ce la facevo: ho finto di dormire. Dopo un po' si è accorta del silenzio. Ha detto fai bene a dormire ti fa bene, riposa pure bambina. Dormire ti cura. Bambina, ha detto. Non ci eravamo ancora viste a causa della tenda bianca, ma dalla voce non mi era sembrata anziana. Dopo qualche ora ho esplorato. Piacere, Angelina, io mi chiamo Concita. Quanti anni hai? Ha detto la sua età: la mia. Ecco, quindi era un "bambina" di affetto, una bambina che nel corso della conversazione si è presto trasformata in "regina". Nella sua lingua: reina. Il vezzeggiativo che usavano con me le donne dei banchi quando accompagnavo al mercato mia nonna. Io sconosciuta, di là dalla tenda, straniera, regina. Nei dieci giorni in cui siamo state insieme Angelina si è trasformata nella mia "torre di controllo". Da frequentatrice assidua del reparto conosceva tutte le ausiliarie, gli infermieri, i dottori. "Le dottoresse le distingui subito dalle infermiere perché le infermiere portano le scarpe da ginnastica, le dottoresse i sandali", ha detto una mattina. Le chiamava tutte per nome. "La bambina qui ha bisogno di un altro tipo di analgesico". Non è prescritto, Angelina. "Sì ma con questo non dorme. Dai, rimane tra noi. Datele quattro milligrammi di XXX". Non so se me lo abbiano dato, non credo proprio, ma lei non demordeva. "Vicina, ti ho messo via il sale. Il riso in brodo e la purea di carote sono molto insipide, il sale qui non lo mettono ma ne ho un po' da parte, che tu sei italiana non puoi mica mangiare senza sale. Sono stata a Firenze da ragazza, sai? Quarant'anni fa, bella Firenze". Il sale, Firenze. Non le ho mai chiesto la sua diagnosi. Avevo visto la magrezza, i denti sciupati, il foulard, la maglia a maniche lunghe di chi ha sempre freddo, quel freddo. Un giorno però, per distrazione, le ho chiesto e tu quando esci? Ha fatto un istante silenzio, poco ma molto per lei. Ha detto domani. Ogni giorno diceva di nuovo domani. "Credo che ci sia una piantagione di carote, nei sotterranei dell'ospedale", ha detto nel silenzio una notte alle tre. "Altrimenti non si spiega, la frittata di carote non si spiega". Ho riso ma non potevo ridere, tirava i punti. "Domani andiamo a passeggio", ha detto poi. Fino in fondo al corridoio, ti accompagno io - ha detto. con due bastoni, mi ha accompagnata. Ti lascio il dentifricio, Angelina. Ho visto che il tuo è finito, le ho detto quando sono uscita. Grazie, così non devo uscire a comprarlo, reina, e mi ha fatto l'occhiolino.
“SempliciStoriediEsseriUmani”. 2 “Andare per conoscere” di Elena Stancanelli: Non lontano da Sparta c'è un'isola chiamata Cranae. È unita da un ponte alla città di Giteo, nella quale si trova, quasi come unica vestigia, un Hotel Belle Helene. A Cranae infatti, racconta Omero, si unirono per la prima volta in un amplesso Paride ed Elena, subito dopo il rapimento che fece infuriare Menelao e diede inizio alla guerra di Troia. Lo scrittore Patrick Leigh Fermor arrivò a Giteo per mare e si fermò alcuni giorni. Non sapeva che l'isola davanti alle finestre del ristorante dove stava cenando fosse la Cranae omerica, fu un cameriere a rivelarglielo, lasciandolo sbalordito. "Tutta Giteo si trasformò di colpo. Sembrò che ogni cosa svanisse, tranne il profilo scuro dell'isola dove migliaia di anni fa era cominciata, tra le erbe mormoranti, quella fatale e incendiaria luna di miele". Finisce così uno dei più bei libri di viaggio e di avventura che potrà capitarvi di leggere: Patrick Leigh Fermor, Mani. Viaggi nel Peloponneso (Adelphi). Lo ricorda Ambrogio Borsani in Vagabondi nel Mani (Neri Pozza), un itinerario attraverso varie storie, con due numi tutelari: Fermor e Bruce Chatwin. Che furono amici, oltre che colleghi e due tra i più alti interpreti della narrativa di viaggio. Chi legge questa rubrica sa della mia passione per Chatwin e per chiunque abbia orrore del domicilio, come scriveva Baudelaire in L'alternativa nomade (Adelphi). Fermor era inglese, come Chatwin, ma ha vissuto a Kardamyli, nel Mani, vicino all'entrata del regno dei morti. Che forse era in una caverna sotto il mare, forse dietro un muretto di pietra in un boschetto. Ci si era trasferito insieme alla moglie, Joan, aveva comprato un terreno e costruito una casa affacciata sul tramonto, nella quale Chatwin avrebbe passato parecchio tempo. Ci era arrivato la prima volta nel 1970, quando era ancora un viaggiatore felice e sconosciuto, ci era tornato quando sentiva che il suo tempo stava finendo (era malato di Aids, ma non volle mai che quel nome fosse pronunciato) e aveva bisogno del posto giusto per lavorare. Stava scrivendo quello che temeva sarebbe stato il suo ultimo libro, Le Vie dei Canti (Adelphi) e si era stabilito all'Hotel Theano. La sera cenava con Paddy e Joan ed era convinto che quello fosse il più bel posto che si potesse immaginare. Ma nonostante questo non seppe rimanere neanche lì. Andò prima in pellegrinaggio sul Monte Athos - "I cori, le preghiere, gli incensi dei monaci aprivano visioni di mondi lanciati su orbite parallele, lampi improvvisi proiettavano universi abbaglianti", scriveva - e poi tornò in Inghilterra, dove lo aspettava l'uscita di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo libro. E che fu un enorme successo, nonostante l'azzardo della tesi sostenuta, secondo la quale i canti degli aborigeni australiani rappresenterebbero mappe del territorio. Il mondo sarebbe avvolto da una rete di canzoni, ognuna guida per il nomade che si sposta nel territorio. Morì il 18 gennaio 1989, due anni dopo l'uscita de Le Vie dei Canti. Le sue ceneri furono sepolte dagli amici sotto un ulivo che guarda al tramonto, accanto alla minuscola chiesetta ortodossa di Agios Nikolaos, a Karadamily, nel Mali, vicino all'entrata del regno di morti. Aveva solo 48 anni, ma era stato dove voleva stare, aveva visto quello che voleva vedere. Era coraggioso, spregiudicato, smanioso, come il suo amico Paddy. Viveva in un tempo nel quale c'era un unico modo per conoscere, e quel modo era andare. Fare esperienza col proprio corpo, camminare, dormire scomodi, mangiare quello che c'è. Adesso viaggiare si dice overtourism, e non ci piace più. Ed è più semplice guardare il mondo da un device che combattere contro i treni in ritardo e senza aria condizionata. Ma è vero? E cosa dovremmo farne di queste nostre vite in cui l'esperienza è stata sostituita dai podcast?
N. d. r. Le due "Storie" sono state pubblicate sul settimanale "d" del quotidiano "la Repubblica" del 31 di agosto 2024.
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