“Raffaele Fitto fitto: dalla Dc al Pnrr, in missione per sé”, testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 30 di agosto ultimo: Raffaele Fitto se ne sta fermo in cima alle verdi valli del Pnrr nazionale, a farsi vento. È vivo e vispo, più o meno come una pala eolica. Non solo perché ne ha la statura e la vivacità nello sguardo, ma perché produce da fermo una costante quantità di energia che gli consente, ogni anno da trent’anni, di amministrare la propria biografia grazie a un’ostinazione familiare e a un karma doroteo che lo portano sempre un po’ più in alto, senza spettinarlo mai. Stavolta – per volontà di Giorgia Meloni, messa con le spalle al muro dalla sua ex amica Ursula – la sua destinazione sarà il nuovo parco eolico di Bruxelles, magari non proprio in prima fila, pazienza, sicuri tutti che saprà rendersi utile e ubbidiente come sempre: sbarbato, profumato, di scuro vestito, con la cravatta azzurra che indossa dalla prima comunione in poi. Giorgia lo comanda con la sola forza dello sguardo blu, meglio di una scudisciata. Dalla seconda rata in poi del Pnrr, gli ha ordinato di annettersi tutti i rubinetti di spesa. Ha ubbidito, infischiandosene dei cento nemici che si accatastavano alla sua porta di ministro plenipotenziario, accusandolo di essere “troppo accentratore”. Proteste alle quali rispose con l’arietta del bimbo che dice “non lo fo per piacere mio”. Subito dopo la ducetta gli ha comandato di smontare le architetture contabili pensate dal geometrico Mario Draghi, stabilendo, con il decreto Sud, la sua sola titolarità su ogni finanziamento a regioni e comuni, per il massimo dispetto di Matteo Salvini che a ogni giro di pala eolica del suo rivale, riempie il tempo vuoto ideando scempiaggini sui social e costruendo castelli di sabbia sulla risacca, solidi quanto la sua Autonomia differenziata e il suo Ponte. La storia di Raffaele, nato proprio in queste ore il 28 agosto 1969, è un apologo delle radici. Le sue sono quelle antiche e solide della Democrazia cristiana e del paesone che gli regalò i natali, Maglie, provincia di Lecce, quello che nella piazza Aldo Moro, celebra il monumento al concittadino Aldo Moro che pensa e guarda lontano, ma così lontano, da avere una copia dell’Unità in tasca, come a dire che (in fondo) Mario Moretti non aveva sbagliato bersaglio. Babbo e mamma, Salvatore e Leda, erano democristiani di massimo potere. Il padre imprenditore, prima fu sindaco di Maglie poi presidente della Regione Puglia. Tutto cancellato dal cattivo destino di un incidente automobilistico sulla statale 7 verso Brindisi, all’ora del tramonto, morti lui e l’autista, finiti a super velocità dentro a un camion. Raffaele quel giorno compiva 19 anni. E rovesciò il suo modo di stare al mondo, niente più calcio, motociclette, ragazzine e prepotenze di svagata gioventù. Disse: “Da quel giorno la mia vita ebbe uno scopo”. E lo scopo fu quello di riempire il vuoto familiare con la politica a tempo talmente pieno da essere eletto in Regione, in capo a un anno, diventando prima il più giovane consigliere della Puglia. Poi addirittura il più giovane presidente della Puglia, anno 2000, stesso scranno del padre, ma con un potere maggiore, vista la sua capacità di presidiare le massime turbolenze di quegli anni, migrando da un nuovo partito all’altro senza mai spostarsi troppo dal suo piedistallo: prima la Dc di De Mita, poi il Partito popolare di Martinazzoli, quindi il Centro di Buttiglione, poi la valanga azzurra di Berlusconi, fino alla fiamma di Giorgia, anno 2019, ultimo giro di pale, per il momento. Lui e lei si conoscono nel 2008, durante il quarto governo Berlusconi, lei ministro della Gioventù, lui degli Affari regionali, lei a recitare il copione dell’Underdog indisciplinato, lui quello del bimbo quieto. Talmente ubbidiente da assecondare Berlusconi anche quando dirà che Vittorio Mangano – il sicario mafioso assunto a Arcore – “è stato un eroe”. Al punto che Silvio lo battezza “pupillo”, nominandolo “mia protesi”, come fosse un favore. Raffaele cresce a immagine del Capo anche nel comparto giudiziario: accumula 14 imputazioni in carriera, per corruzione, peculato, falso e abuso d’ufficio. Reagisce denunciando i suoi giudici, come gli ha insegnato la politica. E quando i magistrati gli contestano 500 mila euro di finanziamento della famiglia Angelucci nella campagna elettorale del 2005, versati alla sua lista “La Puglia prima di tutto”, lui replica: “È un contributo regolarmente contabilizzato”, proprio come faranno tutti gli amministratori a seguire, compreso il collega e amico Giovanni Toti, presidente della Liguria, tanti anni dopo. Strategia vincente, visto che fatta salva qualche condanna in primo grado, Raffaele viene assolto e qualche volta prescritto da tutto, con massimo onore della Camera dei deputati e dei suoi difensori, tra i quali l’immancabile Francesco Paolo Sisto, avvocato di Berlusconi e sottosegretario alla Giustizia. Ma se immacolato resta il suo colletto bianco, tre inciampi scheggiano la sua rotante carriera anche se solo momentaneamente. Due volte viene sconfitto nella corsa alla rielezione della Regione Puglia, prima da Nichi Vedola, anno 2005, poi da Michele Emiliano, anno 2020. E una terza, quando si dimette dall’ombra del Capo, dichiarandosi contrario al cosiddetto “Patto del Nazareno”, l’imbroglio ideato nel 2015 dal macellaio Denis Verdini e dal suo allievo Matteo Renzi, che intendevano insaccare il Partito democratico e cuocerlo alla brace. Per il morbido Fitto è un colpo inaspettato di orgoglio e di pala eolica. Al quale Berlusconi risponde con uno stizzito “vaffanculo!” in pubblico, battezzandolo “parroco di Lecce”, e sentenziando: “Se ne va? Meglio. Ogni volta che va in tv, perdiamo il 4 per cento”. “Sono introverso e non sorrido”, replicò lui, senza perdere il suo grigio umore. Ogni volta rigenerandolo alla fonte battesimale “della Puglia, la mia terra”, intesa non solo come famiglia gelosamente custodita – una moglie, tre figli, nessun pettegolezzo – ma anche come collegio elettorale, alla maniera dei vecchi democristiani che mai si scordavano del bicchier d’acqua agli amici che attendevano in anticamera con le immancabili liste di collocamento in tasca. La terra è il Salento, incorporato da un accento così marcato che Giorgia gli ha appena comandato un corso full immersion di inglese, per prepararsi alle piogge di Bruxelles. Ha ubbidito, ci mancherebbe: Fitto è una risorsa della Repubblica, specialmente la sua.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 4 settembre 2024
MedeinItaly. 31 Pino Corrias: «Fitto è una risorsa della Repubblica, specialmente la sua».
Quesito come al solito irrilevante e
malizioso: s'è mai visto un governo più goffo? Certo, ben altri e più gravi
pericoli mette in evidenza l'esecutivo di destradestra, (…). Incerto è l'etimo
del termine" goffo", segnalato intorno al 1400, derivante forse dal
greco antico, forse dal tardo latino, forse di origine germanica e tale da
coinvolgere in radice gufi, gobbi e chissà quali altre parole. Ma in quel regno
della percezione che è divenuta la politica, la goffaggine risalta in forma di
fatti, persone, comportamenti e perfino proposte di legge che si segnalano per
un imbarazzante, inequivocabile, ma comico mischiane di dabbenaggine, impaccio,
rozzezza, inettitudine e quasi tenero infantilismo. A cominciare dalla premier,
che a suon di smorfiette, "orbe terracqueo", "daje" e
"regà", molto ha perso in spontaneità e sempre più assomiglia alla
macchietta di se stessa, straordinariamente simile a una bambina da cartoon,
ora furibonda, ora capricciosa, ora sguaiata (…). Ma poi ecco tutti gli altri a
farle da corona: il deputato pistolero di capodanno, i dirigenti e le fidanzate
di TeleMeloni, il karaoke dopo la strage di Cutro, gli smaniosi spropositi
dispensati a getto continuo da Lollo, il ministro cognato, i continui sfondoni
che la prosopopea mette in bocca al finto dotto Sangiuliano. Incidenti minimi
rispetto a guai più seri, e tuttavia tali da sommergere nel ridicolo ciò che la
destra dovrebbe tenere in massimo conto: l'onore, il contegno, la dignità. E
invece giorno per giorno tocca annotare le confessioni e gli sfoghi social di
Crosetto; le colorite balle di Santanchè; le continue scuse di La Russa che
prima straparla e poi se ne pente per poi ricominciare; il "carico
residuale" di Piantedosi e altri suoi indimenticabili appelli in tema
immigrati tipo «Fermatevi, veniamo noi a prendervi!». E ancora, ancora, ancora,
lo spritz richiesto da Nordio a una giornalista, il periodico e spasmodico
richiamo della foresta degli staff, le citazioni sbagliate, gli anniversari bucati,
la legge sul tiro a segno nelle scuole, quella sul sovranismo linguistico, il
decreto legge per sistemare Fuortes a Napoli con susseguente tarantella. Di
imbarazzanti e comiche figuracce si riempiono gli annales. Tra goffi e
gaglioffi, dopo tutto, corre appena una sillaba. (Tratto da “Il governo dei goffi” di Filippo
Ceccarelli pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di
agosto 2024).
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