“Culto del sangue e Ius scholae”, testo di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, lunedì 2 di settembre 2024: (…). Intimoriti da un futuro che assomiglia troppo al nostro peggior passato, noi europei abbiamo quasi il timore di dare il giusto nome ai fenomeni, come se l’eufemismo fosse un rimedio e non invece un inganno, l’elusione della responsabilità individuale e collettiva di conoscere, capire e giudicare. Quindi ha perfettamente ragione Michele Serra quando spiega che molto semplicemente “il razzismo è sottolineare l’etnia o la nazionalità di qualcuno quando fa comodo, rafforza i propri pregiudizi e attizza quelli altrui; e considerare etnia e nazionalità irrilevanti quando non giovano alla propria causa”. Ma dietro il moto istintivo che detta ogni volta queste medesime reazioni da parte della destra sovranista c’è un’interpretazione-rappresentazione delle paure che circondano la parte più fragile della popolazione, e l’incapacità di emanciparla da questa angoscia che trasforma in incubo la modernità, qualcosa da cui difendersi invece di viverla. In una formula, è l’idea bio-politica della nazione, che a fondamento del suo divenire non pone i diritti, la cittadinanza, la Costituzione e la libertà, ma ancora e sempre l’identità biologica originaria e perpetua da conservare e proteggere, con l’ethnos che prende il posto del demos, spodestandolo. Torniamo a classificare gli esseri umani, a differenziarli nelle diverse categorie, e inevitabilmente a gerarchizzarli. La presunzione suprema e ingenua di rappresentare proprio noi la “normalità” ci conferisce questo potere di distinzione e ripartizione, che l’ondata migratoria confonde e sconvolge, portandoci a dividerci in “noi” e “loro”. La politica di destra intravvede un mercato nel cittadino solo, spaesato, che dopo non essere mai uscito dai confini del Paese si trova improvvisamente globalizzato a casa sua, e lo incoraggia a trasformare “loro” in un pericolo permanente. Il migrante diventa l’avversario, anzi il contendente: cercando lavoro, entra da concorrente nel nostro stesso mercato, e qui si stabilizza, sviluppando un’aspettativa progressiva dei diritti, del welfare, della cittadinanza. Qui nasce il conflitto, perché l’intruso pretende quasi di diventare come noi, mentre l’epoca in cui viviamo ha scatenato insicurezze che rovesciano la lunga marcia centenaria di trasformazione della solidarietà in diritti, e oggi al contrario il diritto si snatura in privilegio, rifiuta condivisioni, diventa riserva indigena. La destra costruisce nel migrante il nemico, il concorrente, lo sfidante, il diverso, l’abusivo, il clandestino, portatore della povertà come moderna colpa, insieme col peccato d’origine, ineliminabile. Trova in questa figura una politica già pronta, dove indirizzare il risentimento per il senso di spoliazione, di regressione sociale, di spaesamento repubblicano, di delusione per la democrazia, divenuta una passione triste, di cui si può fare a meno. In più, la tipizzazione dell’“altro” nell’uomo di colore sbarcato dalla disperazione nel nostro mondo con la pretesa di sopravvivere, classifica inevitabilmente anche noi, nella categoria dell’uomo bianco: ciò che certamente noi siamo, ma anche ciò che non ci definisce compiutamente, perché rifiutiamo di rinchiuderci nel catalogo biologico della nostra pelle per cercare espressione e identità in tutto ciò che abbiamo incontrato, conosciuto, studiato e condiviso. Ma spacciando paure si vive dentro un orizzonte di angoscia, come sotto assedio. Guardiamo il passaggio già avvenuto dalla concezione di Paese e di Stato al concetto ideologico di Nazione, brandito dal governo insieme con il monito del ministro Lollobrigida secondo cui «l’etnia italiana è da tutelare», e con l’antico impegno di Meloni al Forum di Budapest davanti a Orbán: «Dobbiamo difendere Dio e la nostra civiltà»: ne deriva un’idea di comunità nazionale non fiduciosa nel futuro perché basata sull’eguaglianza dei cittadini nei diritti e nei doveri, ma chiusa nella tutela della discendenza, nella catena etnico-genealogica, cercando una garanzia per la preservazione dei suoi valori sacri - Dio, Patria, famiglia - nella trasmissione generazionale tra padri e figli. È come se la destra si sentisse custode del sacro Graal dove si preservano i fondamenti ancestrali del mito originario che continua a coltivare: terra, sangue, pelle. E nello stesso tempo avvertisse l’angoscia per la fragilità di questa essenza collettiva della Nazione, che nel momento in cui diventa biologica o almeno bio-politica è minacciata inevitabilmente dalla contaminazione, dalla caducità, soprattutto dal rischio della dispersione identitaria, nel nulla o nel tutto del mondo globalizzato. Fuori dal mito, e dentro la storia, c’è la verità del Paese reale, difficile da interpretare per una destra che rifiuta la religione laica del patriottismo costituzionale a disposizione di tutti, inseguendo un’idea di comunità nazionale concepita come genealogica e antropologica ma che giorno dopo giorno diventa sempre più semplicemente ideologica.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 2 settembre 2024
Lavitadeglialtri. 38 Ezio Mauro: «L’idea bio-politica della nazione».
Nella vita di ognuno esistono momenti -
quando la porta sbattuta all'improvviso e senza alcun visibile motivo di colpo
si riapre, quando lo spioncino chiuso un attimo fa viene di nuovo aperto,
quando un brusco "no" che sembrava irrevocabile si muta in "forse",
momenti in cui il mondo intorno a noi si trasfigura, e noi stessi ci riempiamo
di speranza come di nuovo sangue. È stata concessa una proroga a qualcosa di
ineluttabile, definitivo; il verdetto del giudice, del dottore, del console, è
stato rinviato. Una voce ci avverte che non tutto è perduto. E con gambe
tremanti e lacrime di gratitudine passiamo nel locale adiacente. dove ci
pregano di "aspettare un poco" prima di spingerci nel baratro. Così
accadde anche a me quella sera, quando accanto a Ejnar facevamo la fila
aspettando l'autobus che avrebbe portato all'aeroporto Le Bourget i passeggeri
in partenza per Stoccolma. Lui partiva, io restavo. Tra la folla, nel buio
crocevia parigino (era il 2 settembre 1939), alle nove di sera, non c'erano
altri accompagnatori oltre me - li avevano fatti restare tutti nella sala con
le nere tende già tirate. (Tratto da “Il giunco mormorante” di Nina Berberova, 1988).
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