Se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi, i bricchi ed i crepacci e il vento di marenca.
Se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi, quando saremo vecchi ne avrem da raccontar, quando saremo vecchi ne avrem da raccontar.
La mia mamma mi diceva: "Non andare sulle montagne, mangerai sol polenta e castagne, ti verrà l'acidità, mangerai sol polenta e castagne, ti verrà l'acidità".
La mia morosa mi diceva: "Non andare con i ribelli; non avrai più i miei lunghi capelli sul cuscino a riposar, non avrai più i miei lunghi capelli sul cuscino a riposar".
Se non ci ammazza i crucchi, ecc.
Questa notte mi sono insognato che ero sceso giù in città, c'era mia mamma vestita di rosso che ballava col mio papà, c'era mia mamma vestita di rosso che ballava col mio papà.
C'era i tedeschi buttati in ginocchio che chiamavano pietà,
C'era i tedeschi buttati in ginocchio che chiamavano pietà.
C'era i fascisti vestiti da prete che scappavan di qua e di là, C'era i fascisti vestiti da prete che chiamavano pietà.
Se non ci ammazza i crucchi, ecc.
Tratto da “Se non ci ammazzan i crucchi”. Editoriale: “Davvero notevole questo testo, in cui si descrivono in chiave scherzosa e dissacrante le privazioni a cui erano sottoposti i combattenti. È stato raccolto dal premio Nobel Dario Fo dalla viva voce di un partigiano di Porto Val Travaglia (VA). L'informatore faceva parte della banda del colonnello Carlo Croce operante nella zona di Varese, che fu decimata durante la battaglia di San Martino del 12-15 novembre 1943. È bene ricordare che per "crucchi" si intendono i tedeschi, i "bricchi" sono le rocce, infine il "vento di marenca" è il maestrale”.
“E papà Welby, terzino della Roma, si salvò scappando da Fossoli” di Daniele Castellani Perelli pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di aprile 2024: «Tutti i pomeriggi mia madre mi pettinava per bene e mi metteva il fiocchetto. Uscivamo fuori, portavamo una seggiolina vicino all’albero e aspettavamo che papà tornasse». Carla Welby, 81 anni, insegnante in pensione, ricorda il papà Alfredo, classe 1910, uno dei 750 rastrellati del Quadraro. Carla è la sorella di Piergiorgio, il noto attivista per il diritto all’eutanasia, affetto da distrofia muscolare, a cui la Chiesa non concesse il funerale religioso. Accanto a Carla c’è oggi Mina Welby, la moglie di Piergiorgio che tra aneddoti allegri la aiuta a ricordare la figura di Alfredo: «Mio suocero prese il posto di mio padre», sorride Mina. Alfredo Welby, va detto subito, era stato tra le altre cose il terzino sinistro della Roma, con cui giocò dalla fondazione, nel 1927, al 1931, quando venne venduto alla Reggina. Era alto un metro e 95 («Anche in fanteria vestiva da alpino perché lì non aveva una divisa che gli andasse bene»), ma soprattutto viene ricordato come un uomo buono: «Era considerato un gentiluomo persino sul campo di calcio. Una volta si mise dietro al portiere, che si era infortunato ma non poteva essere sostituito, e lo manovrò come al biliardino». La mattina del 17 aprile 1944 venne preso dai nazisti per caso. Abitava infatti da un’altra parte, ma era andato a trovare la madre al Quadraro, a via dei Pisoni, ed era rimasto lì a dormire visto che il coprifuoco allora era stato anticipato alle 16: «In quella casa c’era anche il cognato, che aveva fatto parte della guardia del corpo del Duce e non fu rastrellato. Cercò di impedire la deportazione di mio padre, ma i nazisti lo colpirono con il calcio del fucile – dice Carla, che al tempo aveva un anno – Si sparse la voce che fossero stati portati a Cinecittà e tutti i familiari andarono davanti ai cancelli. Mia madre era disperata, anche perché tra l’altro senza papà, che lavorava alla Mater, un’azienda di grandi motori dell’Alberone, saremmo rimasti senza soldi. Le prime notizie le avemmo tramite la Croce Rossa a inizio maggio, lui era già a Fossoli, la sua nuova identità era un numero, il 695». Dal campo di Fossoli gli altri «quadraroli» vengono portati via verso Nord il 24 giugno. Welby invece rimane, probabilmente non sta bene e dunque non potrebbe fare per il momento lo schiavo in Germania. Un giorno di luglio viene organizzato un trasferimento di malati. Un compagno che dorme in cuccetta sotto di lui muore nella notte, Welby gli sottrae il cartellino, nasconde il cadavere e prende il suo posto nel gruppo che esce da Fossoli. C’è scarso controllo, forse le guardie hanno paura dei tubercolotici, fatto sta che l’ex terzino della Roma fugge dal camion durante una sosta, quando è ancora in Emilia-Romagna. Si nasconde in un casolare, dove il proprietario lo soccorre ma poi gli chiede di andarsene, per paura che i nazisti lo stiano cercando. Welby arriva in una Firenze divisa e ha di nuovo fortuna: «Incontra una conoscente, che lavora in un istituto per ciechi. Lì trova rifugio, finché gli altri ospiti non si accorgono che tra loro… c’è qualcuno che ci vede. Il posto non è più sicuro e deve andarsene». In qualche modo raggiunge la campagna tra la Toscana e il Lazio, dove probabilmente viene aiutato da dei parenti. La famiglia intanto si è trasferita all’istituto di suore Ancelle del Santuario, alla Garbatella: «Lì mia zia era una superiora e ci sentivamo più al sicuro, anche se la zona all’inizio era bombardata dagli americani a causa della stazione ferroviaria, addirittura vennero trovati dei pezzi di binari sui terrazzi – racconta Carla – È lì, all’istituto, che tutti i pomeriggi lo aspettavamo. Forse a quel punto i miei erano riusciti a comunicare, perché un giorno, mentre aspettavamo, papà tornò. Era il 22 agosto del 1944. Aveva la barba lunga ed era affamato». Alfredo Welby avrebbe ricominciato a lavorare per la Mater, e il 26 dicembre del 1945 nacque anche Piergiorgio. Ma questa è un’altra storia. Alfredo Welby è morto nel 1998. «Non aveva voglia di parlare di quel periodo, mentre ci raccontava nei dettagli tutte le sue partite con la Roma e i suoi gol, era specializzato nei penalty. Il rastrellamento lo segnò, aveva un forte senso della giustizia e con quell’esperienza gli crollò il mondo addosso, gli tolse un po’ della sua fiducia negli uomini. Ma fu un super papà, ci ha molto rispettato e ci ha insegnato a non avere paura di niente».
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