"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 24 maggio 2024

Piccolegrandistorie. 73 Elena Stancanelli: «L'imam Yutubi è più forte di qualsiasi verità, dell'evidenza e anche del buonsenso. È come la voce delle sirene di Ulisse, e finirà per farci affogare tutti quanti».


(…). …succede una cosa che fa gelare il sangue. Una in particolare, tra decine di cose che fanno gelare il sangue (…) che segue l'apocalisse degli ulivi in Puglia. Praticamente scomparsi per colpa di una catena di scelte scellerate che hanno impedito di contenere il terribile batterio Xylella, arrivato in Italia dal Costa Rica nascosto in una pianta ornamentale. E tutte queste cose che fanno gelare il sangue non riguardano la natura e la sua inesorabile vocazione al disastro, ma noi esseri umani. Che, a differenza di un organismo unicellulare, abbiamo inventato la chimica, la biologia, la medicina... ma preferiamo affidarci alla superstizione. Che ci conforta, soprattutto quando il nemico si presenta nel peggiore dei modi. Eradicare piante secolari, millenarie, accollarsi l'arbitrio di modificare per sempre il paesaggio di un'intera regione, scegliere senza pietà il male minore - che rimane comunque un male gigantesco - è difficilissimo. Molto più semplice pensare, come facevano i nonni, che gli ulivi non muoiono mai e quindi basta un po' di rame, una sciacquatina, iniezioni di fiducia e riposo. Sarebbe bello, ma non è così. E non perché lo dico io (…), o le decine di scienziati che se ne sono occupati subendo minacce e persecuzioni giudiziarie. Ma perché gli ulivi sono morti, e questo è un fatto inequivocabile. Abbiamo permesso che l'epidemia si allargasse a dismisura mentre ci scannavamo tra di noi, qualcuno si legava ai tronchi, altri invece obbedivano ma inutilmente perché il vicino, disobbedendo, permetteva al batterio di scorrazzare in pace.  (…). La rovina delle nostre esistenze, e in questo caso dei secolari, millenari alberi di ulivo delle campagne pugliesi. Dicevo che tra tutte le cose che fanno gelare il sangue (…) n'è una in particolare la cui storia dovremmo incidere su tutti i muri, ci dovremmo fare le magliette, dovrebbe essere il disclaimer che appare appena accendiamo il computer, o scrolliamo un social. Alla ricerca di puntelli scientifici, il Popolo degli Ulivi, organizzazione che contesta l'eradicazione come tattica di contenimento del batterio, attribuisce ad Alexander Purcell, professore emerito di Berkley, massimo esperto di Xylella della vite, una frase, che avrebbe detto durante un workshop a Bruxelles: «Non fate il nostro errore: contro la Xylella gli abbattimenti non servono a nulla». La frase diventa il mantra dei negazionisti, rimbalza sui giornali, viene usata dai magistrati e dai politici. Ma Alexander Purcell quella frase non l'ha mai detta. Ed è facile riscontrarlo, visto che di quella frase, nella registrazione del workshop, non c'è traccia. Oltre al fatto che il professore, esterrefatto, ha sempre con pazienza spiegato che non solo non l'ha detta, ma è esattamente l'opposto di quello che lui pensa e la scienza dimostra. Ma l'imam Yutubi è più forte di qualsiasi verità, dell'evidenza e anche del buonsenso. È come la voce delle sirene di Ulisse, e finirà per farci affogare tutti quanti. (Tratto da “L’ha detto l’imam Yutubi” di Elena Stancanelli, pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di maggio 2024).

“Amare la lentezza degli alberi”, racconto di Tahar Ben Jelloun pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 21 di maggio 2024: (…). I “miei” alberi. Nella vostra memoria, nei vostri occhi e nella vostra carne, probabilmente ce ne sono molti altri. Io ho un temperamento impaziente, ma mi piace anche la lentezza. Ricordo che mia madre amava cucinare la carne nella tajine sulla carbonella. Ci voleva tutta la mattina. Quando tornavo a casa affamato da scuola, la carne non era ancora cotta e mi lamentavo con lei: perché non usava una cucina a gas come quella della zia, simbolo di ricchezza e modernità nello stile di vita? Mi rispondeva sempre: «La buona cucina non si fa in fretta. Una tajine cotta al fuoco del gas perde la sua delicatezza. La carne è costretta a diventare tenera. È qualcosa di artificiale». La lentezza è un valore essenziale – continuava mentre si affaccendava intorno al pasto. Spesso mi faceva l’esempio degli aranci piantati intorno alla grande casa di sua sorella. Producevano fiori bianchi in primavera. Armata di una canna, mia madre agitava i rami per far cadere i fiori in un grande lenzuolo posato per terra. Poi li faceva cuocere a vapore in una pentola di couscous per recuperare quella che chiamava «l’acqua di fiori d’arancio», con il suo profumo dolce e rinfrescante. Gli alberi hanno bisogno di tempo per crescere, svilupparsi e resistere per diversi decenni, o addirittura per un secolo o due, e noi a nostra volta dobbiamo prenderci il nostro tempo. La loro vita è un tributo alla lentezza. Nascere, crescere, difendersi, ammalarsi e morire. Lentamente, sicuramente. L’uomo ha un problema con il tempo. Gli alberi, invece, non ne hanno. Vivono senza fretta, senza fare rumore, senza agitarsi nervosamente. A volte le persone si sottopongono a cure, corsi o ritiri per imparare la lentezza e la pazienza e raggiungere una certa leggerezza di vita. Gli alberi non ne hanno bisogno. Vivono al loro ritmo e non si preoccupano del resto del mondo. Un poeta scrisse una volta: «L’albero, dove l’uccello e il tempo vanno a nidificare»… Quando lessi quelle parole, ebbi la sensazione che si creasse un posto speciale nel mio cuore per tutti gli alberi della mia vita, quelli che mi avevano offerto e mi offrono tuttora un rapporto diverso con il tempo. Quelli che aiutano a invecchiare, fra l’altro. L’uomo, vedo, si piega verso il suolo. L’albero, invece, invecchiando acquista una splendida verticalità. Accumulare gli anni e tendere al cielo: una lezione che mi accompagna ogni giorno. (…). Il tempo degli alberi si estende in lunghezza; ripetono un ciclo, incarnando il rinnovamento perpetuo. Il platano, l’alloro, il cipresso, la quercia, il faggio, il pino, ma anche gli alberi da frutto, come ad esempio il melo, il pero, il gelso, il melograno, l’arancio, il limone, il fico, l’ulivo: tutti seguono un ciclo e la vita che rinasce. Ogni stagione è uno spettacolo. Cominciamo con l’autunno, la mia stagione preferita. I boschi assumono i colori del fuoco. «I larici si coprono con cuffie e pellicce di pelli di marmotta, gli aceri si avvolgono in gambali rossi, indossano pantaloni alla zuava, si avvolgono in mantelli da boia, portano berretti alla Borgia…», scrive Jean Giono nel suo Un re senza distrazioni. L’albero si illumina: rosso, arancione, giallo, marrone. Poi perde le foglie e comincia a spogliarsi. La linfa, che è come il sangue dell’albero, smette di circolare. Le foglie non sono più nutrite, si seccano e cadono. Abbandonate a terra, coprendo il suolo, vengono presto portate via dal vento e dallo spazzino. Non svolgono più la loro funzione: collaborare con le radici perché la pianta assorba la giusta quantità di acqua. L’albero si separa dalle foglie solo quando sa che ha una riserva d’acqua sufficiente per la primavera successiva. Calcola, stima e misura. Nulla avviene a caso. Ogni albero ha il suo momento. A ciascuno il suo temperamento e le sue necessità. In inverno, quando gli alberi sono a riposo, recuperano le forze. Possono sembrare morti, ma in realtà dormono. In primavera, si danno da fare, facendo crescere le gemme e facendo diventare verdi gli steli. Le foglie producono zucchero grazie all’acqua, all’aria e alla luce, e questo zucchero alimenta gli alberi in crescita. In estate sono splendenti. I fusti sono più scuri perché più spessi. La parte nuova e tenera dei rami si trasforma in legno. Lo zucchero viene immagazzinato nella linfa, in previsione dell’inverno. Come passano da una stagione all’altra? Come fanno a sapere che è il momento di cambiare abito, di mettersi in ghingheri, di rinnovare le forze o di andare in letargo? Mentre giro tra i loro tronchi, intuisco che è la luce a indicare le stagioni. Gli alberi riconoscono la fine dell’inverno dal calore e dalla durata del giorno. I faggi, per esempio, iniziano a diventare verdi solo se vengono esposti alla luce per almeno tredici ore al giorno. Questa sensibilità alla luce è probabilmente localizzata nelle foglie, ma anche nel tronco, la cui corteccia ospita piccoli germogli, piccole foglie, in grado di rilevare la luce. Così, se si ripianta una quercia o un faggio dell’emisfero settentrionale nell’emisfero meridionale, non avrà problemi ad adattarsi all’inversione delle stagioni. Nel corso della mia lettura, pagina dopo pagina, anno dopo anno (anch’io sono una vecchia quercia che prospera con l’età), ho imparato che gli alberi sanno contare. Sanno quanti giorni caldi ci sono e calcolano che dopo di loro arriveranno le mattine fresche e umide. Ma cosa succede quando il cambiamento climatico riscalda l’inverno, brucia l’estate, inaridisce o inonda interi mesi del nostro calendario? Come faranno i nostri alberi a sapere quando cadranno le foglie e quando sarà il momento di far crescere nuovi germogli?

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