“La bassa marea dell’etica politica”, testo di Massimo Giannini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, sabato 18 di maggio 2024: L’arte “vede” tutto, molto prima che accada. La letteratura si immerge nell’abisso, per poi venire a riferirci cosa ha visto. Nel 1963, Italo Calvino aveva già capito tutto. “La speculazione edilizia” ci ha raccontato quello che avremmo poi visto infinite volte, tra il sacco delle città e gli ecomostri delle coste, la gigantesca Tangentopoli nazionale dei primi anni ’90 e le Mazzettopoli locali dei decenni successivi. Fino ad arrivare ad oggi, a questo scandalo della “Liguria da bere”: copia sbiadita della Milano bevuta da Craxi e poi liquidata dal Pool di Mani Pulite, ma in fondo non molto diversa. L’inchiesta giudiziaria di oggi, come quel profetico romanzo di ieri, non rendono allo stesso modo “il senso di un’epoca di bassa marea morale”, per usare le stesse parole di Calvino? Il Quinto Anfossi del libro, intellettuale che decide di cavalcare fino in fondo lo “spirito dei tempi”, non è forse un antesignano di Giovanni Toti, giornalista che decide di attraversare la scivolosa “terra di mezzo” tra politica e affari? E il quadro d’insieme, prima letterario poi giudiziario, non riflette allo stesso modo il medesimo “fallimento individuale all’interno di una decadenza collettiva”? (…). A capotavola siede la Politica, affamata del denaro che non ha. Cioè Toti e il suo cerchio magico, che in qualche modo ha fatto già “sistema”. Sale e scende in continuazione dallo yacht di Spinelli, e ogni volta ripete la stessa domanda: “Ma Aldo ci dà i soldi?”. Poi gli parla direttamente, a cuore e a portafoglio aperto: “Quando ci saranno le elezioni dammi una mano…”. Il suo capo di gabinetto alla Regione, Matteo Cozzani, spiega all’amica deputata Ilaria Cavo il baratto tra i voti nell’urna e i posti di lavoro per gli amici: “Qui è come la mortadella, poca spesa tanta resa…”. Teme per il suo imminente incontro con Arturo e Italo Testa, i gemelli siciliani di stanza a Boltiere per conto dell’Associazione Riesini nel Mondo e, a quanto pare, anche di Cosa Nostra: “O mio dio, i Riesini no… quelli mi squartano”. Con la parlamentare forzista Manuela Gagliardi è ancora più esplicito: “Mi frega solo che un bel giorno non vorrei trovarmi la Direzione Antimafia in ufficio…”. Dall’altro lato del tavolo ci sono le mosche del Capitale. Gli industriali che di denaro ne hanno tanto, ma ne vogliono sempre di più e per questo foraggiano il Palazzo. Il sindaco Bucci descrive bene la mangiatoia in banchina: gli imprenditori gli ricordano “i maiali a cui davo le ghiande da piccolo”, e l’assalto al porto gli “sembra una porcilaia”. Su quest’avida comunità dei “suini” comanda Spinelli, il Grande Elemosiniere che ammette “ho dato soldi a tutti, al Pd, alla Paita, a Pannella, a Bonino”. Ma soprattutto a Toti, naturalmente, “le cose elettorali le ho sempre date a lui, abbiamo fatto il Festival della Scienza, il Festival dei Fiori, abbiamo fatto il Palazzo San Lorenzo, abbiamo dato contributi alle chiese…”. Roberto, figlio dell’ex patron del Genoa Calcio, ammette: “Mio padre non si conteneva, a un certo punto abbiamo anche pensato di chiedere un amministratore di sostegno…”. (…). Chiamatela come volete: la nuova Questione Morale o il solito Vecchio Malaffare. (…). L’inchiesta genovese smentisce chi, troppo trionfalmente, va affermando che la corruzione è un problema ormai superato. E soprattutto dimostra che il nodo dei costi della politica non l’abbiamo sciolto né con il referendum che ha abolito il finanziamento pubblico, né con la legge Spazzacorrotti varata dai gialloverdi nel 2019. Le risorse drenate attraverso le Fondazioni continuano a fluire in una zona grigia, dove è difficile distinguere il chiaro dal nero e il lecito dall’illecito. Finché ci sarà opacità nel rapporto tra chi esercita il potere politico e chi possiede quello economico, la corruzione la farà sempre da padrona. E andrà sempre peggio, se chi governa sfascerà definitivamente l’ordinamento giuridico, abolendo il reato di abuso d’ufficio e depotenziando quello del traffico d’influenze, mettendo il bavaglio sulle intercettazioni e vietando l’uso del trojan, separando le carriere tra giudici e pm e istituendo un secondo Csm controllato dalle maggioranze. Serve tutt’altro. Riforme vere della giustizia, nell’interesse esclusivo dei cittadini inermi e non dei colletti bianchi. (…). Non ci sono pasti gratis, nella Res publica. E non c’è democrazia, senza i partiti. La lunga stagione dell’antipolitica al comando - in un Paese sopravvissuto a Tangentopoli e poi al berlusconismo - è stata forse inevitabile. L’odio per la Casta, l’uno vale uno, il Parlamento aperto come una scatola di tonno, la cuoca di Lenin seduta sugli scranni di Montecitorio, la foga qualunquista e giustizialista del “rubano tutti, tutti in galera”. In un’Italia stremata dall’inconcludenza dei partiti e dalla supplenza dei tecnici, un lavacro così devastante è stato persino necessario. Gli stessi politici si sono prestati, all’insegna del vecchio motto populista: devo seguirli, sono il loro leader. Ma oggi non si può più fare a meno di recuperare, insieme all’onestà, la dignità e la legittimità della politica. (…). Con una legge seria e rigorosa, che magari disciplini una volta per tutte anche il conflitto di interesse, che il Cavaliere di Arcore ha tramandato in tanti lasciti minori ad Angelucci e ai suoi eredi. Sembra impossibile anche solo pensarlo, con l’aria che tira nella coalizione delle tre destre. Ma poi non si lamentino, di fronte alle tante altre Ligurie che verranno. Perché “in questo gioco - come scriveva sessant’anni fa lo stesso Calvino, in quella sua fulminante allegoria della nazione - sono sempre i peggiori che vincono”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 18 maggio 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 77 «Scriveva sessant’anni fa Calvino, in quella sua fulminante allegoria della nazione - sono sempre i peggiori che vincono».
“Cosìhanfattosempretutti”. “Mazzette a tutti e pizzo alla mafia” di Massimo Novelli pubblicato
sul periodico mensile “Millennium” del 13 di aprile 2024: T. S.
Eliot scrive in una poesia che "aprile è il più crudele dei mesi". Il
9 aprile 1997 non fu un giorno particolarmente malvagio a Torino, e non generò “lillà
da terra morta”, come dice il poeta, anche se già nel pomeriggio la temperatura
si abbassò di vari gradi. Ma per la Fiat e per il suo presidente, il romano
Cesare Romiti (…) quel 9 aprile fu cattivo e confuse, quanto nei versi di
Eliot, "memoria e desiderio". Alle 18.55, infatti, Francesco Saluzzo,
giudice delle indagini preliminari del tribunale torinese, pronunciò la sua
sentenza. In nome del popolo italiano, condannava Romiti a un anno e sei mesi
per falso in bilancio, finanziamento illecito ai partiti e frode fiscale; e a
un anno e 4 mesi Francesco Paolo Mattioli, direttore finanziario del gruppo. Il
processo si era tenuto a porte chiuse, come imposto dal rito abbreviato scelto
dai legali dei due imputati. Pur nell'assenza del pubblico e della città, si
trattava di una sentenza storica. Dimostrava che la Fiat, come tutti e più di
tutti i grandi gruppi, aveva pagato tangenti milionarie e miliardarie per avere
appalti, commesse, protezioni. Lo aveva fatto attraverso i fondi neri celati
tanto in Svizzera quanto nei paradisi fiscali delle Antille Olandesi e delle
Bahamas, finanziando il Psi di Bettino Craxi e la Dc, foraggiando pubblici
ufficiali e versando denaro alla mafia catanese di Nitto Santapaola, oltre due
miliardi e mezzo di lire, per scongiurare gli attentati ai supermercati della
Rinascente. La sentenza, inoltre, testimoniava che l'azienda poteva essere
processata e condannata a Torino, la città in cui era sempre rimasta impunita
(dal processo del 1909-13, per falso in bilancio, a quello al senatore Giovanni
Agnelli e a Vittorio Valletta per collaborazionismo), e di cui era stata
padrona assoluta, come lo erano stati i Savoia, per un secolo. Sempre corretti.
Persino La Stampa, quotidiano della famiglia Agnelli, dovette mettere la
notizia sull'esito della tangenti-story in prima pagina, dando spazio alla
dichiarazione dell'Avvocato, al secolo Gianni Agnelli, presidente d'onore della
Fiat: "Rispettando il verdetto del giudice, ritengo che l'operato di
Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli in tanti anni di proficua
collaborazione sia sempre stato corretto". Per i magistrati, però, troppo
corretto Romiti non era stato, visto che la Corte d'appello di Torino, nel
maggio 1999, e poi la Corte di cassazione, nell'ottobre 2000, ne confermarono
la condanna, sia pure ridotta prima a un anno e quindi a undici mesi e dieci
giorni. Poi ci pensò il governo di Silvio Berlusconi, che depenalizzò il reato
di falso in bilancio, mentre per Mattioli intervenne la solita prescrizione. Con
l'eccezione dei lettori dei rari giornali non allineati ai diktat del potente
ufficio stampa Fiat, l'Italia ignorò quell'inchiesta esplosiva originata da un
esposto del par-lamentare leghista Mario Borghezio, corroborata dalle indagini
del pool milanese di Mani Pulite e che venne condotta per quasi quattro anni
dai pubblici ministeri subalpini Marcello Maddalena, Giangiacomo Sandrelli e
Giancarlo Avenati Bassi. Più risonanza avevano avuto nell'Italia regia i
processi intentati tra il 1909 e il 1913 ai vertici dell'azienda
dell'automobile, accusati di avere alterato i bilanci. Naturalmente tutto era
finito con l'assoluzione di Giovanni Agnelli, il nonno dell'Avvocato, che si
avvalse dell'aiuto del giovane Vittorio Valletta, perito commerciale passato,
nel corso del dibattimento, dalla parte lesa agli imputati. La pressione sui
mass media, per censurare o non far scrivere i cronisti, fu massiccia e ottenne
buoni risultati. Toccare quell'azienda era una lesa maestà. E a Torino, cioè
nell'allora Fiatopoli, cominciarono a circolare voci secondo cui Romiti e
Mattioli sarebbero stati sicuramente assolti. Si parlò di contatti attivati ad
alto livello, forse a Roma, che avrebbero dovuto fermare la magistratura. La
migliore risposta si ebbe con la sentenza, che gli avvocati del padrone
definirono "ingiusta". Ciò che non si esaurì fu la strategia del
silenzio su Romiti e soci da parte di giornali e telegiornali, e pure del mondo
della politica, anche dopo la sentenza di Saluzzo. Il rischio ora era che si
parlasse della nuova indagine della Procura di Torino, che aveva deciso di
accertare il ruolo avuto nelle vicende tangentare dai membri del comitato
esecutivo del Gruppo: l'Avvocato, Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti, Franzo
Grande Stevens e Mario Monti, indagati per falso in bilancio. Potevano non
sapere, come Romiti aveva sostenuto per se stesso? Poteva Gianni Agnelli non
essere a conoscenza dei fondi neri e delle tangenti sborsate dal suo gruppo?
L'inchiesta sull'Avvocato, a ogni modo, non approdò a niente. Il dottor Romiti,
quando era stato interrogato a Torino, aveva lasciato intendere che Gianni e
Umberto sapessero delle mazzette, ma infine si fermò, non proseguendo oltre su
quel versante assai pericoloso. La Stampa poté dare conto dell'archiviazione il
20 ottobre 1998, riferendo con accento burocratico, ma lieto, che "si è
chiuso con l'archiviazione il procedimento della Procura che interessava l'ex
presidente della Fiat Giovanni Agnelli e i membri del comitato esecutivo (di
cui faceva parte anche Umberto Agnelli)". Il giornale non riportò invece
quanto la gip scrisse nel suo provvedimento: "È storicamente provato che
Agnelli (Gianni, ndr), negando le tangenti Fiat, mentì agli azionisti, ma non è
provato che ne fosse al corrente. Sulla conoscenza sua e degli altri quattro
rimane perlomeno un ragionevole dubbio". Mosconi e gli altri. Non avevano
avuti dubbi i magistrati milanesi, dal procuratore capo Francesco Saverio
Borrelli ai pm Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Antonio Di Pietro, quando fra
il '92 e il '93 si erano imbattuti nelle mazzette pagate da alcuni manager della
galassia Fiat, come Luigi Caprotti, Giancarlo Cozza, Francesco Paolo Mattioli,
Antonio Mosconi, Enso Papi, per ottenere commesse. Tra le prime ammissioni e le
reticenze degli indagati, ai quali i legali della Fiat avevano detto (come a
Papi) di non parlare, il pool di Mani Pulite aveva sfiorato e pure indagato
Romiti. Tuttavia l'ex presidente di Snia Bpd, approdato a Torino a metà degli
anni Settanta, protagonista della massiccia ristrutturazione di Fiat Auto e
della lotta dura contro i sindacati, non sembrava ancora seriamente nei guai.
La Procura torinese, competente per i reati di bilancio della Fiat, aprì le
ostilità. Al boss di corso Marconi, quartier generale del gruppo, oltre che per
le indagini di Milano si arrivò con le inchieste sulla Tangentopoli sotto la
Mole e in particolare per l'esposto del novembre 1992 di Borghezio. In veste di
piccolo azionista Fiat, il deputato denunciò come l'Ifi, holding del gruppo
Agnelli, avesse addomesticato i bilanci per coprire quelli truccati di Fiat
spa. Il 9 giugno 1993, Romiti fu iscritto nel registro degli indagati della
Procura di Torino. Venne il resto: circa 1400 giorni di investigazioni, oltre
300 interrogatori, 40 manager inquisiti e 350 perquisizioni, il tutto racchiuso
in 33 faldoni. Era una tangenti-story, certo. (…). Nassau-Svizzera-Catania. Non
mancò neppure, nel corso dell'inchiesta, la ricostruzione del modo in cui venivano
versate le tangenti al clan di Nitto Santapaola. Ci sono imprenditori che si ribellano
al pizzo e muoiono ammazzati, un colosso come la Fiat, invece, con Cosa Nostra
tratta e paga il dovuto: 2 miliardi e 638 milioni di lire. La vicenda emerge
alla fine del 1993, quando a Milano due magistrati della procura di Catania
interrogano Giuseppe Tramontano, amministratore delegato della Rinascente
(gruppo Fiat). Il manager conferma i versamenti, fatti per scongiurare
attentati contro la Sigros, rilevata dalla Rinascente. Transitato da una banca
di Nassau della Fiat, il denaro è reso disponibile sul conto
"Roulette" del Credit Suisse di Mendrisio. Poi ci pensano gli
spalloni a portare le mazzette in Sicilia. Ma alla Fiat non verrà contestato
dai giudici torinesi il reato di falso in bilancio: gli atti da Catania
arrivano troppo tardi, e Tramontano è morto. E a inchiodare il presidente della
Fiat giunse addirittura un memoriale di Bettino Craxi, dalla latitanza di
Hammamet. L'ex segretario socialista confidò ai pm di Torino che era stato
eseguito, su un "conto estero", un "versamento di 4 miliardi,
proveniente da una banca della Fiato utilizzata dalla Fiat". Era "del
tutto evidente e certo", scrisse Bettino, "che Balzamo (Vincenzo
Balzamo, l'amministratore del Psi, ndr) si rivolse per una richiesta di contributi
all'ing. Romiti e non ai suoi sottoposti". Il resto è quei tre gradi di
giudizio, che confermarono la condanna di Romiti. In un Paese normale, tutto
ciò sarebbe bastato per mandarlo almeno in pensione. Non fu così. Lasciata la
presidenza Fiat, ma solo nel '98, venne nominato in seguito presidente del
gruppo Rcs Editori. Anche poco prima della sentenza del 9 aprile '97, del
resto, mentre fuori dal palazzo dei gip di piazzetta della Visitazione, nel
cuore della Torino medievale, i sindacalisti dello Slai-Cobas gridavano che a
"quello lì" avrebbero dovuto dare l'ergastolo, "quello lì",
il dottor Romiti, partecipava a una tavola rotonda della rivista Liberal
diretta da Ferdinando Adornato. Intervenne, fu intervistato. Non una parola sul
suo processo, ma spazio alle sue dichiarazioni a proposito della classe
dirigente "pigra e insensibile", di cui lui, condannato per tangenti
e frode fiscale, avrebbe sempre fatto parte.
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