«“Mi manda
Silvio…”. Il ciambellone di B. s’è fatto ciambellano», testo di Pino
Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di maggio 2024: Da
ciambellone della Buonanima, Antonio Tajani s’è fatto ciambellano. C’è la terza
guerra mondiale alle porte, vabbè, ma lui ha altro da fare. Ha eredito l’intero
malloppo di Forza Italia – il potere e i malumori, i debiti e le lupe – e
ancora non ci crede di essere creduto. Perciò avanza dondolando verso le
prossime elezioni europee. E spera che il ricordo di Silvio scaldi ancora un
po’ gli spalti: gli basterebbe avere un voto in più di Salvini, il Capitan
Fracassa, che da anni gli disturba il sonno del dopopranzo. Per compiere
l’impresa Antonio Il Grigio compare ogni giorno nei tg – un minutino anche a
cena – impastando parole inoffensive (“Bisogna riflettere, prima di decidere”)
come fossero rivelazioni e poi resta lì, in sospensione, guardando il
lontanissimo mistero della sua esistenza transitata indenne dalla Prima alla
Terza Repubblica. E dunque: “Toti deve dimettersi? Dipende da lui e dalla
magistratura”. “Meloni ha esagerato con l’abbraccio a Chico Forti? Ma no, è
convinta della sua innocenza. Si è persuasa come persona, non come presidente”.
“In Medio Oriente la situazione è complicata, ma noi non dobbiamo demordere”.
“Con la Russia dobbiamo evitare l’escalation”. “Il salario minimo? È una cosa
da Unione sovietica”. “Più tasse? Sono contrario”. “Ilaria Salis? Abbassiamo i
toni”. Diventato con gli anni un autentico bosone della politica, capace di
creare una massa dal vuoto, Antonio si è convinto che il tono faccia il
contenuto. Per questo ha adottato quello profondo di Robert De Niro quando fa
il duro. E quello di Bettino Craxi quando faceva le pause. Riuscendogli il prodigio
di dire senza dire. Ipnotizzando il suo interlocutore, cioè noi, il popolo
sovrano, che finiamo per concentrarci sul mistero del suo viso che negli anni
si va allargando, sul naso che di stagione in stagione cresce e sugli occhi che
misteriosamente arretrano. Li aveva belli tondi e spampanati nell’anno 1994
quando il Silvio Padrone lo volle ai suoi ordini nell’avventura politica
intrapresa per salvarsi la pelle dai debiti e dai misfatti. All’epoca
transitava nel Transatlantico come cronista politico del Giornale, con la
cattiva compagnia di Guida Paglia, il suo capo, ex Avanguardia Nazionale, che
era banda di fascistoni in purezza. Poco o nulla si sapeva di questo
allampanato romano di Ciociaria, Tajani con la “j” della “pajata”, nato nel
1953, figlio unico, padre generale di fanteria, madre generalessa di latino e
greco. Adolescenza spesa tra i Parioli e Parigi, poi il liceo Tasso di Roma, in
guerra con le zecche comuniste guidate dal conte Paolo Gentiloni Silveri di
Filottrano, il futuro Moviolone, Commissario europeo all’Economia che ha
impiegato tre anni – cioè fino a ieri l’altro – a svelarci che non fu il
Conte-2 a conquistare il jackpot da 209 miliardi di euro per le vuote casse
d’Italia, ma un algoritmo, tanto valeva mandare solo matematici a Bruxelles. Fu
il solito Gianni Letta a pescare Antonio dalle modeste carte romane del
Giornale e a spedirlo in missione permanente dal Dottore che lo accomodò per
mesi nella foresteria del villone di Arcore, letto a una piazza, come era già
accaduto con Marcello Dell’Utri e come accadrà con Sandro Bondi, il poeta,
tutti argini alla sua paura del buio e della solitudine, cioè della morte. A
quell’epoca Tajani era monarchico, stravaganza che tutti immaginavano estinta
come certi lepidotteri del Giurassico, e che invece sopravvive tra le rughe e
l’argenteria nei tetri palazzi della nobiltà romana nullafacente. In lui fino
al dettaglio di preferire Amedeo d’Aosta a Vittorio Emanuele, forse per le
differenti pettinature. Trombato alle prime elezioni in Italia, nel ’94 sbarca
in Europa. Sembra un parcheggio. Ci resterà per una ventina d’anni, durante i
quali coltiva l’obbedienza e le lingue, parla l’inglese, il francese, lo
spagnolo, ma continua a dare del lei al Dottore e ad alzarsi quando entra. Due
volte diventa Commissario europeo. La prima nel 2008, dicastero dei Trasporti,
si occupa di Alitalia e di Tav, fabbricando danni che ancora ci riguardano. Poi
nel 2010, all’Industria, dove si scorda di vigilare sulle emissioni diesel
delle auto. Ma dove anche si guadagna encomi per avere difeso una fabbrica a
Guijon, regione spagnola delle Asturie, 250 posti di lavori a rischio
delocalizzazione, una strada intitolata a suo nome. Galleggiando laggiù, ogni
tanto emette dei bip che segnalano la sua esistenza in vita. Contro l’euro
burocrazia dice: “La nostra Europa non è quella dei burocrati”. Contro l’euro
razzismo dice: “La nostra Europa non è quella del razzismo”. Sull’immigrazione
la prende alla lontanissima: “La nostra storia comincia alle Termopoli, quando
i Greci hanno respinto l’invasione dei Persiani”. Magnifico. Al punto che lo
fanno presidente dell’europarlamento, 2017-’19, per la gioia della sua migliore
amica Angela Merkel e nostra. Quando Silvio s’incapriccia e lo rivuole, torna
in patria, festeggiato da tutti gli invidiosi del partito che ai cronisti
sibilano: “Da merluzzo è diventato delfino”. Primeggia negli anni del Grande
Declino. E recita anche nell’ultima commedia umana, illudendo il Capo che
voleva ascendere al Quirinale un po’ prima del paradiso. La Provvidenza
spettina i piani, sbriga il funerale magno, spalanca il regno di Giorgia che a
sua volta ha bisogno delle multiple incoronazioni di Antonio il Pompiere:
vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, plenipotenziario del
Partito popolare europeo. E quando l’intera baraonda di Forza Italia lo elegge
all’unanimità segretario, 24 febbraio scorso, lui si inchina alla benevolenza
di Giorgia – “saremo alleati fedeli” – ma specialmente al Fondatore,
evocandolo: “Il nostro caro presidente ci sta guardando in streaming da lassù”.
Imbracciato il partito lo sgombera con gentilezza dall’ex infermiera Licia
Ronzulli destinandola a tagliare nastri per conto del Senato. Silenzia le
afflizioni di Marta Fascina, ignorandole. Corteggia la nuova cassaforte di
Letizia Moratti, candidandola alle Europee. E quella vecchia (di cassaforte) di
Marina B. che omaggia insieme con Letta all’ora di pranzo, ogni volta che c’è
da spolverare la Ditta. Fa campagna elettorale affidandosi ai sondaggi e alla
foto del Defunto. Su quell’ombra galleggia. Non sarà bello per l’amor proprio,
ma funziona. E se funziona, perché smettere?
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