"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 30 maggio 2024

MadeinItaly. 20 Antonio Tajani: «La nostra storia comincia alle Termopoli, quando i Greci hanno respinto l’invasione dei Persiani».


«“Mi manda Silvio…”. Il ciambellone di B. s’è fatto ciambellano», testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di maggio 2024: Da ciambellone della Buonanima, Antonio Tajani s’è fatto ciambellano. C’è la terza guerra mondiale alle porte, vabbè, ma lui ha altro da fare. Ha eredito l’intero malloppo di Forza Italia – il potere e i malumori, i debiti e le lupe – e ancora non ci crede di essere creduto. Perciò avanza dondolando verso le prossime elezioni europee. E spera che il ricordo di Silvio scaldi ancora un po’ gli spalti: gli basterebbe avere un voto in più di Salvini, il Capitan Fracassa, che da anni gli disturba il sonno del dopopranzo. Per compiere l’impresa Antonio Il Grigio compare ogni giorno nei tg – un minutino anche a cena – impastando parole inoffensive (“Bisogna riflettere, prima di decidere”) come fossero rivelazioni e poi resta lì, in sospensione, guardando il lontanissimo mistero della sua esistenza transitata indenne dalla Prima alla Terza Repubblica. E dunque: “Toti deve dimettersi? Dipende da lui e dalla magistratura”. “Meloni ha esagerato con l’abbraccio a Chico Forti? Ma no, è convinta della sua innocenza. Si è persuasa come persona, non come presidente”. “In Medio Oriente la situazione è complicata, ma noi non dobbiamo demordere”. “Con la Russia dobbiamo evitare l’escalation”. “Il salario minimo? È una cosa da Unione sovietica”. “Più tasse? Sono contrario”. “Ilaria Salis? Abbassiamo i toni”. Diventato con gli anni un autentico bosone della politica, capace di creare una massa dal vuoto, Antonio si è convinto che il tono faccia il contenuto. Per questo ha adottato quello profondo di Robert De Niro quando fa il duro. E quello di Bettino Craxi quando faceva le pause. Riuscendogli il prodigio di dire senza dire. Ipnotizzando il suo interlocutore, cioè noi, il popolo sovrano, che finiamo per concentrarci sul mistero del suo viso che negli anni si va allargando, sul naso che di stagione in stagione cresce e sugli occhi che misteriosamente arretrano. Li aveva belli tondi e spampanati nell’anno 1994 quando il Silvio Padrone lo volle ai suoi ordini nell’avventura politica intrapresa per salvarsi la pelle dai debiti e dai misfatti. All’epoca transitava nel Transatlantico come cronista politico del Giornale, con la cattiva compagnia di Guida Paglia, il suo capo, ex Avanguardia Nazionale, che era banda di fascistoni in purezza. Poco o nulla si sapeva di questo allampanato romano di Ciociaria, Tajani con la “j” della “pajata”, nato nel 1953, figlio unico, padre generale di fanteria, madre generalessa di latino e greco. Adolescenza spesa tra i Parioli e Parigi, poi il liceo Tasso di Roma, in guerra con le zecche comuniste guidate dal conte Paolo Gentiloni Silveri di Filottrano, il futuro Moviolone, Commissario europeo all’Economia che ha impiegato tre anni – cioè fino a ieri l’altro – a svelarci che non fu il Conte-2 a conquistare il jackpot da 209 miliardi di euro per le vuote casse d’Italia, ma un algoritmo, tanto valeva mandare solo matematici a Bruxelles. Fu il solito Gianni Letta a pescare Antonio dalle modeste carte romane del Giornale e a spedirlo in missione permanente dal Dottore che lo accomodò per mesi nella foresteria del villone di Arcore, letto a una piazza, come era già accaduto con Marcello Dell’Utri e come accadrà con Sandro Bondi, il poeta, tutti argini alla sua paura del buio e della solitudine, cioè della morte. A quell’epoca Tajani era monarchico, stravaganza che tutti immaginavano estinta come certi lepidotteri del Giurassico, e che invece sopravvive tra le rughe e l’argenteria nei tetri palazzi della nobiltà romana nullafacente. In lui fino al dettaglio di preferire Amedeo d’Aosta a Vittorio Emanuele, forse per le differenti pettinature. Trombato alle prime elezioni in Italia, nel ’94 sbarca in Europa. Sembra un parcheggio. Ci resterà per una ventina d’anni, durante i quali coltiva l’obbedienza e le lingue, parla l’inglese, il francese, lo spagnolo, ma continua a dare del lei al Dottore e ad alzarsi quando entra. Due volte diventa Commissario europeo. La prima nel 2008, dicastero dei Trasporti, si occupa di Alitalia e di Tav, fabbricando danni che ancora ci riguardano. Poi nel 2010, all’Industria, dove si scorda di vigilare sulle emissioni diesel delle auto. Ma dove anche si guadagna encomi per avere difeso una fabbrica a Guijon, regione spagnola delle Asturie, 250 posti di lavori a rischio delocalizzazione, una strada intitolata a suo nome. Galleggiando laggiù, ogni tanto emette dei bip che segnalano la sua esistenza in vita. Contro l’euro burocrazia dice: “La nostra Europa non è quella dei burocrati”. Contro l’euro razzismo dice: “La nostra Europa non è quella del razzismo”. Sull’immigrazione la prende alla lontanissima: “La nostra storia comincia alle Termopoli, quando i Greci hanno respinto l’invasione dei Persiani”. Magnifico. Al punto che lo fanno presidente dell’europarlamento, 2017-’19, per la gioia della sua migliore amica Angela Merkel e nostra. Quando Silvio s’incapriccia e lo rivuole, torna in patria, festeggiato da tutti gli invidiosi del partito che ai cronisti sibilano: “Da merluzzo è diventato delfino”. Primeggia negli anni del Grande Declino. E recita anche nell’ultima commedia umana, illudendo il Capo che voleva ascendere al Quirinale un po’ prima del paradiso. La Provvidenza spettina i piani, sbriga il funerale magno, spalanca il regno di Giorgia che a sua volta ha bisogno delle multiple incoronazioni di Antonio il Pompiere: vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, plenipotenziario del Partito popolare europeo. E quando l’intera baraonda di Forza Italia lo elegge all’unanimità segretario, 24 febbraio scorso, lui si inchina alla benevolenza di Giorgia – “saremo alleati fedeli” – ma specialmente al Fondatore, evocandolo: “Il nostro caro presidente ci sta guardando in streaming da lassù”. Imbracciato il partito lo sgombera con gentilezza dall’ex infermiera Licia Ronzulli destinandola a tagliare nastri per conto del Senato. Silenzia le afflizioni di Marta Fascina, ignorandole. Corteggia la nuova cassaforte di Letizia Moratti, candidandola alle Europee. E quella vecchia (di cassaforte) di Marina B. che omaggia insieme con Letta all’ora di pranzo, ogni volta che c’è da spolverare la Ditta. Fa campagna elettorale affidandosi ai sondaggi e alla foto del Defunto. Su quell’ombra galleggia. Non sarà bello per l’amor proprio, ma funziona. E se funziona, perché smettere?

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