"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 8 maggio 2024

Lavitadeglialtri. 32 Eshkol Nevo: «È difficile, dopo aver visto le atrocità che abbiamo visto, continuare ad avere fiducia nell’umanità».


LaVitadiEshkolNevo”. “Eshkol Nevo: non voglio diventare come Hamas”, colloquio di Francesca Caferri con lo scrittore ebreo. Raa’nana (Israele). Eshkol Nevo corre ancora. Ha iniziato una mattina di ottobre, lungo il Po, a Torino, poche ore dopo la strage che ha sconvolto Israele. Un modo per allentare la tensione in attesa di trovare un volo per tornare a casa con la famiglia. Da allora non ha più smesso: «Non avevo mai fatto jogging prima. E mai avrei pensato che mi sarebbe piaciuto. E invece, in quel momento mi ha aiutato a non sentirmi depresso, ad uscire dall’umore nero. All’inizio è stato difficile, poi mi sono abituato e non ho più smesso. Funziona ancora. (…). Non c’è nulla che sia come era prima, (…). Posso parlare solo per Israele, naturalmente: ma qui milioni di persone hanno perso l’innocenza che avevano nello sguardo. Penso a mia figlia, che sta facendo il servizio militare: ha visto amici rapiti, altri morti. Ci svegliamo in un mare di tristezza impossibile da ignorare. Io faccio costantemente lo sforzo di mettere a fuoco quello che è accaduto intorno a me, alle persone che amo. E poi faccio lo sforzo di immaginare quello che accade a chi sta dall’altra parte: a Gaza. Perché se non lo facessi, se perdessi la mia umanità, la mia capacità di provare empatia per gli altri, di ricordarmi che dall’altra parte del confine ci sono esseri umani, diventerei come Hamas. E io non voglio che questo succeda. (…). Da quando sono tornato a casa, una settimana dopo la strage, ho iniziato a dire “sì” a qualunque proposta, anche le più folli: come quelle dei militari che mi chiedono di lasciar loro i miei libri nel contatore dell’elettricità, poi passano a recuperarli di notte per portarseli a Gaza o al Nord. Sì a chi mi domanda di organizzare gruppi di scrittura creativa per gli sfollati dei kibbutz colpiti, sì a chi vuole che io parli con le famiglie dei rapiti per aiutarle a tirar fuori il dolore. Nello stesso tempo, come molti di quelli che si oppongono a questo governo, sto cercando di capire quale sia il modo giusto per arrivare a un cambiamento. È chiaro che questo governo non è in grado di guidare Israele verso un nuovo orizzonte. Ma discutere di elezioni in tempo di guerra è difficile. Io ci sto ancora pensando: forse, quando la guerra sarà finita, sarà più facile capire». (…), lo scrittore ha portato Legami, la raccolta di racconti pubblicata ad agosto in Israele e che ora esce anche in Italia per Gramma Feltrinelli. Storie brevi e lunghe, di famiglie spezzate, traumi passati e presenti, amori falliti o infiniti, che dal 7 ottobre si sono trasformate nello scalpello con cui scavare nel dolore di un intero Paese. 
 
Come è successo? «Ci sono venti storie in Legami: venti strade diverse dentro il trauma. È interessante confrontare le reazioni al libro prima e dopo il 7 ottobre. Prima mi dicevano che era molto triste ma anche molto potente. Poi è diventato “di conforto, pieno di speranza”. Una lettrice mi ha detto: “È come se il suo libro mi abbracciasse”. Del resto, anche io sono cambiato: mi faccio domande nuove quando devo leggere in pubblico, nuovi interrogativi, nuovi problemi. Non sono sempre sicuro di far bene, ho paura di creare più dolore, invece di alleviarlo. Le faccio un esempio: nel libro c’è un racconto che si intitola Escape room, che prima nelle presentazioni e nei seminari non usavo spesso e che ora utilizzo sempre di più: è la storia di un uomo, ex prigioniero israeliano detenuto per anni nelle carceri egiziane, che con i compagni traduce Lo Hobbit di Tolkien per non arrendersi alla disperazione. È una storia ottimista, che non ignora il trauma ma cerca di affrontarlo. Oggi, in questo Paese, non puoi ignorare il dolore o essere superficiale davanti ad esso. Devi affrontarlo: e poi lasciare le persone con un messaggio di speranza».

Lei parla del dolore di Israele, ma il mondo vede quello di Gaza: oltre 34 mila morti, che qui raramente arrivano sugli schermi delle tv o nei dibattiti pubblici. «Quello che in Europa non capite è che nel cuore di ogni israeliano c’è la tragedia che arriva dalla nostra eredità ebraica. E che il 7 ottobre ha riattivato questo meccanismo. Non è solo la Shoah: questo è un Paese piccolo, qui tutti hanno uno shock precedente. Pensi solo a chi, come lo scrittore David Grossman, ha perso un figlio in guerra; o un genitore, oppure un amico, uccisi in un attacco terroristico. Il 7 ottobre tutto è tornato a risuonare, a fare male. Capisco che sia difficile vedere la vulnerabilità quando si parla del più forte, del Paese che ha l’esercito più potente della regione. Ma è cruciale vederla. Se non vedete questa fragilità, non potrete capire quello che sta succedendo qui. Sono uno scrittore, e sono abituato a guardare dentro le persone e individuare le loro debolezze. In più, sono figlio di psicologi: quindi sono abituato anche a scrutare gli animi. Prima, quando entravo in una stanza, potevo individuare subito dove stava la fragilità, chi era portatore di dolore e non riusciva a tirarlo fuori. Ora sono tutti fragili».

E il dolore degli altri? «Posso risponderle per me, non per tutto Israele. E le rispondo che è difficile, dopo aver visto le atrocità che abbiamo visto, continuare ad avere fiducia nell’umanità. Ma io credo in quello che ha detto la poetessa Lea Goldberg: il ruolo di un artista in tempo di guerra è ricordare agli esseri umani che non è mai troppo tardi per tornare a essere umani. Come combattere Hamas senza diventare come Hamas? Come ricordarsi che al di là del confine con Gaza ci sono esseri umani e non solo radicali pazzi come Hamas? Io mi sforzo, tutte le mattine. Nel Diario israeliano che scrivo dopo il 7 ottobre, in ogni capitolo c’è un passaggio sui palestinesi e sulle sofferenze di Gaza. In Legami ci sono circa ottanta personaggi, e per descriverli ho dovuto empatizzare con ognuno di loro: ecco, provo a usare questa capacità di empatizzare, che deve avere ogni scrittore, per ricordarmi che ci sono persone che soffrono dall’altra parte».

Le sue parole fanno trasparire tutta la fatica di credere ancora nell’altro, nella pace. Lei si è sempre schierato a favore degli Accordi di Oslo e del progetto dei “Due Popoli, Due Stati”: sono idee ormai superate? «No. Io ho ancora speranza, anche se è difficile averne e ancor di più parlarne in pubblico, qui, oggi. La mia intera esistenza politica è dedicata a queste idee e non la rinnego. Ma quando dall’Europa mi chiedono “Sei a favore del cessate il fuoco?”, mi pare troppo superficiale. Certo che sono a favore, ma bisogna andare oltre questa semplice domanda. Se Hamas non accetta compromessi, quanto Stati Uniti, Qatar e Egitto sono riusciti a ottenere da Israele, se respinge le proposte di tregua, se non vuole ridarci gli ostaggi: di quale cessate il fuoco parliamo? Fermarsi in queste condizioni significherebbe che fra due mesi tutto ricomincerebbe come prima».

Questo è il presente. E il futuro? «Le sembrerò un pazzo, ma la mattina dopo l’attacco iraniano di qualche settimana fa, ho tenuto un discorso proprio sulla speranza: dopo una notte di tensione e paura, mi sono svegliato con un po’ di fiducia. Perché intorno a Israele si era creata una coalizione: la Giordania e l’Arabia Saudita ci hanno aiutato a difenderci dall’Iran sotto l’ombrello degli Stati Uniti. Ho pensato che forse un domani, quando questa guerra sarà finita, quando in Israele ci sarà un altro governo, quando Hamas sarà fuori dal quadro, quegli stessi Paesi potranno aiutarci a trovare un accordo con i palestinesi. È questa l’unica strada che ci resta: devo crederci, per forza. L’alternativa è continuare a uccidersi per secoli. E io non voglio che le mie figlie crescano segnate da questo destino».

LaVitadiAtefAbuSail”. «Atef Abu Saif: “Non riesco a sentire il loro dolore”», colloquio di Francesca Borri con lo scrittore palestinese: Ramallah (Cisgiordania). Atef Abu Saif va ancora a camminare. Ha iniziato una mattina di gennaio, tra le colline di Ramallah, poco dopo essere rientrato da Gaza. Da allora, non ha più smesso. «Non avevo mai provato. E invece mi aiuta a combattere l’umore nero. Detesto stare qui. Detesto mi si chieda della guerra. E quindi mi rifugio sulle colline, lontano da tutto. E chiamo tutti quelli che conosco. Chiamo, e chiamo e chiamo, fino a quando non ho risposta. Controllo Facebook, Instagram. Controllo chi è vivo e chi è morto. È il mio modo per non lasciare Gaza». Dal 7 ottobre l’umore nero non ha più abbandonato uno dei romanzieri più famosi del Medio Oriente, l’unico di Gaza a essere tradotto in Israele: Atef Abu Saif è il Camilleri di Jabalia (città della Striscia, ndr). E anche il portavoce di Fatah. E, dal 2019 e fino a poche settimane fa, ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese a Ramallah. Tre anni fa, durante una manifestazione contro Hamas, è stato aggredito, quasi ucciso. Gli fratturarono 31 ossa, cranio incluso e poi, simbolicamente, gli spezzarono una a una le dita della mano destra, la mano con cui scrive. Il 7 ottobre si trovava a Gaza, ed era tra quelli autorizzati a partire. È rimasto fino a gennaio.

Suo padre è morto di stenti, lei ha perso quasi tutta la sua famiglia, la sua casa è polvere. Sette mesi dopo, il mondo da queste parti non è più lo stesso. «Non c’è niente che sia come prima. Ma non è neppure la fine delle illusioni. Io non ho mai pensato che gli Accordi di Oslo stessero funzionando, che fosse in corso un processo di pace. Né ho mai avuto fiducia nella solidarietà araba, o nell’Onu, o nel diritto internazionale. No. Quello che è cambiato è che Gaza semplicemente non esiste più. Nessuno avrebbe mai immaginato il 7 ottobre, è vero. Ma neppure la reazione al 7 ottobre. I miei amici sono morti tutti. Tutti quelli con cui discutevo di letteratura, di filosofia, di politica. Tutti. Non ho più nessuno. A mia nipote hanno amputato gambe e mani. Senza anestesia. L’unica medicina che implorava era del veleno per topi. A Gaza ci sono due milioni di morti e 34 mila sopravvissuti».

Gaza, racconta, è così tanto distrutta che certe sere lui non trovava più neppure la strada per individuare il Nord, per tornare verso Jabalia, si orientava con le stelle. Poi tira fuori una chiave, un certificato di proprietà. Una foto. È tutto quello che ha. Tutto quello che aveva la sua famiglia, quando andò via da Jaffa. Era il 1948. Oggi Jaffa è un quartiere di Tel Aviv. Atef Abu Saif si è chiuso in se stesso a doppia mandata. Come suo figlio Yasser, con cui si trovava a Gaza e che appare in tanti video di Al Jazeera mentre porta via cadaveri in spalla. Ha 15 anni. «Sta tutto il tempo nella sua stanza, da solo. È l’unico con cui parlo. Con gli altri non ha senso. Dico di no a tutto. A qualsiasi proposta. Tutte queste interviste in cui mi domandano: Come va? Ma la domanda giusta è: come è andata? Io vivo in guerra da sempre».

Qui, a Ramallah, tutti hanno reagito alla guerra allo stesso modo: rimozione totale. Non si discute di Gaza. Né di altro, in realtà. Non si vota dal 2006, e il Consiglio Legislativo (il Parlamento palestinese) non si riunisce dal 2018. Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Palestinese, governa per decreti. Il suo mandato è scaduto nel 2009. Nel 2017 ha introdotto la Cyber-Crime Law, che vieta la diffusione di notizie che minano la sicurezza dello Stato: è reato anche un tweet, anche un like su Facebook. Con pene maggiori che per furto e stupro. Qui la Primavera araba non è mai arrivata. Anzi, è arrivata ma è stata arrestata. E non da Israele.

«Ti dicono: tornerai. Ricostruirai. Ma non è vero. Tutti i miei libri sono ambientati a Jabalia. Per me era il mondo. Sono cresciuto durante l’Intifada, non avevo un cinema, non avevo un teatro. E la frontiera era chiusa. Leggevo l’Al Quds, il quotidiano di Gerusalemme, leggevo le pagine in cui erano incartati i falafel. Perché non avevo libri. Ma stavo sui gradini di casa, mio padre davanti, a sinistra, suo padre davanti, a destra, e ascoltavo le voci dei vicoli, da una stanza all’altra, da una finestra all’altra – come farfalle. C’erano mille storie nell’aria. C’era tutta la vita. Jabalia mi ha insegnato che uno spazio non è dato: uno spazio è quello che decidi che sia».

E ora non c’è più. Letteralmente. «Una casa la puoi ricostruire. Ma le storie? I miei personaggi, dove sono?».

Il suo Diario da Gaza, scritto per il Washington Post, è stato tradotto in mezzo mondo. Come quello che scrisse nel 2014, durante la guerra precedente. Che differenze trova tra quel diario e questo? «Nel 2014 scrivevo da scrittore. Le zone pericolose, le zone con gli obiettivi militari, erano più o meno note. Non ho mai avuto davvero timore di essere ucciso. Questa volta ho scritto da scampato. Perché era come stare dentro una playstation. Braccato dai droni. La mattina cercavo un po’ di acqua, un po’ di pane, di zucchero, e poi mi precipitavo a scrivere. E scrivevo veloce, velocissimo, io che in genere sto lì a scolpire ogni frase: temevo di morire prima di finire. E tutti venivano e mi dicevano: hai raccontato questo? Ti sei ricordato di quest’altro? Ognuno aggiungeva un rigo, un dettaglio. Volevano tutti essere citati. Avevamo il terrore di sparire. Così, all’improvviso. Il terrore che non rimanesse niente di noi. Neanche una tomba. O una storia. Come se non fossimo mai esistiti. Mi sono sentito come il personaggio di una saga. Avevo la sensazione che i lettori mi leggessero non per sapere come sarebbe finita a Gaza, ma per sapere come sarei finito io. Se sarei morto. Non ho mai visto una guerra così. Mi svegliavo, dopo una notte di bombardamenti ed ero così tanto stravolto che la cosa più difficile era accertarmi di essere vivo. E se in realtà fossi già morto? Come l’avrei capito?».

Negli ultimi anni, la guerra a Gaza era diventata normale. Razzi di Hamas, bombardamenti di Israele: una specie di comunicazione in codice con cui di tanto in tanto si ridefinivano gli equilibri. Non ha mai pensato che normale non lo fosse affatto? Che una cosa così non potesse durare? Che andasse fermata? Mi guarda. Come se fosse la più strana delle domande. «Fermata? Se sei palestinese non sei abituato ad avere una qualche influenza sulla realtà. Nella tua vita le cose succedono. Neppure Hamas ha avvertito nessuno del 7 ottobre. La guerra, qui, è come il tempo: va e viene. Siamo sfiniti. Nell’animo di ogni palestinese c’è la tragedia della Nakbah, 1948, quando con la fondazione di Israele metà della popolazione araba fu costretta ad andare via. E la guerra, ora, ha riacceso tutto. In tutti. Questo è un Paese piccolo, tutti hanno un dolore precedente, le città sono tappezzate di foto di martiri. Tutto è tornato a risuonare, a fare male. Nel 1948 la mia famiglia viveva a Jaffa. Da Jaffa siamo andati a Jabalia. Da Jabalia a Rafah. Da Rafah a Ramallah. E ora? Mia madre è morta come è nata: in una tenda. L’unica terra permanente per un palestinese è la terra del cimitero. L’unica casa, la casa di Dio. (…). Continuate a dire che questa è una guerra contro Hamas. Ma se anche fosse vero? Per eliminare Hamas, si combatte così? Casa mia è stata distrutta quando Jabalia è stata colpita con delle bombe da una tonnellata, di quelle per demolire i tunnel: è stato ucciso un solo comandante di Hamas. Arrotondiamo per difetto, molto per difetto: e diciamo cento morti per ogni wanted. Le Brigate al Qassam hanno 30 mila uomini. A questi ritmi, eliminare Hamas costerà circa tre milioni di palestinesi. Costerà una Gaza e mezzo. E però tutti mi domandano: e gli israeliani? E il dolore degli altri? Non voglio mentire, dopo tutto quello che ho visto è difficile pensare al dolore degli altri. Non ha senso dire che gli israeliani sono i miei vicini, perché per avere vicini è necessario avere confini. Gli israeliani non sono mai stati nella casa di fronte, ma sempre dentro casa mia e, poi, sulla mia testa, sugli F35. Io non ho niente contro di loro, né contro gli ebrei ovviamente, ma come posso immedesimarmi? Non li conosco». Gli israeliani che ha incontrato nella sua vita sono stati soldati, o coloni. I suoi libri sono tradotti in ebraico, ma sono edizioni pirata. Non ha un editore. Né è mai stato invitato in una libreria, in una trasmissione tv, in radio.

Davvero non ha mai ricevuto un messaggio da un israeliano? Atef Abu Saif riflette, poi dice: «Uno, sì. Quando hanno telefonato per avvisare che dopo cinque minuti avrebbero bombardato. Degli israeliani so solo che dopo gli Accordi di Oslo loro hanno assassinato Rabin mentre noi abbiamo onorato Arafat fino all’ultimo dei suoi giorni. State qui a domandarci se sia ancora possibile la via dei “Due popoli, Due Stati”. Come riavviare il processo di pace. Onestamente? Sarà complicato anche solo cominciare a parlarci». Mi guarda: «Anche solo ricominciare a parlare».

N.d.r. I colloqui sono stati riportati sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di maggio 2024.

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