"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 6 maggio 2024

MadeinItaly. 14 Michele Ainis (“Capocrazia”, “La nave di Teseo”): “Gli italiani sono per la tirannide, ma temperata dal tirannicidio”.


Con un colpo da maestra, "Giorgia Meloni detta Giorgia" ha fatto una mossa elettorale che innesca in pratica un autoreferendum. Ma la manovra potrebbe anche rivolgersi contro di lei e diventare un boomerang, attirando per reazione verso altre liste tutti i suoi oppositori, all'esterno e anche all'interno della maggioranza di centrodestra. La trovata o l'espediente di ripetere il proprio nome nella candidatura riflette un'inclinazione plebiscitaria alla personalizzazione della politica, nel segno di quella "capocrazia" - (…) - che attraverso la riforma del premierato prelude alla democratura. È vero che facevano altrettanto alcuni leader della Prima Repubblica, tra cui il socialista Craxi, ma lui almeno aveva la necessità di specificare agli elettori che il diminutivo Bettino equivaleva al suo nome di battesimo (Benedetto). Nel caso della Meloni, si tratta piuttosto di un accrescitivo o quantomeno di una tautologia. E tuttavia, bisogna ringraziarla per aver scelto questa soluzione: così gli elettori che non intendono sostenerla - e sono la grande maggioranza del corpo elettorale, astenuti compresi - avranno un motivo in più per andare alle urne e sapere chi non votare. In questa campagna per le Europee, la premier dispone già delle reti Mediaset che fanno capo al partito-azienda di Forza Italia, fedele e prezioso alleato di governo. Al suo servizio, c'è poi la batteria di quotidiani padronali come il Giornale, Il Tempo e Libero, di cui è proprietario il deputato assenteista della Lega, Antonio Angelucci, imprenditore della sanità privata in convenzione con lo Stato che ha appena acquistato dall'Eni l'agenzia Agi. Non per nulla l'Italia, sotto i colpi delle leggi bavaglio, retrocede di cinque posti - dal 41esimo al 46esimo - nella graduatoria mondiale della libertà di stampa stilata da Reporters Sans Frontieres. Ma è la Rai il luogo fisico e mediatico in cui Giorgia - detta - Giorgia ha installato il centro operativo strategico, la leva da utilizzare per diffondere la propaganda governativa e cercare di ribaltare la cosiddetta "egemonia culturale" della sinistra. E questo avviene attraverso il "controllo asfissiante" sull'informazione del servizio pubblico, come denunciano i giornalisti del sindacato (ex)unitario Usigrai: (…). Né la premier né i suoi sodali hanno ancora compreso, però, che la primazia nelle urne si può anche conquistare con gli espedienti elettorali; mentre l'egemonia culturale si ottiene con le idee, i programmi e la coerenza nei confronti degli elettori. Ma il capo di un governo rappresenta tutti gli italiani, non è una influencer e la scelta di candidarsi al Parlamento di Strasburgo, dove non metterà mai piede, costituisce un trucco, un inganno, una "tripla truffa elettorale" (…). In realtà, il plebiscito serve alla Meloni da trampolino di lancio per rafforzare la sua leadership e puntare poi alla riforma del premierato. L'obiettivo finale è quello di instaurare il presidenzialismo che - (…) - minaccia di "mandarci all'inferno". Sarebbe un regime di fatto, senza adeguati check and balances, cioè i contrappesi che in democrazia garantiscono l'equilibrio dei poteri. A cominciare dal cosiddetto "quarto potere": vale adire un sistema mediatico - pubblico e privato - che garantisca il pluralismo e la libertà d'informazione. Ed è proprio questo il primo banco di prova per valutare le pretese egemoniche della destra di governo. (Da “Giorgia, il plebiscito potrebbe tradursi in un boomerang” di Giovanni Valentini pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di maggio 2024).

“Democrazia fasulla preda di oligarchie”, testo di Massimo Fini pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, domenica 5 di maggio: (…). Si scrive che si tratta di disaffezione per la politica. Non è così, il non voto è pur sempre un voto. Si tratta di disaffezione o per essere più precisi di disprezzo nei confronti delle oligarchie partitocratiche che finisce per coinvolgere la stessa democrazia. Che cosa sia in effetti la democrazia nessuno lo sa dire con certezza. Giovanni Sartori e Norberto Bobbio, che hanno dedicato la loro vita a questo tema e che certamente non possono essere considerati degli illiberali, ne danno una definizione così incerta da diventare evanescente. Scrive per esempio Bobbio: “Per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole e di procedure per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Il nocciolo della democrazia è quindi il consenso? Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governanti possono ottenere in un regime democratico. Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto? Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Sono quindi le elezioni? Ma anche in Unione Sovietica, e persino in Bulgaria, come è noto, si tenevano elezioni. È il pluripartitismo? Max Weber nota - e siamo già negli anni 20 del Novecento - che “l’esistenza dei partiti non è contemplata da nessuna Costituzione” democratica. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale, che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione. Sarà, come alcuni dicono, “il potere della legge”? Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte. Si obietterà che negli Stati autoritari la legge è arbitraria e discrimina tra cittadino e cittadino. È perciò, allora, “l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge” il clou della democrazia? Ma anche nei regimi comunisti i cittadini sono uguali, almeno formalmente, davanti alla legge. È allora il principio della rappresentanza? Ma anche il Re rappresenta il popolo. Sarà dunque, come dice Popper, che la democrazia è quella forma di governo caratterizzata da un insieme di regole che permettono di cambiare i governanti senza far uso della violenza? Neppur questo. È storico che nelle aristocrazie il governo può passare da una fazione all’altra senza spargimento di sangue. La democrazia quindi si riduce a una serie di regole e procedure che dovrebbero essere invalicabili. La nostra Costituzione dedica ai partiti una sola norma, l’art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma i partiti, presa la mano, hanno afferrato anche il braccio, occupando tutto il sistema nel settore pubblico e spesso anche in quello privato. Si dirà, secondo il detto anglosassone, one man, one vote. Che ogni voto ha pari valore. Ma nemmeno questo è vero. Sulla questione ha detto cose definitive la scuola “elitista” dei primi del Novecento. Scrive Gaetano Mosca: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Ciò ha portato Bobbio ad affermare: “Oserei dire che l’unica vera opinione è quella di coloro che non votano perché hanno capito, o credono di aver capito, che le elezioni sono un rito cui ci si può sottrarre senza danni”. In una democrazia le regole fondamentali, che sono poi quelle poste in Costituzione, dovrebbero essere invalicabili. Nella realtà si viene poi pian piano formando una “Costituzione materiale”, come ammette lo stesso Bobbio, il quale afferma che “altro è la costituzione formale, altro è la costituzione reale e materiale”. Un caso clamoroso è quello di Berlusconi che, dopo aver violato buona parte delle norme costituzionali e tutte le leggi penali, ha costruito un oligopolio attraverso il quale era il padrone del Paese, trasformando quindi la democrazia in un’aristocrazia, la sua. C’è poi qualcosa da aggiungere sui nostri rappresentanti. Chi sono costoro? Quali sono le qualità di queste oligarchie, o, come dice pudicamente Sartori, poliarchie che ci governano? In altri tempi e in altri mondi, prima dell’avvento dell’Illuminismo, le aristocrazie per esser tali dovevano avere delle qualità specifiche. Nel feudalesimo, occidentale e orientale, i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell’antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, nella Roma repubblicana il comando, attraverso la trafila delle magistrature (questore, edile, pretore, console), andava ai giurisperiti che, generalmente, erano anche uomini d’arme, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità. Qual è la qualità prepolitica dei nostri rappresentanti? È, tautologicamente, quella di fare politica, di essere, come scrive Max Weber, dei “professionisti della politica”. Insomma la vera qualità dell’uomo politico è di non averne alcuna. Questo spiega anche la facilità con cui costoro passano da un’oligarchia all’altra, cioè da un partito all’altro, con grande disinvoltura come dimostra il vorticoso cambio di candidature alle prossime elezioni europee. Ma siamo poi veramente noi a scegliere coloro, sia pur mediocri, da cui vogliamo essere rappresentati? No, è la direzione del partito che, fregandosene di ogni eventuale merito, mette in pole position quelli più fedeli. Le democrazie sono notoriamente i regimi più corrotti. Non che le dittature o le autocrazie non siano corrotte, tutt’altro, ma in una democrazia la cosa è peggiorata perché essendo basata sulla competizione, che negli Stati autoritari non c’è, diventa quasi necessario comprare pacchetti di voti o colludere con organizzazioni criminali. Le cronache italiane recenti ne sono una clamorosa, anche se amara, constatazione. Insomma, l’adesione a un partito da libera scelta diventa un obbligo per chi, per dirla con Ignazio Silone, “vuol vivere un po’ bene”. (…).

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