"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 16 maggio 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 76 Europa, Europa!

                                        Sopra. "Ratto d'Europa".

Di seguito, testo tratto da “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig – Mondadori editore, 2014 – riportato sul periodico mensile “Millennium” – con il titolo “La memoria divisa dell’Europa unita” - dell’11 di maggio 2024: Ciascuno di noi, anche il più piccolo e trascurabile, è stato sconvolto sin nell'intimo della sua esistenza dalle quasi ininterrotte scosse vulcaniche della nostra terra europea e fra questi innumerevoli io non mi posso attribuire che un privilegio: come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse erano più violente. Io sono in verità, come raramente altri fu mai, divelto da tutte le radici, persino dalla terra che queste radici nutrivano. Sono nato nel 1881 in un grande possente impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l'ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta fu ridotta in cenere. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt'al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto, l'Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Mai una generazione ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. (...). È forse difficile rappresentare alla generazione odierna, cresciuta in mezzo alle catastrofi, per la quale la guerra fu perenne possibilità e quasi quotidiana attesa, l'ottimismo e la fiducia universale che animavano noi giovani al principio del secolo. Quarant'anni di pace avevano rafforzato l'organismo economico dei Paesi, la tecnica aveva accelerato il ritmo della vita, le scoperte scientifiche inorgoglivano lo spirito delle generazioni: cominciava un'ascesa quasi contemporaneamente sensibile in tutte le nazioni della nostra Europa punto le città si facevano di anno in anno più popolose e più belle (...). Da mille indizi si sentiva che l'agiatezza cresceva e si diffondeva (...). Ma non soltanto case e città, anche gli uomini si fecero più belli e più sani grazie allo sport, al cibo migliore, all'orario di lavoro abbreviato (...). Però, quel che ci rendeva felici era, senza che noi lo avvertissimo, anche un pericolo. La ventata d'orgoglio e di fiducia che passava allora sull'Europa, trascinava con sé anche delle nuvole: il progresso era stato forse troppo rapido, gli Stati e le città si erano troppo rapidamente rafforzati; la coscienza della forza seduce sempre uomini e Stati a farne uso e abuso.

Dalle più parti – i familiari, gli amici più cari – mi si chiedono gli orientamenti elettorali miei per la tornata di voto europeo dell’8/9 di giugno prossima. Non ho avuto imbarazzo alcuno a specificare che il mio voto avrebbe premiato esclusivamente quella formazione politica che si sia dimostrata irremovibile nella sacrosanta avversione e condanna della guerra, avversione e condanna a qualsivoglia azione di guerra. È un discrimine irrinunciabile, stante la corsa agli armamenti che così diligentemente gli stati, e l’Europa soprattutto, hanno scelto come politica economica, incuranti dell’impoverimento sempre più marcato e palpabile che ha interessato larghissime fasce sociali europee e non europee ed indifferenti alle immani perdite umane delle guerre in corso, perdite umane che non necessitano di attenzioni alcune e delle considerazioni di chi è stato eletto a garanzia del bene comune. Da “L’Unione che vogliamo e quella che ci offrono”, testo di Peter Gomez pubblicato sullo stesso numero editoriale del periodico mensile “Millennium”: Tutti dicono che così la Ue non funziona. In Italia ogni candidato dice di volerla cambiare.  Ma francamente noi non ci crediamo.  Le apparenti buone intenzioni dei concorrenti nostrani alle prossime elezioni europee cozzano con i loro comportamenti, mentre quelle degli altri leader del vecchio continente fanno venire il batticuore. Da noi la marcia verso le urne di giugno si è aperta con una truffa quasi generalizzata ai danni degli elettori. I principali partiti scelgono come capilista parlamentari e/o ministri come la leader del Pd Elly Schlein e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Cioè gente che subito dopo i risultati elettorali rinuncerà al seggio in barba a chi ha scritto sulla scheda il loro nome. Come fidarsi di imbroglioni del genere? In Francia il presidente Emmanuel Macron spinge perché Mario Draghi prenda il posto di Ursula von der Leyen alla testa della commissione. Soluzione, che al di là di ogni libera considerazione sulle capacità dell'ex numero uno della Bee, lascia in bocca ai cittadini il solito amaro sapore d'impotenza: noi votiamo e loro se la cantano e se la suonano come vogliono. Ma non basta. Perché a contrastare i proclami di cambiamento c'è pure la realtà dell'istituzione: quella che, trattati alla mano, racconta come mutare il sistema di governo dell'Europa sia lungo e complicato. Anche perché non si capisce per quale motivo tutti i 27 Paesi dell'Unione debbano generosamente rinunciare al loro potere di veto sulle decisioni davvero importanti previsto dagli attuali accordi. Su un solo punto si va verso un'unità (quasi) totale: fare debito comune per acquistare armi. Emettere bond per missili e cannoni e non per investire in Stato sociale e sviluppo. È la certificazione del più grande fallimento europeo degli ultimi anni: la strategia utilizzata per contrastare l'aggressione russa all'Ucraina. Per mesi e mesi ci siamo sentiti ripetere da Bruxelles e da ogni Capitale che Kiev avrebbe certamente vinto, che Mosca avrebbe fatto i conti con la fame e la recessione a causa dell'embargo. L'Europa, al pari della Gran Bretagna e degli Usa, si è messa di traverso quando, quattro settimane dopo l'invasione, un accordo tra Zelensky e Putin era possibile e poi ha rinunciato a provarci ancora. Il brillante risultato delle nostre classi dirigenti è sotto gli occhi di tutti. Centinaia di migliaia di morti; l'autocrate moscovita a un passo dal conquistare molto più territorio di quanto non avrebbe avuto in mano dopo una trattativa (che ormai non è più disposto ad accettare); la Russia che grazie all'economia di guerra e ai nuovi acquirenti dei suoi idrocarburi vede il proprio Pil schizzare all'insù del 3 per cento, circa cinque volte in più del nostro. Complimenti! In questo clima non è difficile prevedere che, almeno in Italia, le elezioni di giugno registreranno il più grande tasso di astensione di sempre. E questo è un male perché in democrazia se davvero si vuole cambiare rotta l'unico timone in mano ai cittadini è la matita. Già, ma la Ue è davvero governata grazie a processi pienamente democratici? Noi che all'Europa (ma non a questa Europa) siamo affezionati e nella quale nonostante tutto ancora speriamo, siamo costretti a rispondere no. L'Europa per gli elettori è una sorta di fantasma. Qualcosa che c'è, ma i cui meccanismi restano coperti dalla nebbia. Non a caso. Otto Van Bismark, il cancelliere di ferro, diceva che la giustizia è come una salsiccia. Per apprezzarla è meglio non sapere come e con cosa viene fatta. Bene, oggi la nuova salsiccia è blu con tante stelle intorno. Solo che a Bruxelles gli aspiranti cuochi fanno a gara per bruciarla.

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