Ti riferisci al periodo trascorso alla Olivetti? «Vi ha lavorato, dopo la laurea in legge, per cinque anni. Vendeva o programmava la vendita delle macchine da scrivere. Alla fine non ne poteva più. Mi disse: Angela, è arrivato il momento di usarla questa benedetta macchina da scrivere».
Gli interessava il giornalismo. «Il suo lavoro alla Olivetti gli aveva permesso di girare il mondo. Ora voleva raccontarlo. Lavorò all'inizio per L'Astrolabio, fu assunto in seguito da Der Spiegel e collaborò con Repubblica prima, poi con il Corriere».
Tra i numerosi paesi che Terzani visita e racconta spicca la predilezione per l'Asia. Perché? «Era un continente che lo affascinava per tutto quello che di diverso aveva rispetto all'Occidente. Nel periodo in cui ci trasferimmo in America imparò il cinese alla Columbia University. Era il biennio 1967-69. Intercettammo tre aspetti fondamentali di quella fase: l'affermarsi di una controcultura, la critica al capitalismo e la protesta contro la guerra nel Vietnam. Fu allora che in Tiziano nacque il desiderio di vivere in Cina».
Era il periodo del maoismo imperante. «Gli sembrava che attraverso quell'esperimento politico potesse nascere una società più egualitaria e giusta. Dopo un po' cominciò a rendersi conto che quel bellissimo modello non funzionava».
Se ne rese conto in quale circostanza? «Le prime avvisaglie le ebbe durante un viaggio in Tibet, paese che Tiziano venerava per la sua storia. Ciò che vide non gli piacque: ovunque soldati cinesi e il Dalai Lama cacciato come un nemico del popolo. Scrisse un articolo che indispettì la dirigenza cinese».
Era in atto la rivoluzione culturale. «Nel nome della peggiore ortodossia e del fanatismo più aggressivo le "guardie del popolo" stavano cancellando ogni traccia del passato. Tiziano scrisse un lungo reportage sulla distruzione della vecchia Pechino e quell'articolo fu considerato un crimine contro il popolo cinese».
A quel punto? «Rientrando da Hong Kong, dove nel frattempo per precauzione mi ero trasferita con i due figli, Tiziano fu fermato all'aeroporto di Pechino. Gli sequestrarono il passaporto e lo misero agli arresti domiciliari».
Con quale accusa? «Crimini controrivoluzionari e possesso illecito di tesori nazionali. Era il gennaio del 1984. I suoi reportage sul trattamento delle donne in Cina, sulla "rieducazione" degli intellettuali nei campi e sulla povertà dilagante nel paese avevano fatto infuriare il governo cinese. La situazione era drammatica. La nostra ambasciata totalmente inerte. Fu in quel momento che mi rivolsi al presidente della repubblica Sandro Pertini. Il suo intervento, generoso come sempre, salvò Tiziano che fu liberato ed espulso dalla Cina Ci raggiunse a Hong Kong: ricordo il sollievo di quel momento dopo mesi di ansia».
Come vi eravate conosciuti? «A Firenze nel 1957, in casa di un antiquario, dopo la maturità. Ci rincontrammo qualche anno dopo e decidemmo di andare a vivere assieme. Era un ragazzo brillante, pieno di sogni. Ma al tempo stesso c'era in lui un vissuto di precarietà ingigantito dal senso della morte».
Che cosa lo turbava? «Nella sua famiglia, molto povera, la tisi aveva falciato soprattutto il lato materno. Lui stesso si ammalò di tubercolosi e riuscì a superarla grazie al fisico robusto. Ma era come se nella mente gli fosse rimasta traccia del senso della fine».
Diversamente da quella di Tiziano, la sua era una famiglia ricca. «Non ricca ma in qualche modo importante».
Le sue origini sono tedesche. «Sono nata a Firenze, dove mio padre Hans-Joachim Staude, di professione pittore, si trasferì nel 1925. Insoddisfatto dell'espressionismo cercò nella Toscana di Giotto e di Piero della Francesca nuovi stimoli per la forma e il colore».
È vero che conobbe Don Milani? «Lorenzo venne a lezione di pittura da mio padre per circa un anno. Fu Giorgio Pasquali, il grande filologo, a suggerire ai genitori che poteva perfezionarsi sotto la guida di mio padre. Aveva 18 anni. Per un anno seguì regolarmente le lezioni, poi scomparve».
Sai il perché? «Qualche anno dopo mio padre lo incontrò per strada vestito da prete. "Lorenzo, il vestito che indossi ti sta malissimo" gli disse. "Credo che lo spirito religioso non vada cercato nella tonaca ma nell'animo degli uomini", rispose lui. Alla vocazione per la pittura preferì quella che gli trasmise Dio».
Un ruolo importante nella tua vita lo ha avuto il filosofo Giorgio Colli. Come mai? «Con lui ho cominciato la mia vita di traduttrice. La conoscenza del tedesco mi permise di entrare in contatto con quest'uomo imponente e taciturno. Collaborai con lui alla Boringhieri e in seguito partecipai alle prime riunioni su Nietzsche. Adelphi aveva da poco progettato l'edizione degli scritti del filosofo. Colli mi dettava a volte alcune parti dei manoscritti. soprattutto dove c'erano problemi di decifrazione. Nella sua casa vidi nascere quei libri».
Hai detto che Colli era taciturno. «Amava la sobrietà, anche nella parola. La prima volta che lo incontrai disse: mi parli di sé. Ero intimidita. Gli raccontai della scuola interpreti a Monaco, delle persone che avevo incontrato e tra queste Werner Heisenberg».
Il grande fisico? «Proprio lui. Ma non sapevo chi fosse. Un pomeriggio ero nella sua casa di Monaco invitata per un tè. Parlai soprattutto con la moglie. Nonostante gli occhi di Heisenberg sorridessero, aveva un'aria professorale che sembrava dire: signorina conserviamo le distanze».
Torniamo a Colli. «Col tempo i rapporti divennero meno formali, anche perché mio fratello sposò Chiara, la figlia di Colli. E dopo il matrimonio si stabilì un'amicizia con mio padre».
Tuo padre era tedesco, il fatto che tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta fosse a Firenze come veniva percepito? «Papà è sempre stato strenuamente antinazista. Nascose tre ebrei in casa della madre, riuscendo a salvarli. Poi nel 1942 fu richiamato dall'esercito tedesco a Roma Nella Luftwaffe. Giunto nella capitale si mise in contatto con Maria José, che aveva conosciuto. Al comando tedesco erano note le simpatie antifasciste della principessa e questo espose al sospetto l'attività di mio padre come interprete, che fu tollerata per mancanza di alternative. Nel 1945 durante la ritirata riuscì, con l'aiuto dei partigiani, a fuggire dal camion che lo stava riportando in Germania. Il suo desiderio era restare a Firenze. Dopo la sua morte, nel 1973, mi sono occupata di tutto il suo lascito».
Tiziano è scomparso vent'anni fa ed è bello che tu nel tempo ne abbia raccontato la storia in "L'età dell'entusiasmo" e gli abbia dedicato un premio. «Con Tiziano abbiamo condiviso mezzo secolo di vita e c'ho messo un po' per capire come pensava, agiva, quali desideri lo attraversassero, in quali malinconie cadesse. Ma ne è valsa la pena per tutto quello che abbiamo condiviso».
Hai condiviso anche i lunghi anni della malattia? «Gli ultimi sette della sua vita».
Prima però di chiederti di questo, vorrei che mi dicessi qualcosa su "Un indovino mi disse", appena riedito in una nuova edizione. «Cosa vuoi sapere?».
Gli fu predetto che nel 1993 se avesse preso anche una sola volta un aereo quell'aereo sarebbe caduto. «Fu un cinese a Hong Kong che 16 anni prima lo mise in guardia. Alla fine del 1992 Tiziano riferì al capo redattore dello Spiegel le parole dell'indovino. Il settimanale incredibilmente accettò di far viaggiare il suo inviato con qualunque mezzo di trasporto tranne l'aereo».
Ma lui credeva davvero alla profezia? «Quel che posso dirti è che scegliere di viaggiare in treno, in corriera, in macchina o a dorso di un elefante era un modo per contrastare il mito della velocità e con essa l'arrivo della globalizzazione. Fu allora che Tiziano raccontò l'Asia della superstizione e delle storie fantastiche. Ma poi l'anno successivo decise che non voleva più fare il giornalista».
Perché? «Non voleva più raccontare storielle per colorare il mondo. A 58 anni diede le dimissioni dallo Spiegel, pur continuando saltuariamente la collaborazione con i giornali italiani».
Di lì a poco si ammalò. «Ovviamente non c'è nessuna relazione di causa effetto. Nel 1997 gli fu diagnosticato un linfoma allo stomaco. Ebbe inizio un nuovo capitolo, l'ultimo, che poi raccontò in Un altro giro di giostra».
Colpisce del libro la sperimentazione che Terzani fa tanto della medicina tradizionale quanto di quella più d'avanguardia. «Da New York all'India, Tiziano intrecciò e sovrappose Oriente e Occidente. Era il suo stile».
La decisione di isolarsi da tutto e tutti come nacque? «Nella sua inquietudine trovò alla fine il posto ideale. Era un luogo sull'Himalaya, abitato da un vecchio. Una piccola casa coloniale costruita dagli inglesi a quasi tremila metri. Il vecchio ci viveva da 50 anni. Erano gli ultimi giorni del 1999. Tiziano gli chiese se poteva stare lì per assistere all'alba del nuovo millennio e il vecchio lo accolse. Vi rimase per quattro anni, Poi negli ultimi mesi decise di tornare in Italia, nella sua vecchia casa di Orsigna».
E tu? «Io c'ero, mi assicuravo che tutto fosse all'altezza dei suoi bisogni. Per un po' rimanemmo a Firenze, oltretutto si sposava nostra figlia. Poi decise di ritirarsi a Orsigna, perché quello era il mondo dove aveva trascorso l'infanzia. La raccontò a nostro figlio Folco. Fu quasi un testamento. Andavo spesso a trovarlo. Nelle ultime settimane lo vidi molto sereno. Mi sorprese quando una sera a tavola mi disse: sai Angela, non mi dispiacerebbe restare ancora un po' e lì capii che nonostante la sua curiosità verso la morte e il mistero, amava la vita più di tutto. In qualche modo ce l'aveva fatta a riconoscersi per quello che era stato e che avrebbe forse voluto continuare ad essere».
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