Sopra: "Il rapimento di Europa" dipinto (1550 circa) di Jean Cousin il Vecchio.
“C’è un vuoto assoluto di contenuti, per cui si appigliano al culto del leader, anche da morto. (…). Uno svilimento delle istituzioni”. (…).
Professor Pallante, prima c'erano i leader candidati per finta, ora siamo al voto per il caro estinto. Cosa significa? “Prima di tutto è un segnale di svilimento per le istituzioni europee, come dire che non conta nulla chi mandiamo a Bruxelles. E poi c'è una presa in giro degli elettori, è un appropriarsi del loro voto in maniera tale che poi il partito ci faccia quello che vuole. D'altro canto veniamo da anni in cui i cittadini sono stati educati al culto del leader e a null'altro, non sono considerati soggetti in grado di recepire un messaggio politico, ma solo di sottomettersi al capo di turno, persino nell'ipotesi estrema di un capo estinto”.
Qui però siamo oltre la candidatura fittizia. “Il cinismo raggiunge vette inarrivabili. C'è una spregiudicatezza che sfida persino il rischio che qualche scheda venga annullata”.
Tecnicamente, la strategia di FI funziona? “Potrebbe funzionare, a meno che i presidenti di seggio non considerino la preferenza per Berlusconi un segno distintivo per riconoscere la propria scheda. Ma se fosse un fenomeno diffuso in tutta Italia sarebbe difficile”.
Lei ha parlato di culto del leader. C'è anche una colpa dell'elettore? “Un po' di responsabilità c'è, se qualcuno è disposto a farsi prendere per il naso a tal punto. Evidentemente c'è anche chi è contento di non dover perdere tempo a pensare al candidato migliore a cui dare la preferenza: c'è un leader -in questo caso c'era - e ci si sottomette volentieri a quello. Non è un atteggiamento responsabile. Se la politica mostra cinismo, aggrappandosi ai leader per mancanza di contenuti, forse dall'altro lato c'è immaturità”.
Così le elezioni non si riducono a referendum sui capi? “È l'ennesima consuetudine del tutto sbagliata: in Italia ormai ogni elezione diventa un'elezione politica. Viviamo da tempo in una sondocrazia, come diceva Stefano Rodotà. E così queste Europee diventano un sondaggio sul governo e sui leader, vivi o morti”.
Al di là del folklore, queste candidature farlocche che effetto hanno sull'esito delle elezioni? “Indeboliscono chi poi andrà davvero a Bruxelles, perché in molti casi saranno candidati poco votati, ma che approfittano della rinuncia di altri e delle pluri-candidature. Non a caso ho la sensazione che già in questa legislatura siano stati pochi gli euro-parlamentari italiani in grado di distinguersi e di avere un impatto. (Tratto da “Vota B.? Il culto del morto prende in giro gli elettori”, intervista di Lorenzo Giarelli al professor Francesco Pallante – docente di “Diritto Costituzionale” nell’Università di Torino – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 29 di maggio 2024).
“Siamo un’utopia ancora tutta da raccontare”, intervista di Riccardo Staglianò allo scrittore-giornalista Paolo Rumiz pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 24 di maggio 2024 (…). «Manca del tutto una narrativa. L’Europa non sa dire “noi siamo questo, questi sono i nostri valori”. È ridotta a un’accozzaglia di interessi e non sa difendere neanche quelli. Non ci rendiamo conto che, con i suoi limiti, vivere qui è un paradiso e tutt’intorno – America compresa – sono disastri. Siamo l’ultima isola di garanzia che si oppone al saccheggio finale del mondo, dove i poteri economici non possono farla interamente franca».
(…). …entusiasmo nei confronti dell’idea di Europa e di disillusione verso il suo svolgimento. Quand’è la prima volta che ti sei sentito europeo? «Da sempre direi. Essendo nato a Trieste, più che uno spazio una linea di confine, o impazzivo di claustrofobia o trasformavo il confine in opportunità di incontro. Ho scelto la seconda via. La mia curiosità verso ciò che stava dall’altra parte è stato il primo motore del mio istinto da viaggiatore».
I tuoi primi viaggi? «Ho cominciato a viaggiare sul serio con la nascita dei miei figli. Soprattutto in Grecia e in Francia. La nostra antichità e l’apertura verso l’Atlantico. E poi tanto per mestiere, che ho cercato di piegare al mio istinto nomadico. (…)».
Ce l’hai con i viaggi in aereo, ma non è anche vero che i low cost abbiano rimpicciolito l’Europa, rendendola abbordabile? «Nelle mete fisse dove la gente si affolla, senz’altro. Ma per conoscere un posto devi prendere i suoi mezzi pubblici, mangiare il suo cibo, fraternizzare. La pancia dell’Europa è oggi più impenetrabile e sconosciuta di un secolo fa. A questa moltiplicazione di rotte aeree non corrisponde affatto una maggior comprensione tra i popoli. L’ex cortina di ferro si è spostata più a est, con noi a fare da guardiani. Si parla continuamente di “una bomba a Kharkiv” o del “presidente Lukashenko”, ma si parla di loro, non con loro. Servirebbero corsi accelerati per comprendere la Polonia, la Bielorussia e così via».
Scrivi che nel 2008, durante un viaggio con la fotografa Monika Bulaj, avvertivi già i segni dell’attuale conflitto in Ucraina: esempi? «I confini sempre più militarizzati a oriente della Finlandia. I dispetti che baltici e polacchi (li abbiamo fatti entrare senza dir loro “le minoranze si rispettano”) facevano ai russi che venivano da noi. Stessa cosa che infliggiamo oggi ai dissidenti, tra cui tanti ricercatori, che riparano in Europa. A loro, che se ne sono andati, rinfacciamo Putin. Che già all’epoca si stava rinchiudendo in una retorica antioccidentale. Anche oggi, quando dico a un russo che la mia biblioteca di loro classici è triplicata, quello si meraviglia e si commuove».
Scrivi anche che stiamo scivolando lungo un piano inclinato, come nel 1914: in che senso? «Per una deriva aggressiva nella terminologia. Dire “pace” è diventato una bestemmia, forse presto diventerà reato. Oppure l’uso contundente di termini come “genocidio” a cui si risponde con “antisemita”, usati in modo indiscriminato».
Tu che li hai raccontati da cronista dici che l’Europa assomiglia sempre più ai Balcani. Ovvero? «La parola “nazione” è sempre più invocata. Molti vivono nell’illusione che stare separati sia meglio. E danno agli altri la colpa dei nostri problemi. Se vedi nell’immigrato il pericolo massimo eviti di pensare ai nostri vizi nazionali. È la scorciatoia dell’“italiani brava gente”».
Rimpiangi, come il Papa, la scomparsa della zona cuscinetto tra oriente e la Nato. Tifi addirittura, come faceva Clinton, per tirare Mosca dentro l’alleanza atlantica. E ridicolizzi l’idea di Macron di mandare soldati europei a combattere in Ucraina. Hai mai temuto di essere sbrigativamente arruolato tra i filoputiniani? «Se parli di pace sei filoputiniano. Se ti addolori per Gaza invece pro-Hamas. È un infantilismo dialettico che non ha senso: io non ci sto ed è il motivo per cui non parteciperò mai a un talk show. Chi banalizza le cose in questo modo è un cretino. Quando ho iniziato a lavorare al Piccolo, nel 1972, al giornale c’era un uomo della Cia che a ogni nuovo direttore diceva di quali persone fidarsi. Io ero sempre tra quelle che no. Nel ‘68 mi davano del fascista perché non mi convinceva fino in fondo il movimento, ma quelli che mi accusavano allora sono oggi infinitamente più a destra di me».
(…). …rifletti su un mistero glorioso: la Ue che vende armi a tutti ma, a dispetto di ogni efficienza anche economica, non ha un esercito proprio: perché? «Perché non è ancora diventata una vera federazione. Non ha fatto il passo per andare oltre le nazioni perché non abbiamo ancora capito quanto, con la loro retorica, siano foriere di disastri. Servisse poi a difendere l’identità! E invece basta ascoltare la caterva di parole inglesi in bocca alla Santanché o al culto della romanità dell’attuale governo – senza poi fare niente nemmeno per tutelare la via Appia, che probabilmente entrerà nel Patrimonio Unesco prima che Roma abbia mosso un dito».
C’è poi il caso di Ursula “Frankenstein, che inizia col Green new deal e finisce con la sua demolizione”, fino alla sorprendente passeggiata a Lampedusa, a braccetto con Meloni. La differenza è che con quest’ultima possiamo prendercela mentre la prima non l’abbiamo messa lì noi. È lontana. Non ti sembra un limite strutturale della Ue? «Il Parlamento europeo è espressione della volontà popolare, mentre la Commissione è frutto di accordi tra le nazioni. Assistiamo a un corteggiamento visibilissimo della presidente uscente verso i sovranisti, in vantaggio nei sondaggi. A importarle è la rielezione più che i princìpi. Se fossi di destra però temerei l’abbraccio con questa dc tedesca, rappresentante in terra di tanti poteri economici, che spostando i sovranisti al centro potrebbe risultare mortale. A loro ricordo la grande metafora dell’ex-Jugoslavia: non c’è uno di quegli Stati che da solo oggi sia più forte di prima».
Sulle prossime elezioni temi ancora «la contraddizione in termini di un’Europa gestita da antieuropei»? «Sì. La destra sovranista ha colonizzato i social, parla di più ai giovani che, con le proprie fragilità adolescenziali, sentono spesso il bisogno dell’uomo forte. Sono egemoni anche nell’aver costruito un sentimento di inevitabilità della crisi della democrazia. Siamo tutti avvelenati da questo fatalismo. E invece, a guardar bene, ci sono forti reazioni locali. Tipo, in Germania, lo straordinario giornalismo della redazione di Correctiv che ha scoperchiato come pochi il verminaio di Alternative für Deutschland. O le nonnine che in piazza affrontavano le teste rasate. O il risultato elettorale in Polonia, che davamo per scomparsa. Se n’è parlato poco. Sembra quasi che ci sia una voglia di sconfitta, tipica della sinistra che ha compiuto un taglio completo delle sue radici. Da chi viene protetto oggi l’operaio? Magari dall’Arci o da Casapound. Anche la povertà, se continua così, diverrà reato».
Mi resta la sensazione che, alla luce dello scollamento di Bruxelles dalla vita quotidiana nei Paesi membri, un po’ del tuo entusiasmo europeista sia mal riposto… «Semplicemente mi rifiuto di lasciarmi andare all’estetica del tramonto. Magari non alle urne, ma i sovranisti stanno vincendo sul piano delle parole. Un esempio? Degradare una persona a un aggettivo, come nel caso di “migrante”, è come dire che se muore vale meno. Da trent’anni parlo di Europa totalmente ignorato dalle istituzioni. Ogni tanto qualcuno mi contatta, ma in maniera carbonara, per dire che non ne può più. Nei palazzi di Bruxelles ho visto il quadro della principessa Europa rapita da Zeus. Provate a chiedere ai funzionari cosa significa il mito: forse uno su dieci saprà rispondere (spoiler: c’entra una migrazione) ma se non conosci neanche il tuo mito fondativo, come puoi rappresentare i tuoi ideali? Oggi l’Europa si risveglia ogni cinque anni, e chiede aiuto a qualche società di sondaggi. Dimenticandosi che non è un prodotto da vendere, ma un’utopia da raccontare».
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