"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 5 maggio 2024

MadeinItaly. 13 Trilussa: «“Con un’aria d’importanza, /se mise a sede, fece la svenevole, / guardò er soffitto e se grattò la panza. / - Brava! - strillò er fotografo - Benone! / Questo, pe’ fa’ cariera, basta e avanza: sei nata propio co la vocazzione! / Se allarghi mejo certi movimenti / chissà che artista celebre diventi!”».

 

 
Sopra. La premier in Senato, immagine riportata su "The Wall Street Journal".

“Chiedo agli italiani di scrivere il mio nome, ma il mio nome di battesimo. La cosa che personalmente mi rende più fiera di questi giorni è che la maggior parte dei cittadini che si rivolge a me continui a chiamarmi semplicemente 'Giorgia': non 'Presidente” non 'Meloni’ ma 'Giorgia'. E guardate che per me è una cosa estremamente importante, estremamente preziosa. Io sono stata derisa per anni e anni per le mie radici popolari, mi hanno chiamata pesciarola, fruttivendola, borgatara... Però quello che non hanno mai capito è che io sono stata sempre, sono e sarò sempre fiera di essere una persona del popolo”. Come in tutte le saghe che si rispettino, a soli 18 mesi dal primo, ''L’underdog che sbarca a Palazzo Chigi", è arrivato il secondo volume delle Meloneide: ''Vota Giorgia". Dopo un anno e mezzo di governo, di compromessi obbligati, di posture istituzionali inevitabili, di viaggi fuori-porta con l'inseparabile Ursula von der Leyen, di baci sulla fronte del vecchio zio Joe, l'appassionata leader della destra italiana ha sentito il bisogno di dare una rinfrescata all'immagine che l'ha condotta ai palazzi del potere, riesumando il suo cavallo di battaglia: la matrice popolare. Ma la scelta di riappropriarsi della veracità è solo una delle due facce della decisione di delegare un'intera campagna elettorale a un nome proprio che non ha bisogno di altro, nemmeno del cognome. La personalizzazione, costume tipicamente italiano, attraverso il quale la politica si sveste dei contenuti per indossare le fattezze di singoli individui, è anche nel caso di queste elezioni europee il numero su cui i leader di partito stanno puntando la maggioranza delle loro fiche. Da qui la scelta, piuttosto comune nel centrodestra ma non solo, di aggiungere il nome del leader sul simbolo: vale per "Giorgia", con la prossimità del nome di battesimo (una premier a chilometro zero), e i suoi Fratelli d'Italia, ciò che è già valso e ancora vale per la "Lega per Salvini premier"; succede per Forza Italia, che con "Berlusconi presidente" continua a puntare sull' eterno (è proprio il caso di dirlo) richiamo del "nome del capo" e anche per "Azione con Calenda". La stessa Elly Schlein ha dovuto ringambare in fretta e furia dopo aver quasi ceduto alla tentazione di mettere il proprio nome sul simbolo del Pd, ultima delle formazioni politiche a fregiarsi della propria pluralità di anime e desideri. Si sarebbe trattato di un errore capitale; che avrebbe minato quel che resta della sostanza democratica, eppure è tutt'altro che difficile comprendere perché le sirene della personalizzazione abbiano cantato anche per una giovane leader che ambisce a essere competitiva e che si vede circondata dai nomi degli altri. I nomi, già. "Che cos'è un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo": si diceva Giulietta sul balcone di casa Capuleti, maledicendo il nome di Romeo. Ma cosa resterebbe di ciò che noi Giorgia, Salvini, Berlusconi, Calenda se lo chiamassimo con un altro nome? Che profumo serberebbero i loro programmi, i loro contenuti, i loro partiti? Perché il rischio è quello che sotto il nome ci sia poco di definito e molto da definire; che gli stessi prestanome sappiano ancora molto poco delle alleanze che faranno, degli obiettivi che perseguiranno, dell'atteggiamento che si troveranno ad assumere nei confronti delle istituzioni europee e delle regole cui fanno da garanti. L'elezione del prossimo o della prossima presidente di Commissione, ad esempio, è l'emblema di tutte le ambiguità. Non resta che nascondere le incertezze sotto le lettere di un nome proprio e sperare che    l'assenza di risposte venga scambiata con il metterci la faccia. Almeno fino al 9 giugno. (Da “Sotto il nome niente: la scheda nasconde la mancanza di idee” di Veronica Gentili pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, sabato 4 di maggio 2024).

“Il codice delle faccette”, testo di Francesco Merlo pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 22 di marzo ultimo: Quella raccontata dalla fisiognomica è la Giorgia Meloni più autentica. Le mossette e le occhiatine, gli urli, i silenzi e le risatine sono il suo meglio. E, infatti, sulla prima pagina del Wall Street Journal c’è finita così, nella sua versione più buffa e più vera, con la faccia nascosta sotto la giacca, a mimare la simpatia istituzionale che non riesce a suscitare, reginetta di Coattonia alla Camera dei deputati. È così la nostra presidente: quando non si sente amata cerca la familiarità degli avversari. Dal banco del governo li chiama “ragazzi” e si giustifica con il “noi romani diciamo così” che è l’Alberto Sordi come risorsa, l’imitazione del romanaccio sguaiato che, non potendo fare “dandaradaradaradan”, si butta nella smorfiosaggine. Ma più che Albertone sembra Bonolis quando si nasconde il viso sotto la giacca. E “so’ ragazzi” è il motteggio satirico che rese popolare Enzo Iachetti a Striscia la notizia. Ci sono il disagio e l’insicurezza dell’Italia istituzionale dietro il grottesco di una foto che ha fatto il giro del mondo perché accarezza lo stereotipo dell’Italietta espressiva e pittoresca della commedia dell’arte. All’estero era chiamata “commedia italiana” e fu il primo teatro con attrici donne scritturate: nessun copione, ma solo la ricerca della risata con le facce, proprio come mercoledì alla Camera provava a fare Giorgia Meloni. Il dibattito era grave e pesante, ma per ogni espressione il presidente Meloni cambiava faccia. E ci vorrebbe un pittore, un artista impegnato, come per esempio l’incappucciato Banksy, che raccontasse sui muri di Roma la faccia dell’Italia, e cioè le cento e mille maschere della Meloni che alla Camera cercando la scienza di Petrolini e di Totò, trovava invece soltanto le mosse, come la romanissima scimmietta di Trilussa che “con un’aria d’importanza, /se mise a sede, fece la svenevole, / guardò er soffitto e se grattò la panza. / - Brava! - strillò er fotografo - Benone! / Questo, pe’ fa’ cariera, basta e avanza: sei nata propio co la vocazzione! / Se allarghi mejo certi movimenti / chissà che artista celebre diventi!”. Ecco perché Giorgia seduce gli americani ed ecco perché Biden la bacia in fronte, perché le sue smorfie raccontano la goffaggine politica dell’Italia che albertosordescamente sbraca, proprio come piace a loro. Berlusconi ci provava e ci riusciva con le gag, non un compendio politico, ma una sequela di battute al limite della licenza e qualche volta della decenza. Meloni ci prova con le facce. Berlusconi sapeva che “il segreto dell’autorità è - come diceva Benjamin - non deludere mai”. Giorgia crede invece che l’autorità del potere sia aggressività e perciò si butta anche nell’iconografia del “severa ma giusta”. E ogni tanto esibisce la faccia dolce e cattiva del duro da commedia. Nel repertorio delle smorfie è infatti previsto che la Premier, quella che spiega “il piano Mattei” o che dà addosso agli immigrati, spalanchi gli occhi e serri le labbra. Come una ragazzaccia mima lo statista che impugna la geopolitica e, senza saperlo, somiglia allo studentaccio che alla Camera contro di lei mimava il terrorista che impugna la pistola. Due fake. E cercando invano la postura istituzionale, Meloni si rifugia poi sempre e solo nella romanità, nel romanesco di default come unica egemonia culturale, con la pronuncia strascicata dell’“italiano sfatto” non de destra, ma de Roma, che “non è - spiegava Tullio De Mauro - un dialetto, ma un modo di pronunciare” per coprire l’imbarazzo di non essere compos sui in modo naturale, come Mario Draghi, come il presidente Mattarella, ma anche com’erano Gianfranco Fini e Giorgio Almirante, come ci stava da presidente del Senato Marcello Pera, o come rappresentava l’istituzione Adriana Poli Bortone, come i coniugi Tatarella, e poi in Forza Italia c’erano la Moratti e Mara Carfagna. Datele una postura istituzionale e Giorgia Meloni solleverà il mondo, datele un abito che “faccia” il monaco e la sua foto finirà sulla prima pagina dei più autorevoli giornali internazionali non perché nasconde le facce ma perché mostra la sua.

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