“Resistenza e fascismi eterni”, testo di Furio Colombo pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di aprile 2024, “Festa della Liberazione”: (…). A me la parola fascista, oltre un sussulto ineliminabile di paura, ricorda in modo quasi automatico due momenti della mia scoperta della Resistenza. Il primo è a Torino, nella portineria della mia casa, rione Crocetta. Eravamo in tre o quattro ragazzi di ritorno da scuola. Siamo stati fermati sui primi gradini. Il portinaio, che era anche operaio della Fiat, e a cui volevamo bene perché ci lasciava giocare al pallone nel cortile, era davanti a noi con un fucile, che ha alzato con le due mani come nella scena di un film. Toccarlo no. Era pericoloso e non era un gioco. «Per un po’ non mi vedrete. Vado in montagna, i compagni mi vengono a prendere tra poco». Lui non c’era il 25 Aprile. Ma c’eravamo noi, adolescenti liberi e salvati dall’orrore della Repubblica di Salò, immensamente orgogliosi, il 25 Aprile, di quel primo giorno in cui la libertà la respiravi nell’aria, la sentivi incontrando e abbracciando ogni altra persona. Il secondo momento era accaduto nei giorni in cui gli americani tardavano ad arrivare, i rastrellamenti dei collaborazionisti fascisti erano in grado di fornire agli invasori tedeschi sempre nuove famiglie da gettare sui treni per la difesa della razza, insieme agli antifascisti, ai soldati italiani decisi a non combattere più quella guerra. Intanto i partigiani morivano. E io ricordavo un 2 febbraio, giorno della benedizione della gola, che allora veniva celebrato con fervore nelle parrocchie dei paesi della pianura, a quei tempi immensamente pericolosa, fra Piemonte e Lombardia. Chissà quale consiglio sbagliato ha indotto gruppi di giovani uomini nascosti nella campagna a pensare di camminare di notte per prendere la benedizione all’alba e poi scomparire di nuovo. Non è andata così. Nei dintorni c’erano sgherri della organizzazione tedesca Todt che, insieme ai fascisti locali, si sono tenuti pronti. La tragica trovata è stata di fare all’improvviso, nel mezzo della notte, un rumore, violento, grida nelle strade buie e vuote di campagna, e di urlare a voce altissima canzoni (una, ossessiva, era “O chitarra romana”) per coprire le grida delle vittime e i colpi delle fucilazioni. Dalla mia camera ho contato sette colpi. La sparatoria era molto vicina, e ognuno mi è sembrato un rombo pauroso. La mattina, andando a scuola (io ci andavo a tutti i costi perché la maestra ci dava notizie della Resistenza e noi portavamo i suoi biglietti al ciclista o al vinaio) ho trovato sette corpi dove erano caduti, con il loro sangue schizzato sui muri. Per questo mi riesce difficile immaginare Ilaria Salis colpevole per avere dato botte a chi, in tenuta da SS, stava celebrando “quei giorni dell’onore” ovvero i massacri. Il suo gesto si aggiunge a una indignazione e una determinazione a non dimenticare che dovrebbe essere di tutti. Non lo è perché si è perduta o abbandonata la percezione di ciò che è accaduto e sta accadendo in Italia. È maledettamente vero ciò che dicono Umberto Eco e Luciano Canfora sul “fascismo eterno”, sul “fascismo che non muore”. Ma c’è una tragica differenza che identifica il fascismo in cui ci fanno vivere adesso, fra siepi di saluti romani e fatti continuamente falsificati, fra censure che intendono mutilare il passato e impedire di ricordare che l’Antifascismo ha vinto ed è diventato questa Repubblica e questo presidente. La tragica differenza è questa. Molti di quegli italiani che hanno gremito le piazze di Mussolini non potevano sapere il dopo, non avevano un’idea della folle guerra, senza alcuna neppure modesta preparazione, che avrebbe falcidiato giovani generazioni di italiani disarmati e distrutto completamente il nostro Paese e partecipato alla distruzione di tutto il mondo libero. Non potevano sapere, nonostante le squallide propagande, che l’Italia avrebbe mandato treni stipati di vittime da eliminare in difesa della razza, nei campi di sterminio nazisti. Non sapevano delle Fosse Ardeatine e di Sant’Anna di Stazzema o di Marzabotto o di via Tasso o dei soldati italiani che sono stati mandati a fare stragi di popolazioni serbe, croate, slovene nei Balcani occupati dall’Italia per conto dei nazisti. Non sapevano di Ante Pavelic, leader croato fascista, amico fraterno di Mussolini, che esigeva che si cavassero gli occhi ai prigionieri antifascisti prima di ucciderli. Ora coloro che si rifiutano di dire la parola “Antifascismo”, ovvero il nome del movimento di popoli che, dopo la tragedia delle persecuzioni e delle stragi, ha riportato la libertà nel mondo, lo sanno. Sanno tutto su chi erano e che cosa hanno fatto, e in che modo, e con quali delitti, coloro che con Mussolini hanno governato un’Italia suddita. Ora lo sanno coloro che si schierano a fare il saluto romano, sanno che è un saluto di morte, lo sanno coloro che si fregiano delle memorie di quegli orrori. Lo sanno coloro che dicono beffardamente di essere “anticomunisti e antifascisti”, come se il fascismo avesse sgomberato spontaneamente, come se i cancelli di Auschwitz si fossero aperti da soli. Sanno, coloro che vanno in pellegrinaggio a Predappio che passano su una distesa di morti. Lo sanno tutti coloro che vogliono eliminare il 25 Aprile, la data della nostra Liberazione da cui è nata la nostra Costituzione. Quelli come me, che allora c’erano, restano con i ricordi più tristi e i ricordi più belli.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 12 maggio 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 75 Furio Colombo: «Quegli italiani che hanno gremito le piazze di Mussolini non potevano sapere il dopo, non avevano un’idea della folle guerra».
Tratto da “Il
buon uomo Mussolini” di Indro Montanelli – editore Rogas, pagg. 126, euro
14,70 – riportato su “il Fatto
Quotidiano” dell’8 di maggio 2024 con il titolo «Memoriale Mussolini: “Il mio addio al Re”»: Tengo qui a dichiarare
formalmente che io non ho mai dubitato della lealtà dei miei collaboratori; e
anche quando li vidi accanirsi contro la mia finta resistenza, la famosa notte
del Gran Consiglio, ero sicuro che, una volta loro prigioniero, ne avrei
ricevuto un trattamento più che umano, generoso e intonato a rispetto e
reverenza. Essi non mi hanno mai odiato e mai io li ho considerati traditori.
Fui io che suggerii a Scorza l'idea di riunire il Gran Consiglio; fui io che
quando Grandi venne a mostrarmene l'ordine del giorno, il quale significava
formale invito a dimettermi, finsi di gettarvi sopra soltanto uno sguardo
distratto, come a cosa di nessuna importanza, e ne accettai la discussione.
Questo è uno dei punti che più hanno incuriosito gli storici di quel periodo:
sembra a essi inverosimile che un uomo sospettoso e vigilante come Mussolini
abbia accettato quel cimento senza prendere nessuna misura precauzionale e in
evidenti condizioni d'inferiorità. Ma fui io a volerlo nella speranza che il
Gran Consiglio prevenisse l'iniziativa del Sovrano e del Suo Stato Maggiore e
mettesse con ciò implicitamente un'ipoteca sulla successione. Che sarebbe
avvenuto se i membri di quel supremo consesso avessero messo il Re dinanzi al
fatto compiuto? Non avrebbero essi con ciò vincolato Sua Maestà a preferirli ai
Suoi Generali? Questa era la speranza che mi mosse. Mi pareva che l'Italia
sarebbe stata meglio affidata nelle mani dei miei giovani ministri. Purtroppo
fu una speranza delusa e, visto come sono andatele cose, credo che ciò abbia
costituito un grosso pregiudizio per la nostra causa: la quale era la disfatta,
sì, una disfatta italiana, cioè intelligente, approssimativa e passibile, con
abile manovra, di risolversi in vittoria. Ah, se questa manovra avessi potuto
condurla io stesso! Quanta maggior fiducia avrei saputo ispirare a Churchill, a
Roosevelt, a Eisenhower! A Genova, non a Salerno, li avrei fatti sbarcare e
l'ingresso dell'Italia nel campo delle Grandi Democrazie sarebbe stato
sottolineato da una orchestra oratoria ben altrimenti sonora e persuasiva.
"Eccomi, Maestà!" dissi allegramente quella domenica sera 26 luglio
presentandomi al Re nel Suo studio di Villa Savoia. Ma il Sovrano ricambiò la
mia allegria con uno sguardo carico di preoccupazione. "A che giuoco
giuochiamo, Presidente?" mi disse subito senza tante cerimonie. "E
cos'è questa storia del Gran Consiglio? Non era nei miei piani, né nei miei
desideri, che quel supremo organo s'intromettesse nella questione, né posso
credere ch'esso lo abbia fatto spontaneamente. Conosco troppo bene il mio primo
ministro e so che si può catturarlo di sorpresa, quando esce, poniamo, da casa
mia, ma non si può metterlo in minoranza e rovesciarlo in una normale seduta e
discussione". "Lei s'inganna, Maestà" risposi (ed era la prima
bugia che dicevo al mio Sovrano, dopo tanti anni). "Si ricordi che i
Luogotenenti sono fedeli al Capitano che vince, non a quello che perde. E io ho
perso. I miei uomini hanno subodorato qualcosa e dinanzi all'ineluttabilità
della mia caduta non avevano che due vie: darmi una mano per restar su o darla
a chi voleva buttarmi giù. Hanno scelto saggiamente la seconda. Non è stato un
eroismo; ma è stato pur sempre un gesto di coraggio: sono contento che l'unico
gesto di coraggio contro il fascismo, sia pure contro un fascismo agonizzante,
sia stato compiuto, fra 45 milioni di antifascisti, da una dozzina di
fascisti". "Sì, ma cosa significa tutto questo? Significa forse che
io sarei obbligato, ora, a rimettere il potere nelle mani di chi, per via
costituzionale, glielo tolse?". "Così vorrebbero la logica e il
costume" risposi con un filo di speranza. "Non posso, non posso, non
posso" disse il Re con accento di disperazione. E mi mostrò il proclama
già steso da Orlando e firmato da Badoglio. Capii che non c'era più nulla da
fare e non insistei. Nient'altro mi restava che porgere al Sovrano l'aiuto
della mia più matura esperienza e lasciargli le ultime raccomandazioni. Lessi
il proclama e confesso che non trovai nulla da ridirci. Anche la frase "la
guerra continua" mi parve perfettamente appropriata. Approvai il piano
steso dal Re con i suoi nuovi collaboratori: esso partiva dalla constatazione
che le nostre forze erano inadeguate a parare la minaccia di una occupazione
tedesca. Soli avrebbero potuto salvarci da tanta jattura gli Alleati. Ma questi
ultimi potevano anche non essere pronti all'intervento e quindi bisognava dar
loro tempo di ultimare la preparazione e far scegliere a essi il momento dello
sganciamento. Nient'altro restava da fare per giungere incolumi a quel giorno
che fingere di continuare la guerra. Dissi al Re che non potevo muovere nessuna
critica a tale operato e il Sovrano parve molto sollevato dalle mie parole. Poi
ci fu un lungo silenzio, e il Re era molto pallido. Infine mi fornì tutti i
particolari del mio prossimo arresto. Dunque ci lasciamo, Maestà" dissi io
sorridendo. Il Re mi prese una mano. "Caro Mussolini" mi disse,
"è Lei che lo ha voluto". "No, non sono io" risposi,
"è l'Italia, questa strana Italia che non sa essere grande nella sventura.
Lei ed io, Maestà, ve l'abbiamo accompagnata. Ora la mia parte è finita, la Sua
durerà ancora qualche mese. Mi dispiace di non poter restare al Suo fianco in
questo epilogo che si annunzia particolarmente irto di difficoltà e di
pericoli, ma Lei sa che non è possibile". "Lo so" rispose il Re
"lo so. Non gliene faccio una colpa". Di nuovo ci fu un lungo
silenzio, poi il Re chiese: "Quando venne Lei, qui, la prima volta?".
"Il 30 ottobre del '22, Maestà". "Ci venne in marsina e io La
ricevetti in divisa" disse il Re. "Debbo confessarle una cosa: sa che
Lei mi faceva paura, allora? Per tanto tempo ho avuto un complesso d'inferiorità,
io così piccolo e debole, dinanzi a Lei così forte e risoluto". "E
dire, Maestà" risposi, "che ho avuto la stessa paura e l'identico
complesso io, nel sentirmi così cafone davanti a Lei così regale".
"Davvero?" disse il Re. "Davvero". "Abbiamo lavorato insieme
per tanti begli anni e l'Italia li rimpiangerà". "L'Italia rimpiange
sempre qualcosa, Maestà". "Be" disse il Re, "ora dovrei
ringraziarla di tante cose, ma mi permetta di astenermi. Mi ero provato a
scriverle una lettera per vedere se riuscivo meglio, da solo, a dominare la mia
commozione, ma non ci sono riuscito. Io passo per un uomo molto arido e freddo:
è una faina che si addice ai Re e bisogna che me la conservi. Lei mi capirà
ugualmente". "Maestà" dissi, "io Le auguro che tutti
gl'italiani La capiscano domani come io La capisco oggi". "Oh, non lo
spero" disse Lui. "Maestà" continuai, "abbiamo compiuto
insieme una grande opera e a essa ci siamo sacrificati. Che ce lo riconoscano o
che non ce lo riconoscano, che importa? Questo pensiero mi conforterà nei
difficili giorni che mi attendono. Conforti anche Lei". Il Re non disse
nulla e aprì la porta. Ambedue recitammo bene l'ultima scena: quella della
stretta di mano finale dinanzi all'autoambulanza dei carabinieri. Udii
benissimo le parole della Sovrana mentre salivo sulla macchina:
"Arrestarlo proprio sulla soglia di casa nostra! Non è un gesto da
Re". Il gesto non era forse da Re, ma quelle parole erano da Regina.
Quella figlia di pastori sapeva cos'è la regalità.
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