"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 13 maggio 2024

MadeinItaly. 17 Loredana Lipperini: «Il desiderio di ricordarci che siamo nati plurali, e tali dovremmo rimanere».


(…). La faccenda del sono come voi fa venire in mente una storia molto vecchia: Floro, storico del tempo di Adriano, afferma che Manio Aquilio, comandante romano in Asia, fece avvelenare i pozzi nell'anno 129 a.C. Ma Floro aggiunge che così facendo macchiò l'onore delle armi romane fino a quel momento immacolate. Ora, non sappiamo se l'avvelenamento dei pozzi vada attribuito a un'unica mano, perché, in genere, le mani sono sempre più numerose di quelle dell'untore. Sappiamo però che i pozzi sono avvelenati da un pezzo, e sono anni che avanziamo nella mota della diffidenza reciproca, sospettando gli uni degli altri come in La cosa da un altro mondo di Ramsey Campbell, dove l'alieno mutaforma poteva assumere l'aspetto del tuo amico più caro, e ucciderti, o magari lo uccidevi tu. Ma siamo peggiorati: perché oggi, per paradosso, ci si fida di quelle e quelli che affermano di essere proprio come noi: come se all'alieno a in questione fosse bastato dire «non sono un alieno» per continuare in letizia la propria opera di distruzione. Cose note, anche qui. Già nel secolo scorso, David Foster Wallace, in E Unibus Pluram. Gli scrittori americani e la televisione, diceva che nessuno poteva salvarsi, per esempio, dall'influenza del linguaggio televisivo, ma che gli scrittori ne erano consapevoli: «Gli scrittori tendono a essere una razza di guardoni. Tendono ad appostarsi e a spiare. Sono osservatori nati. Sono spettatori». Magari gli scrittori, in quei tempi, potevano davvero osservare e raccontare che, appunto, qualcosa non andava, che i pozzi erano avvelenati e che non bisognava fidarsi dell'alieno rassicurante. Oggi il meccanismo è molto più complesso. Penso a una serie televisiva che non ha nulla a che fare con i faccioni elettorali, ma che è una delle spie della fiducia mal riposta: è l'ormai famosissima Baby Reindeer di Richard Gadd. Racconta (…) una storia di stalking subito dal comico scozzese, da una donna instabile di nome Martha e, prima, da un feroce manipolatore. La serie è stata appassionatamente amata: ma contiene un aspetto sinistro, ovvero la richiesta di identificazione con il protagonista, che è il solo portatore della storia. La verità (fidatevi) è la sua, e l'esposizione dei propri abissi chiede, nei fatti, solo una cosa: amatemi, voi che guardate, anche se le mie colpe sono tante. È tutto vero (fidatevi) dal momento che sto parlando di me, e io sono come voi. Ecco, l'avvelenamento dei pozzi, e dei manifesti, e del voto, sta ancora una volta in quel «me». Per questo, la cosa preziosa di oggi è Il tempo degli imprevisti di Helena Janeczek, uscito per Guanda. Nessun «me», ma molti «noi»: una maestra di inizio Novecento, un uomo chiamato K. inseguito a Merano, un ragazzino che a Venezia spia la figlia di Ezra Pound, un coro di avventori di caffè a Trieste, nell'anno delle leggi razziali. Nessuna identificazione richiesta, nessun inganno, ma il desiderio di ricordarci, invece, che siamo nati plurali, e tali dovremmo rimanere. (Da “I pozzi avvelenati dalla fiducia in quelli come noi” di Loredana Lipperini pubblicato sul settimanale L’Espresso del 10 di maggio 2024).

“Democrazia reale tra buio e cecità”, contributo di Guastavo Zagrebelsky al volume “La biblioteca di Raskolnikov. Libri e idee per un’identità democratica” curato da Simonetta Fiori e riportato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di aprile ultimo: (…). Tra le "promesse" contraddette dall'esperienza o dalla "rozza materia" c'è la "persistenza delle oligarchie". L'espressione "promesse non mantenute" è efficace, ma può essere fuorviante in quanto personificazione di qualcosa che non è un "essere" che c'è, promette, sfugge, si nasconde e inganna gli esseri umani; quando, invece, è un valore che è (o non è) integralmente incarnato da coloro che alla democrazia fanno riferimento. Se, la democrazia, non la vediamo o la vediamo appannata, il difetto non è nella democrazia ma nei suoi difetti. Più precisamente, il difetto viene non dalla democrazia ma dalle prepotenze dei suoi nemici e dalle insufficienze dei suoi amici. A ben vedere, tutte le promesse non mantenute confluiscono in questo duplice fallimento: i detentori di poteri si sottraggono allo sguardo di chi li subisce e questi non sono in grado di penetrare questa sottrazione. Gli spazi limitati sono tali in quanto nascondono i poteri che vi si celano, interessi particolari si travestono da generali. Gli individui ineducati alla cittadinanza non vedono oltre il cerchio del proprio egoismo. La tecnica e la burocrazia si celano dietro la loro pretesa neutralità. L'inefficienza è, a sua volta, strumentale al potere che ne fa mostra per invocare sempre più potere. Le oligarchie possono "persistere" tanto meglio quanto meno sono esposte alla pubblicità, tanto più quanto si nascondono nel segreto, oppure tanto più alimentano il confuso sentimento di poteri che esistono, sono potenti, ma sono conoscibili solo da se stessi, rispetto ai quali i singoli individui sono, per così dire, "spiazzati". Tutti questi limiti o degenerazioni della democrazia possono dunque riassumersi in queste due parole simmetriche: oscurità e cecità. Dire oscurità significa occultamento o, peggio ancora, travisamento. La trasparenza dei luoghi del potere è condizione della democrazia. (…). All'oscurità del potere corrisponde la cecità delle masse che ne sono destinatarie o vittime. La distanza può essere colmata soltanto potenziando le conoscenze, in una rincorsa che tuttavia sempre deve rinnovarsi, in un mondo accelerato da un lato e ritardato dall'altro. Le conoscenze a disposizione delle persone comuni sono enormemente sproporzionate rispetto a quelle dei depositari dei diversi e numerosi poteri. La vita delle masse è condizionata da questi ultimi, tanto più che le conoscenze, i cosiddetti saperi, sono sempre più specialistici, mentre la democrazia dovrebbe potersi alimentare su una conoscenza universalistica di tipo integralmente umanistico. Tuttavia, la diffusione delle conoscenze e della cultura è l'unica via per contrastare la massificazione e la perdita di autonomia delle società odierne. La scuola ne è lo strumento. Non che nelle società classiste non esistano conoscenze e culture, ma esse sono distribuite diversamente dall'alto al basso della stratificazione. È ben nota la lezione di un celebre pedagogo che si è speso a favore degli umili, don Lorenzo Milani: comanda chi conosce più parole, cioè più cose che egli sa nominare. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all'argomento migliore, ma alla persona più abile con le parole, come al tempo dei sofisti che allenavano i propri allievi a sostenere nei loro "discorsi duplici" (i dissòi logoi) tanto una tesi quanto quella contraria, con uguale efficacia. La democrazia esige dunque una certa uguaglianza, per così dire, nella distribuzione delle parole, cioè nelle conoscenze veritiere che si è capaci di versare nel grande calderone del discorso pubblico. "È solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno" (Lettera a una professoressa, 1967). Ecco perché una scuola egualitaria e aperta a tutti è condizione di democrazia, (...).

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