“Gaza è un massacro (non l’Olocausto)”, testo di Massimo Fini pubblicato oggi su “il Fatto Quotidiano”: (…), quello che avviene in Palestina ai danni dei civili gazawi è solo un massacro, e che sarà mai quindi, una bazzecola, una sciocchezza rispetto all’Olocausto ebraico? Nell’attacco del 7 ottobre degli uomini di Hamas morirono 1400 israeliani e circa 250 vennero presi in ostaggio. Nel momento in cui scrivo (29.04) i civili palestinesi uccisi sono 35 mila, ma si può giurare che domani saranno 36 mila, le statistiche non servono. Quindi il rapporto della rappresaglia è 35 o 36 a uno. Un po’ sproporzionato, si direbbe. Un’applicazione letterale della vendetta veterotestamentaria. Il “porgi l’altra guancia” di cristiana memoria non è arrivato. Nella Bibbia è scritto a proposito di Gerico: “Votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne, bambini, bestie; non vi lasciammo anima viva”. E il legittimo risentimento ebraico per la Shoah e i suoi orrori era ben di là da venire. Attualmente gli israeliani stanno accerchiando Rafah, l’ultima enclave palestinese dove è ammassato un milione e mezzo di gazawi. E dopo aver distrutto le zone a nord, abitate dai palestinesi, gli israeliani li hanno costretti a emigrare a sud, dicendo loro, o facendo capire, che lì erano al sicuro. Ma al sicuro non erano, per cui sono ritornati nelle loro case al nord ormai completamente distrutte. Insomma sembra che li concentrino da un posto all’altro per poterli colpire meglio. Il segretario generale dell’Onu Guterres ha avvertito che entro cinque settimane si supererà per tutta la popolazione palestinese il limite della carestia, e che già moltissimi bambini muoiono o sono ridotti alla fame. Ma agli israeliani questo importa nulla, si oppongono anche ai rifornimenti alimentari. Del resto hanno fatto piazza pulita della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, sostituite da alcune organizzazioni di volontari internazionali come World Central Kitchen, di cui han fatto fuori di recente sette esponenti accusandoli di collusione con Hamas. I bambini muoiono di fame? E che sarà mai? Tre dei più importanti ospedali di Gaza sono stati rasi al suolo, uccidendo pazienti, medici e infermieri, sostenendo che nel loro sottosuolo si trovavano i principali dirigenti di Hamas, che peraltro non sono stati presi. Presso l’ospedale di Khan Younis, il più importante di Gaza, sono stati trovati, sepolti in fosse comuni, trecento cadaveri di palestinesi. Gli ospedali dovrebbero godere, secondo il diritto internazionale che ormai non esiste più, di una particolare immunità. Se si infrange l’imparzialità della Croce Rossa, che è stata rispettata nell’ultimo conflitto mondiale da tutti, nazisti compresi, figuriamoci se si rispettano le regole sempre più fluttuanti e inesistenti di quello che viene chiamato “diritto internazionale umanitario”. Si dice, anche da parte di alcuni settori israeliani, che il peggior nemico di Israele è Bibi Netanyahu. In effetti, con la sua violenza indiscriminata e ripugnante, con la sua cocciuta volontà di non aderire al progetto “due popoli, due Stati”, ha concentrato su Israele una odiosità che non è solo dei popoli arabi del Medio Oriente o dell’Africa, ma che coinvolge il mondo intero. Ne fa fede il Sudafrica, lontanissimo geograficamente da questi eventi, che ha chiesto al Tribunale internazionale de L’Aia l’incriminazione di Israele per “condotte genocide”. Un atto che non ha nessuna forza pratica, ma un alto valore simbolico. Gli stessi americani paiono essersi stufati della condotta omicida di Bibi Netanyahu. Per la prima volta nei rapporti tra Israele e Stati Uniti, gli americani hanno sanzionato un gruppo ultraestremista, Netzah Yehuda, che opera in Cisgiordania. Si sentono impotenti nell’esortare, diciamo così, Bibi Netanyahu a un minimo di moderazione. Ma se volessero fare sul serio dovrebbero togliere a Israele le armi e i dollari che gli forniscono ogni anno, gli ultimi ammontano a 26 miliardi, che comprendono anche aiuti umanitari che Israele si guarda bene dal rispettare. L’odiosità contro Israele ha anche provocato un rigurgito di antisemitismo in Europa e in America, (…). In epoche più civili, in fondo non tantissimi anni fa, si distingueva fra lo Stato sionista e la comunità ebraica internazionale. Non è che se Israele compie una nefandezza, e negli ultimi anni non si è certamente risparmiato, debba esserne tenuto responsabile un ebreo del ghetto di Roma. Ma questi erano altri tempi, quando si conosceva ancora quel diritto internazionale che nell’ultimo quarto di secolo è stato calpestato soprattutto dagli americani e dagli occidentali in genere: aggressione alla Serbia nel 1999, contro il volere dell’Onu, aggressione all’Iraq del 2003, contro il volere dell’Onu, aggressione alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi, con la compartecipazione di francesi e italiani (particolarmente assurda questa, vista dalla prospettiva italiana, sia perché favoriva gli interessi in Libia della Francia contro quelli italiani, sia perché Silvio Berlusconi, allora al governo, aveva stretti rapporti di amicizia con Gheddafi, che considerava quasi un fratello, cosa che non gli impedì, quando Gheddafi fu trucidato nel peggiore dei modi, sodomizzazione compresa, di dichiarare col consueto cinismo “sic transit gloria mundi”). (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 3 maggio 2024
Lavitadeglialtri. 31 «Nella Bibbia è scritto a proposito di Gerico: “Votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne, bambini, bestie; non vi lasciammo anima viva”».
(…). Nariman Mohamed, una donna di 34 anni
del Nord di Gaza, ora è divorziata e vive in una tenda nella parte occidentale
di Rafah, tra migliaia di tende. Si sveglia presto ogni mattina per iniziare
una dura giornata a cercare acqua potabile, trovare legna per il fuoco e
preparare la colazione ai suoi cinque figli; ogni giorno deve pensare al loro
nutrimento e questo implica camminare fino al centro di distribuzione per
ottenere le razioni. Non tutto ciò di cui la famiglia ha bisogno si trova nei
pacchi. Quindi deve vagare in cerca di ong che forniscono prodotti per bambini
e donne. È un pellegrinaggio quotidiano estenuante, che ora si trova a dover
affrontare da sola. «Prima della guerra, mio marito e io non avevamo un buon
rapporto, ma non avevamo mai pensato al divorzio», ha detto. Con l’inizio dei
bombardamenti è dovuta fuggire con la sua famiglia dal Nord alla casa della
famiglia del marito: con molte persone stipate in una sola abitazione lo stress
è stato alto: «Lui si arrabbiava facilmente, mi ha colpito due volte, e mi ha
quasi ucciso con un colpo dalla sua pistola», racconta. Suo marito era un
poliziotto, e lei ha dovuto prendere i suoi figli e scappare. Poche settimane
dopo ha divorziato. Mariam Al-Sayed, 26 anni, non è un caso diverso da Nariman:
ha superato un cancro e ha avuto un bambino. Con la guerra però, suo marito è
diventato più violento e aggressivo. «Sono rimasta scioccata quando mio marito
ha deciso di divorziare, non avevo un posto dove andare, ho due bambini
piccoli, senza soldi e senza vestiti», spiega. È scappata sotto i bombardamenti
e infine si è rifugiata nelle tende. Ha bisogno di cure mediche ma anche di
aiuto mentale. Lotta per tenere i figli al sicuro. Le ong durante la guerra
cercano di fornire specialisti per aiutare la società a far fronte a una
situazione disperata. Nermin Abu Jayab, assistente, ha detto che deve trattare
con molte donne: «Le persone sono per lo più traumatizzate: hanno perso la casa
e la fonte di reddito, di conseguenza perdono anche la capacità di controllare
le proprie famiglie», spiega. «Sto lavorando con donne che hanno perso i loro
mariti e anche con donne divorziate», dice. Le aiuta a far fronte alla realtà
di essere rimaste senza partner che le supportino e si occupino di loro in
momenti così difficili, e a iniziare a dipendere da se stesse per superare le crisi.
È una lotta quotidiana per la sopravvivenza e contro la depressione».
(Da “Divorziare sotto le bombe. A Gaza
senza prospettive le famiglie si sgretolano” di Sami al-Ajrami - corrispondente
da Gaza per il quotidiano “la Repubblica” –, pubblicato oggi venerdì 3 di
maggio 2024).
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