Ha scritto Michele Serra in “Paura del presente non del passato” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, 8 di settembre 2022: Il fascismo non è più Mussolini e la Marcia
su Roma, il fascismo è l'assalto dei trumpiani al Campidoglio, è il
complottismo paranoico e purificatore di Qanon, è il suprematismo bianco, è il
suprematismo russo di Putin e del patriarca Cirillo, è il puritanesimo
reazionario che vuole imporre la Bibbia e il creazionismo nelle scuole
americane, gemello del jihadismo per fanatismo e volontà di oppressione e di
falsificazione. È l'odio per la democrazia e la laicità (valori non separabili)
che diventa attivo, e cattivo. Se c'è preoccupazione per la probabile vittoria
delle destre in Italia non è perché si paventa il ritorno del passato. È perché
spaventa il presente, che produce articolazioni proprie dell'intolleranza
liberticida. Dunque ci si domanda, legittimamente, se un governo di destra
alzerebbe o abbasserebbe le barriere contro questo genere di fascismo, quello
del 2022. Avrebbe gli strumenti culturali e politici per isolarlo, o al
contrario sarebbe indifferente alle nuove forme dell'odio, o addirittura ne
sarebbe permeabile? Il ragazzetto americano che ha fondato un sito che
perseguita i transessuali fino a stanarli nei loro nascondigli, fino a indurli
al suicidio, e sventola sorridente la Bibbia come un mitra, quello è il
fascismo dei nostri tempi; tanto quanto il Traini di Macerata che sparava agli
africani per bonificare la Patria dalle razze impure; tanto quanto il Salvini
che, da ministro degli Interni, andò a esprimere solidarietà in carcere a un
imprenditore che aveva fatto inginocchiare un ladro di gasolio e gli aveva
sparato nel petto. È successo due anni fa, non nel 1921. Si discute e ci si
divide sul presente, non sul passato. Ha scritto Marco Travaglio su “il
Fatto Quotidiano” dell’8 di settembre in
“La mangia su Roma”: (…). …la
sera del 12 novembre 2011, quando B. salì al Quirinale per dimettersi dopo aver
trascinato l’Italia alla bancarotta finanziaria, economica, morale e politica.
Ad accoglierlo trovò migliaia di persone che gli urlavano di tutto e danzavano
festanti. E persino un’orchestra che suonava l’Hallelujah di Handel, tant’è che
alla fine fuggì dal retro. Del suo terzo governo (2008-11), il più inverecondo
della storia repubblicana ex aequo col primo (1994) e il secondo (2001-06),
faceva parte Giorgia Meloni. Ma darle la colpa di quella catastrofe sarebbe
ingiusto: era ministra della Gioventù. Sarebbe giusto invece ricordare a leader
ed elettori smemorati che i membri dei tre governi che distrussero l’Italia
sono in lista col presunto “nuovo centrodestra” a guida Meloni, a parte tre o
quattro deceduti e tre o quattro detenuti (più il duo Gelmini&Carfagna che
ora fa danni in Azione). Del governo B.1, FdI candida i ministri Tremonti e
Guidi. E FI mette in lista il premier B. e i sottosegretari Micciché, Gasparri,
Grillo (Luigi) e Cota. Del governo B.2 sono candidati con Meloni, oltre al
ministro Tremonti, i sottosegretari Urso, Guidi e Sgarbi (più l’allora
presidente del Senato, Pera). I ministri Bossi, Calderoli e il sottosegretario
Giorgetti li ripresenta la Lega. FI ricicla B. e i ministri Gasparri, Miccichè
e Prestigiacomo, i sottosegretari Casellati, Cota e Martusciello e, siccome
Antonio D’Alì ha una condanna d’appello per mafia, mette in lista la moglie. I
ministri Bossi, Calderoli e il sottosegretario Giorgetti ricicciano con la
Lega. Noi Moderati riesuma il sottosegretario Romano. Ed eccoci al governo B.3,
costretto a sloggiare anzitempo nel 2011 perché B., oltre ad andare a puttane
in proprio, ci aveva portato il resto d’Italia. Meloni ricandida ben sei
ministri: Tremonti, La Russa, Rotondi, Fitto, Brambilla e se stessa; e cinque
sottosegretari: Urso, Roccella, Augello, Musumeci e Santanchè. FI, oltre a B.,
ci rioffre i ministri Romano, Bernini e Prestigiacomo e i sottosegretari
Miccichè, Craxi (Stefania), Polidori e Casellati. La Lega i ministri Bossi e
Calderoli e la sottosegretaria Ravetto. Se il 25 settembre vincerà la
cosiddetta “nuova destra”, spacciata dai finti nemici per un’incognita e un
azzardo mentre è la solita sbobba di sempre, per giunta invecchiata di 11 anni,
tutta quella bella gente tornerà nel governo Meloni. E chi si aspettava la
marcia su Roma scoprirà per la quarta volta la specialità della casa. Che non è
marciare: è mangiare. Di seguito, “Bollito
di Salvini in salsa veneta” di Daniela Ranieri pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” sempre dell’8 di settembre ultimo: (…). La questione non è solo
elettorale, ma tocca per così dire l’antropologia della Lega, sia come classe
dirigente che come elettorato. Nel 2010 in via Bellerio incontrai Salvini, che
mi fu indicato come “quello che va in metropolitana a disinfettare i sedili
delle nigeriane” e proponeva vagoni separati per milanesi e immigrati. Era
l’inizio dell’ascesa di un tizio senza lode e con già qualche infamia. Su
quella scocca sarebbe stato costruito il ministro dell’Interno dei
respingimenti, che gli ungheresi elogiano come il primo in Europa ad avere
avuto il “coraggio” di lasciare donne e bambini in mare. Il leader morale era
Borghezio, che nei capannoni di Borgomanero cantava con la mano sul cuore
l’inno regionale e gridava “Piemont liber!” mentre gli elettori facevano
freddare la paniscia nel piatto con le lacrime agli occhi. Negli anni di svolta
del sovranismo trumpiano e orbaniano, gli elettori hanno accettato che Salvini
mutasse il sogno bossiano del nord libero (da Roma ladrona, dal sud sfaticato e
parassita) in quello del “prima gli italiani”; pur continuando a considerarlo
un ragazzotto di levatura dozzinale, ne intuirono le potenzialità
impareggiabili. Lui sfilava per Roma con quattro gatti di CasaPound, intonava
stornelli contro i napoletani colerosi, prometteva espulsioni; gli economisti
della Lega andavano in Tv a spiegare a quelli di sinistra, rintronati e
spocchiosi, come si spendono i soldi pubblici e come il “populismo” fosse una
nobile guerra all’Italia finanziaria complice dell’Europa aguzzina. Legioni di
“keynesiani per Salvini” spiegavano sui social che la talpa di Marx scava
cunicoli imprevedibili: non conta il mezzo, ma il fine, cioè la rivolta dei
popoli, di cui la Brexit e l’elezione di Trump erano l’epitome. Era giunto il
“momento Polanyi” (dal nome dello studioso che teorizzò la ribellione delle
masse contro le élite finanziarie). La strategia era chiara: Salvini
acchiappava il “popolo” con la propaganda screanzata della Bestia, la
gastropolitica, i selfie fisiologici, il rosario e il salame (aveva la fissa
del maiale, animale politicamente scorretto, brandito per bullizzare gli islamici
che non lo mangiano), i video di africani in flagranza di reato, la solidarietà
ai gioiellieri sparatori; nel frattempo i “falchi” avrebbero occupato le
commissioni e ripristinato la popolare lira. Più si mostrava simile al meno
intellettualmente evoluto dei suoi elettori, più voti prendeva. Era il
“grand’uomo della massa” di Nietzsche: “Bisogna avere tutte le qualità della
massa: quanto meno essa di vergognerà di fronte a lui, tanto più il grand’uomo
sarà popolare”. Intanto la stampa nazionale (…) gli dava del “fascista” (il che
era falso e lo potenziava), ma lo ritraeva con l’orecchio a terra, attento a
ogni sussulto del territorio, distante anni luce dalla Casta dei politici tra i
quali dal 1993 non disdegna di annoverarsi. Nell’anno della Covid qualche
sentore che Salvini fosse un bluff è venuto pure ai più fedeli tra i suoi:
mentre Zaia consultava Crisanti e tamponava tutti gli abitanti di Vo’ Euganeo,
lui chiedeva, nell’ordine, di “chiudere tutto”, inteso come le frontiere (era
convinto che il coronavirus ce lo portassero cinesi e africani), poi, due
giorni dopo, di “riaprire tutto”, inteso come i locali degli aperitivi e le
pizzerie a taglio sulle rotatorie di Cazzago Brabbia; infine con Meloni
chiamava il popolo alle adunate oceaniche a Roma per diffondere un po’ di sani
droplets senza mascherina, alla faccia della protezione degli italiani. Con la
guerra della Russia all’Ucraina si è capito che il ragazzo-majorette di Putin
era totalmente insipiente di geopolitica (glielo ha fatto capire un sindaco
polacco, cacciandolo via dalla stazione di Przemysl e mostrandogli un
fac-simile della maglietta da lui indossata nel 2014 sulla Piazza Rossa,
naturalmente all’insaputa di Putin). L’agente storico del “momento Polanyi” è
finito a portare acqua al governo dei banchieri, con servizio al tavolo di
Giorgetti (considerato quello raziocinante della Lega: infatti a fine 2019
disse che la Sanità pubblica era inutile, finita, inessenziale), sebbene il
sospetto che la Lega fosse il partito dei padroni e non dei lavoratori poteva
già venire a settembre 2019, quando dal raduno ex-celtico di Pontida Salvini
citò Margaret Thatcher (la cui morte i lavoratori inglesi festeggiarono):
establishment puro. Oggi gli fanno sparare le sue idee bislacche (la leva
obbligatoria) perché c’è ancora una residua speranza che serva a ciò che
interessa ai leghisti: la flat tax e la secessione del nord, cioè dei ricchi
(alla faccia della rivolta delle masse contro le élite), che i partiti educati
chiamano “autonomia differenziata”. I giornali autorevoli hanno già cominciato
a incoronare Zaia “Doge”: affidabile, serio, moderato: va bene chiunque purché
non sia Conte; Zaia per il quale la causa della pandemia era l’uso presso i
cinesi di mangiare topi. Quel che rimane di Salvini promette l’autonomia e
giura “credo nel Veneto”. Il Veneto, con tutto il mitologico territorio, non
finge nemmeno più di credere a lui.
Nessun commento:
Posta un commento