"Promemoriaelettorale". Ha scritto Alessandro Robecchi in “Alle urne. La politica si è trasformata in
marketing: vende fustini di detersivo”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
di oggi, mercoledì 21 di settembre 2022: (…). La burbanzosa energia salviniana, per
dirne una, quella guapperia da ministro dell’Interno in pectore che “quando
c’era lui la Digos arrivava in orario” (a identificare gli avversari) si è un
po’ sciolta sotto il timore della vittoria schiacciante di Giorgia e sotto il
fuoco incrociato dei suoi stessi colonnelli, tanto che oggi Salvini è
unanimemente considerato in discesa libera. Il Pd, partito lancia in resta con
l’agenda Draghi sotto il braccio, ha visto quell’agenda assottigliarsi giorno
dopo giorno, poi diventare quattro foglietti sparsi, poi sparire, tanto che di
Draghi non parla più. Era partito sull’onda dell’emozione, strillando alti lai
contro chi poneva questioni e problemi al governo più bello del mondo – mai più
coi 5stelle, traditori di Supermario! – e arriva a pochi giorni dal voto ad
augurarsi (a volte esplicitamente, come in Puglia e in Sicilia) che i
vituperati 5stelle facciano un buon risultato. Un testacoda, insomma. Per non
dire dei due caratteristi del Quarto Polo, detto Terzo, che, dopo averci
sfiancato per due mesi sul prossimo governo a guida Draghi, incassano da Draghi
un “no” secco e definitivo, ma si consolano con il forte argomento: “Beh, ma
cosa poteva dire?”. Surrealismo puro. Il tutto mentre Giorgia modula la terapia
a seconda della platea e del contesto: europeista dopo colazione, ringhiosa
sovranista dopo pranzo, di nuovo simil-ragionevole al talk show serale. E Silvio
che fa ridere tutti, as usual. Tutto come previsto, quindi, anzi forse no.
Perché negli ultimi giorni – sorpresa –
si fa strada l’assurdo timore che tutto il circo non si rivolga più solo
e soltanto a un indistinto “certo medio”, ma che siano della partita anche i
ceti popolari e meno favoriti, quei “descamisados” (milioni) che faticano ad
arrivare alla fine del mese, quelli che fino a ieri “tanto non votano”, e forse
invece oggi si scopre che sì, potrebbero votare anche loro, dannazione. Gente
semplice, che non capisce le raffinatezze del marketing, che se ne sbatte della
forma del fustino, e pensa più se quello che c’è dentro può servire a campare
un po’ meglio. Maledizione, il marketing non l’aveva previsto. Di
seguito, “L’evaporazione
della politica” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola
lacaniana – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 20 di settembre: (…).
Noi viviamo, (…), in un tempo che si caratterizza per un discredito diffuso nei
confronti della politica. Essa non è più, come pensava Aristotele, l’arte delle
arti, quella che rende possibile la vita della polis, ma è divenuta l’ombra
triste di se stessa. Il secondo strato, connesso profondamente al primo, è
quello della de-ideologizzazione del voto. Da tempo assistiamo al declino della
appartenenza ideologica dell’elettorato. Se, per un verso, tale declino ha
comportato una maggiore libertà di giudizio e una maggiore fluidità degli
elettori che non stabiliscono più legami di fedeltà “religiosa” con il proprio
partito, per un altro verso ha anche comportato un fatale ridimensionamento
della percezione soggettiva del proprio impegno civile. Il voto deideologizzato
tende ad essere non solo un voto pragmatico, ma anche un voto che può tendere a
disimpegnarsi dall’esercizio stesso del voto. Il terzo livello è quello della
critica radicale al sistema che diventa critica radicale ad ogni forma di
rappresentanza e di condivisione. È una espressione estrema e regressiva
dell’anti-politica. Se la politica è luogo di malaffare e di corruzione, se la
sua distanza dal paese reale è divenuta farsesca e intollerabile, se i politici
rappresentano una casta separata e ingiustamente privilegiata, lontanissima dai
problemi che investono la vita reale, allora rifiutarsi al voto si configura
come una reazione pulsionale che esprime un giudizio di rifiuto e di condanna
senza appello nei confronti della politica. Un quarto livello riguarda
l’indifferenza. Ne è un esempio sconcertante il fatto che per molti giovani
l’iniziazione alla vita politica attraverso l’esperienza del primo voto è
vissuta senza alcun desiderio. L’evaporazione della politica è un fenomeno che
implica anche la perdita di ogni slancio ideale nei confronti della
partecipazione alla vita collettiva. Il problema è quello di rendersi conto che
le giovani generazioni si stanno drammaticamente staccando dalla considerazione
che l’impegno politico sia una condizione fondamentale della vita civile. Non
si tratta dunque di estendere il diritto di voto ai sedicenni, ma, casomai, di
fare in modo che siano loro stessi a richiederlo con forza, di fare nascere
nelle nuove generazioni il desiderio per la politica e per la partecipazione
attiva alla vita del nostro paese. Un quinto livello riguarda la rimozione
della nostra storia. La conquista del diritto di voto è stata nel nostro paese
una conquista bagnata di sangue. Questo si dovrebbe insegnare nelle nostre
scuole. Un debito simbolico ci lega profondamente alle generazioni che lo hanno
conquistato. Da questo punto di vista la bolla astensionista non è un partito,
ma una inclinazione pericolosa del nostro tempo che riflette la
caratterizzazione più estrema dell’individualismo ipermoderno, il quale,
negando ogni forma di debito simbolico, ritiene che tutto ciò che non riguardi
direttamente il mio Io e la sua corte di interessi più immediati non abbia
alcun valore. Ma è evidente che si tratta di una miopia patologica poiché, come
si diceva quando ero ragazzo, “tutto è politica”. Nel senso che non è affatto
possibile astenersi dall’essere chiamati in causa, anche nella propria vita più
intima, dalla politica poiché le sue decisioni ricadono inevitabilmente e
pesantemente sulla nostra esistenza e su quella dei nostri figli, oltre che su
quella del nostro paese. Per questa ragione dovrebbe essere sempre scongiurata
per principio la possibilità dell’astensione. E per questa ragione anche
decidere di astenersi dal decidere per quale partito votare è inevitabilmente
una forma di decisione. Tocchiamo qui un ultimo livello del problema
dell’astensionismo, quello più psicologico. Astenersi è quasi sempre una
reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come
insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si
preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa
autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche
senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo
caso lo sguardo dell’astensionista resta sempre narcisisticamente rivolto al
proprio ombelico.
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