"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 21 settembre 2022

Notiziedalbelpaese. 92 Recalcati: «L’evaporazione della politica».


"Promemoriaelettorale". Ha scritto Alessandro Robecchi in “Alle urne. La politica si è trasformata in marketing: vende fustini di detersivo”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, mercoledì 21 di settembre 2022: (…). La burbanzosa energia salviniana, per dirne una, quella guapperia da ministro dell’Interno in pectore che “quando c’era lui la Digos arrivava in orario” (a identificare gli avversari) si è un po’ sciolta sotto il timore della vittoria schiacciante di Giorgia e sotto il fuoco incrociato dei suoi stessi colonnelli, tanto che oggi Salvini è unanimemente considerato in discesa libera. Il Pd, partito lancia in resta con l’agenda Draghi sotto il braccio, ha visto quell’agenda assottigliarsi giorno dopo giorno, poi diventare quattro foglietti sparsi, poi sparire, tanto che di Draghi non parla più. Era partito sull’onda dell’emozione, strillando alti lai contro chi poneva questioni e problemi al governo più bello del mondo – mai più coi 5stelle, traditori di Supermario! – e arriva a pochi giorni dal voto ad augurarsi (a volte esplicitamente, come in Puglia e in Sicilia) che i vituperati 5stelle facciano un buon risultato. Un testacoda, insomma. Per non dire dei due caratteristi del Quarto Polo, detto Terzo, che, dopo averci sfiancato per due mesi sul prossimo governo a guida Draghi, incassano da Draghi un “no” secco e definitivo, ma si consolano con il forte argomento: “Beh, ma cosa poteva dire?”. Surrealismo puro. Il tutto mentre Giorgia modula la terapia a seconda della platea e del contesto: europeista dopo colazione, ringhiosa sovranista dopo pranzo, di nuovo simil-ragionevole al talk show serale. E Silvio che fa ridere tutti, as usual. Tutto come previsto, quindi, anzi forse no. Perché negli ultimi giorni – sorpresa –  si fa strada l’assurdo timore che tutto il circo non si rivolga più solo e soltanto a un indistinto “certo medio”, ma che siano della partita anche i ceti popolari e meno favoriti, quei “descamisados” (milioni) che faticano ad arrivare alla fine del mese, quelli che fino a ieri “tanto non votano”, e forse invece oggi si scopre che sì, potrebbero votare anche loro, dannazione. Gente semplice, che non capisce le raffinatezze del marketing, che se ne sbatte della forma del fustino, e pensa più se quello che c’è dentro può servire a campare un po’ meglio. Maledizione, il marketing non l’aveva previsto. Di seguito, “L’evaporazione della politica” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola lacaniana – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 20 di settembre: (…). Noi viviamo, (…), in un tempo che si caratterizza per un discredito diffuso nei confronti della politica. Essa non è più, come pensava Aristotele, l’arte delle arti, quella che rende possibile la vita della polis, ma è divenuta l’ombra triste di se stessa. Il secondo strato, connesso profondamente al primo, è quello della de-ideologizzazione del voto. Da tempo assistiamo al declino della appartenenza ideologica dell’elettorato. Se, per un verso, tale declino ha comportato una maggiore libertà di giudizio e una maggiore fluidità degli elettori che non stabiliscono più legami di fedeltà “religiosa” con il proprio partito, per un altro verso ha anche comportato un fatale ridimensionamento della percezione soggettiva del proprio impegno civile. Il voto deideologizzato tende ad essere non solo un voto pragmatico, ma anche un voto che può tendere a disimpegnarsi dall’esercizio stesso del voto. Il terzo livello è quello della critica radicale al sistema che diventa critica radicale ad ogni forma di rappresentanza e di condivisione. È una espressione estrema e regressiva dell’anti-politica. Se la politica è luogo di malaffare e di corruzione, se la sua distanza dal paese reale è divenuta farsesca e intollerabile, se i politici rappresentano una casta separata e ingiustamente privilegiata, lontanissima dai problemi che investono la vita reale, allora rifiutarsi al voto si configura come una reazione pulsionale che esprime un giudizio di rifiuto e di condanna senza appello nei confronti della politica. Un quarto livello riguarda l’indifferenza. Ne è un esempio sconcertante il fatto che per molti giovani l’iniziazione alla vita politica attraverso l’esperienza del primo voto è vissuta senza alcun desiderio. L’evaporazione della politica è un fenomeno che implica anche la perdita di ogni slancio ideale nei confronti della partecipazione alla vita collettiva. Il problema è quello di rendersi conto che le giovani generazioni si stanno drammaticamente staccando dalla considerazione che l’impegno politico sia una condizione fondamentale della vita civile. Non si tratta dunque di estendere il diritto di voto ai sedicenni, ma, casomai, di fare in modo che siano loro stessi a richiederlo con forza, di fare nascere nelle nuove generazioni il desiderio per la politica e per la partecipazione attiva alla vita del nostro paese. Un quinto livello riguarda la rimozione della nostra storia. La conquista del diritto di voto è stata nel nostro paese una conquista bagnata di sangue. Questo si dovrebbe insegnare nelle nostre scuole. Un debito simbolico ci lega profondamente alle generazioni che lo hanno conquistato. Da questo punto di vista la bolla astensionista non è un partito, ma una inclinazione pericolosa del nostro tempo che riflette la caratterizzazione più estrema dell’individualismo ipermoderno, il quale, negando ogni forma di debito simbolico, ritiene che tutto ciò che non riguardi direttamente il mio Io e la sua corte di interessi più immediati non abbia alcun valore. Ma è evidente che si tratta di una miopia patologica poiché, come si diceva quando ero ragazzo, “tutto è politica”. Nel senso che non è affatto possibile astenersi dall’essere chiamati in causa, anche nella propria vita più intima, dalla politica poiché le sue decisioni ricadono inevitabilmente e pesantemente sulla nostra esistenza e su quella dei nostri figli, oltre che su quella del nostro paese. Per questa ragione dovrebbe essere sempre scongiurata per principio la possibilità dell’astensione. E per questa ragione anche decidere di astenersi dal decidere per quale partito votare è inevitabilmente una forma di decisione. Tocchiamo qui un ultimo livello del problema dell’astensionismo, quello più psicologico. Astenersi è quasi sempre una reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo caso lo sguardo dell’astensionista resta sempre narcisisticamente rivolto al proprio ombelico.

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