In morte di Mikhail Sergeevich Gorbachev ha scritto
Michele Serra in “L’ultimo degli
utopisti” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del primo di settembre
2022: (…). Le dittature non sono riformabili, e piuttosto che cambiare
preferiscono morire. C'è un "boia chi molla", nel cuore di tutte le
dittature, che le trascina al collasso e alla rovina pur di non confrontarsi
con la realtà del mondo. Le dittature non si arrendono. Piuttosto muoiono tra
le rovine, convinte anche oltre la loro fine di avere avuto ragione. La sua
mitezza e la sua intelligenza, spese in un ambiente duro e conformista, gli
sono costate, in patria, ieri l'incomprensione, oggi l'oblio. L'attuale potere
russo non può permettersi di celebrare Michail Gorbaciov, e nemmeno di
ricordarlo con affetto e riconoscenza, perché Gorbaciov puzza di democrazia e
puzza di trasparenza: quanto di più odioso per il tenebroso regime di Putin.
Gorbaciov fu un russo europeo e per il putinismo questo è un ossimoro. Non per
caso fascisti e fasciocomunisti di mezzo mondo ghignano felici perché è morto
Gorbaciov. Tutte le persone miti e intelligenti salutano con gratitudine e con
affetto il compagno Michail, che provò a salvare il socialismo da se stesso, e
la Russia dalla rapacità disgustosa degli oligarchi, che non vedevano l'ora del
"liberi tutti" per mangiarsi tutto il mangiabile. "Socialismo o
barbarie" è la sintesi della sua vita politica, nonché della sua
sconfitta. Ha vinto la barbarie (la restaurazione, il patriarca Cirillo, le
mafie economiche). Ha perso il socialismo. Di seguito «Così
Gorbachev fu tradito dal “bene”» di Barbara Spinelli,
pubblicato su «il Fatto Quotidiano» del 2 di settembre 2022: Sulla
stampa italiana e occidentale si piange in questi giorni la morte di Mikhail
Sergeevich Gorbachev, indicando in Vladimir Putin colui che lo ha tradito,
distruggendo la sua visione pacifica di una “casa comune europea” e riportando
la guerra nel cuore del Vecchio continente, in Ucraina. Molti di questi
rimpianti sono intrisi di ipocrisia, oltre che storicamente zoppicanti. È
probabilmente vero che Gorbachev disapprovava la natura avventata e brutale
dell’intervento militare in Ucraina. Anche se durante il suo governo non
mancarono repressioni mortifere nelle repubbliche secessioniste (ad esempio in
Lituania) Gorbachev ritirò pur sempre le truppe dall’Afghanistan, non usò la
forza nei Paesi d’Europa centrale che volevano liberarsi del giogo sovietico,
scommise con tutte le sue forze sui negoziati di disarmo convenzionale e
nucleare fra Est e Ovest. Non meno probabile è che il suo legame anche
affettivo con l’Europa, e con la Germania in particolare, fosse più forte e
tenace di quello manifestato oggi dal Cremlino. Ma parlare di un Gorbachev
tradito dall’“imperialismo” di Putin è storicamente infondato e fuorviante: non
tiene conto della “storia lunga” delle relazioni tra Russia, Europa e Stati
Uniti, né dell’origine della nuova guerra fredda che Gorbachev aveva voluto
eliminare, senza riuscirci, grazie al duplice scioglimento del Patto di
Varsavia e della Nato. Se si considera la storia lunga, e si include nei
ragionamenti l’ultimo trentennio, si arriva infatti a conclusioni diverse, ben
più sfumate. A tradire il progetto di “casa comune europea” senza più Nato e
Patto di Varsavia, che Gorbachev propose al Consiglio d’Europa il 7 luglio
1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino, fu di certo Eltsin
che lo spodestò sciogliendo l’Urss e il Partito comunista sovietico, ma fu in
prima linea l’Occidente, con cui l’ultimo leader sovietico aveva negoziato
l’unificazione pacifica delle due Germanie. La promessa che gli Occidentali
fecero al Cremlino tra il ’90 e il ’91, in varie riunioni bilaterali e nel
Gruppo 2+4 (i 2 Stati tedeschi e i 4 vincitori della seconda guerra mondiale:
Usa, URSS, Francia, Regno Unito), era che la Nato sarebbe rimasta in piedi,
contrariamente al Patto di Varsavia, ma avrebbe tenuto debito conto degli
interessi di sicurezza russi e non si sarebbe dunque allargata a Est: “neanche
di un pollice”, assicurò il segretario di Stato James Baker. Stessa promessa fu
unanimemente fatta da Mitterrand, Helmut Kohl, Margaret Thatcher e John Major,
Manfred Wörner segretario generale della Nato. Purtroppo l’inavvertenza di
Gorbachev fece sì che l’impegno non venisse scritto nero su bianco. “Fu
un’idiozia”, ha dichiarato di recente Roland Dumas, ministro degli Esteri
francese che partecipò ai negoziati, “ma tutte le delegazioni tornarono dagli
incontri con Gorbachev trascrivendo resoconti in cui la promessa è
esplicitamente registrata”. La promessa fu infranta a partire dal 1993-94 da
Bill Clinton, che negò l’impegno preso, suscitò le prime irritazioni russe e
impose nel 1999 il primo allargamento a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, in
piena guerra in Jugoslavia. Pochi anni dopo mise in atto un’ulteriore provocazione,
riconoscendo la secessione del Kosovo. Jack Matlock, ex ambasciatore Usa a
Mosca, condannò gli allargamenti Nato e gli interventi militari nei Balcani:
“Gli effetti sulla fiducia russa negli Usa sono stati devastanti. Nel 1991
l’80% dei russi avevano un’opinione favorevole degli Stati Uniti. Nel 1999, la
stessa percentuale ci è ostile”. Nel 2004 l’Alleanza Atlantica aprì ai Baltici,
e a Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, sotto l’amministrazione Bush jr.
Durante la presidenza Obama entrarono nella Nato Albania, Croazia, Montenegro. Nel
frattempo la mortificazione del Cremlino era diventata risentimento. Nel
febbraio 2007, alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco, Putin
denunciò l’arroganza occidentale e disse che la pazienza russa era giunta al
limite. La sordità delle amministrazioni Usa fu totale e si cominciò a
promettere l’allargamento Nato a Georgia e Ucraina (Berlino e Parigi si
opposero, dunque non fu fissata una data per l’adesione). I progressivi
allargamenti Nato agli Stati dell’Est e il loro riarmo costituiscono il vero
tradimento della fiducia che Gorbachev aveva risposto nell’Europa e negli Stati
Uniti. Anche Gorbachev, come Putin, considerava tragica la fine dell’Urss, che
non aveva saputo gestire né sventare. L’impero multietnico era preferibile, a
suo parere, ai nazionalismi etnici che esplosero in Urss e che fecero di lui
uno statista grandioso ma perdente. Di per sé, l’impero non è una forma
politica negativa: se l’impero austro-ungarico fosse sopravvissuto non ci sarebbe
forse stato l’annientamento degli ebrei d’Europa. Quel che Gorbachev avversò fu
inoltre lo scioglimento del Partito comunista, che negli ultimi tempi voleva
riformare ma sicuramente non abolire (importanti erano stati negli anni 70 gli
impulsi degli eurocomunisti italiani o spagnoli, che avevano elaborato
alternative al comunismo sovietico). Prima di essere defenestrato da Eltsin – e
da chi a Washington e in Europa sostenne l’usurpatore e impose una “terapia
choc” che privatizzò l’economia russa, permise l’insorgere e l’arricchimento
degli oligarchi e spinse la Russia sull’orlo della bancarotta – Gorbachev aveva
in mente la trasformazione dell’Urss in una confederazione, con ampie autonomie
riconosciute alle Repubbliche, specie alle più indipendentiste come i Baltici,
la Georgia, l’Ucraina. Al pari di Solženicyn, fu sconcertato
dall’indipendentismo ucraino e lo disapprovò apertamente. Approvò di
conseguenza l’annessione della Crimea nel 2014. Nel magnifico
documentario-intervista di Werner Herzog (“Meeting Gorbachev”, 2018), l’ultimo
presidente dell’Urss risponde con un sorriso come sempre mite ma leggermente
sarcastico a una domanda del regista: “Gli Americani pensavano di aver vinto la
guerra fredda e questo gli ha dato alla testa. Quale vittoria? Fu una nostra
vittoria comune, e tutti abbiamo vinto!”. Una verità che le amministrazioni Usa
s’ostinano a rifiutare, convinte come sono che la fine dell’Urss abbia
legittimato l’unipolare predominio statunitense nel vecchio continente e nel
pianeta, e sconfitto l’idea di una “casa comune europea”. Sulla propria pietra
tombale, Gorbachev confessa a Herzog il desiderio di veder scolpite le parole
che Willy Brandt – altro gigante perdente – aveva
immaginato per la propria lapide: “Ci abbiamo provato”.
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