Ha scritto Michele Serra in “Cercare uno scopo è molto faticoso” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 7 di settembre 2022: (…). Così come il falegname deve sapere come
si incolla e si incastra il legno, il politico deve cercare di collegare tra
loro i problemi, l’uno con l’altro. Deve dunque avere quella che non per caso
si chiama “visione del mondo”. (…). Le Nazioni sono troppo piccole per “capire”
l’unicità globale, non frazionabile, della salute del pianeta. Traduzione
(mia): fino a che sarà uno come Bolsonaro, a decidere il destino di un bene
comune come l’Amazzonia, non esiste soluzione possibile e non esiste salvezza. Non
ditemi che sono vecchio se lamento la sconfitta di quel linguaggio, un format
poco maneggevole, spodestato da porzioni più brevi e rapide di pensiero,
raffiche emotive che magari colgono l’attimo ma molto di rado lo sistemano,
quell’attimo, in un insieme appena più duraturo e strutturato. Se poi si dice
che stiamo vivendo, tutti, una perdita di scopo, non sarà anche perché non
abbiamo più la voglia e soprattutto il tempo per cercarne uno, di scopo? Di
seguito, “Il bene comune e la politica”
di Enzo Bianchi – già priore della Comunità monastica di Bose – pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” di oggi, lunedì 12 di settembre 2022: Siamo
in piena campagna elettorale e proprio in quanto monaco non posso esimermi
dall'osservare e dall'ascoltare le voci - soprattutto urla - che si levano
numerose da tutte le parti in causa. Non entro nell'agone politico, ma dopo
aver ascoltato o letto i protagonisti costantemente mi pongo una domanda:
"Dov'è finito, che fine ha fatto il concetto di bene comune? Come mai è
così assente?". (…). Quello di "bene comune" è un concetto
essenziale per la convivenza, per la qualità della vita nella polis.
L'espressione è composta da due parole: "bene" e "comune".
"Bene" è ciò che noi vorremmo per noi stessi e che auguriamo alle
persone alle quali siamo legati, ciò che permette di vivere in pienezza.
"Comune" deriva dal latino communis che indica un compito da
svolgersi insieme e nello stesso tempo un dono condiviso. "Bene
comune" non è dunque semplicemente un patrimonio che si ha in comune,
qualcosa di materiale o immateriale posseduto e condiviso, ma l'insieme delle
condizioni di vita che favoriscono il benessere, l'umanizzazione di tutti:
anche la democrazia, la cultura, la bellezza sono bene comune. Come ha
affermato Stefano Rodotà, "ci sono beni che esprimono i diritti
inalienabili dei cittadini. Questi sono i 'beni comuni': dal diritto alla vita,
al bene primario dell'acqua, fino alla conoscenza in rete". Naturale destinatario
del bene comune non è più l'individuo ma la persona. "Bene comune",
va ricordato, è un concetto formulato nel XIII secolo, nell'ora dell'emergenza
dell'Occidente, quando sulla scia dell'eredità greca si è arrivati a
comprendere che come la rete delle relazioni è antecedente
all'individuo-persona così l'unità del corpo è antecedente alle membra che lo
compongono. Sicché il bene di ciascuno implica una nozione di bene comune che
lo preceda e nel quale possa definirsi. Questo concetto di bene comune
purtroppo è stato accantonato a favore di una concezione individualistica e
utilitaristica della società e si è progressivamente imposta l'idea secondo la
quale l'organizzazione politica si giustifica per il fatto che garantisce ai
membri di una collettività i diritti individuali di cui sarebbero dotati
anteriormente alla loro esistenza sociale. Così il bene comune ha ceduto il
posto all'interesse generale, concepito come la somma degli interessi
individuali. Ha scritto Marcel Gauchet: "Nell'attuale società si afferma
che all'inizio della storia c'erano solo individui, e per questo non si può
immaginare una loro coesistenza solidale. È dunque urgente pensare invece a ciò
che li unisce e a ciò che devono fare insieme!". La prima forma di bene
comune che gli esseri umani hanno conosciuto è la relazione, lo stare insieme,
il pensare insieme a ciò che è bene comune e non solo bene individuale. Senza
ecosistema relazionale non c'è cammino di umanizzazione, e senza passare per il
bene comune non c'è politica che sia un bene per tutta la polis. Ha scritto
Diego Bianchi in “Silvio influencer”,
a proposito della campagna elettorale unanimamente definita la più orrenda dell’Italia
repubblicana, considerazioni pubblicate sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 9 di settembre ultimo: (…). Le congiunture astrali che determinano
le pianificazioni di chi cura la campagna elettorale dei principali leader han
fatto sì che nella stessa settimana, in alcuni casi nello stesso giorno, i
candidati alla guida del Paese abbiano deciso di andare a cercare voti nel
social momentaneamente meno intriso di propaganda e anagraficamente dai leader
più remoto. La comunicazione politica, già ridotta all'osso nella semplificazione
del messaggio a uso slogan o social network, si trucca provando a circuire i
giovani, grande e sconosciuta galassia di voti potenziali mediamente ignorata,
all'ultimo metro di campagna elettorale. Salvini aveva preceduto tutti senza
lasciare particolari segni. Le sue dirette a tarda notte zeppe di filtri e toni
complici nulla hanno avuto di diverso dai momenti seriosi delle altre sue
dirette, rendendo plastica la dimensione tardo adolescenziale di un politico
alla perenne ricerca di maturità. Poi sono arrivati gli altri, e la cosa che
più impressiona è come quasi tutti si rivolgano ai giovani come fossero dei
deficienti. Si presentano al pubblico, cosa assolutamente non richiesta, con il
tono del maestro d'asilo, o del cantastorie, e non si capisce cosa sia stato
detto loro su TikTok, a chi pensano che il loro messaggio debba arrivare. Non è
un caso che siti e giornali siano ora pieni di star di TikTok (fenomeno tanto
interessante quanto inquietante, se si considera che ognuna di loro ha almeno
tre manager a gestirne cachet e uscite pubbliche) che danno i voti ai politici
che dovrebbero votare, chiarendo che se hanno tanti follower è solo perché in
tanti si divertono a prenderli per il culo. Nell'attesa di risolvere la
difficoltà di veicolare contenuti (e quella di avere contenuti da veicolare),
la soluzione è intrattenere. E nessuno, meglio di Berlusconi, lo sa fare.
Ragion per cui mia figlia sono due giorni che ogni tanto si guarda il suo primo
video ridendo. E con la testa fa "Tik-Tok", proprio come Berlusconi
alla fine del video. Se non fosse mia figlia penserei che potrebbe anche
votarlo, grazie a TikTok. In un contesto politico-sociale-istituzionale
così deprimente (per i tanti non proprio allarmante) e che sa quasi di “fine
del mondo” (nostro) ne ha donde Michele Serra quando sullo stesso quotidiano, “la
Repubblica” del 10 di settembre – “L’Apocalisse
allegra” -, così scrive: (…). La tragedia è (mi scuso per la
madornale semplificazione) meno distaccata dalle vicende umane. Ne è talmente
compresa da non poterne cogliere la intrinseca, patetica, irresistibile
buffonaggine. Siamo pur sempre la scimmia che si è creduta Dio, al punto di
immaginarci “fatti a sua immagine e somiglianza” (cose da pazzi). Se dunque
dovessimo deperire o addirittura estinguerci per nostra stessa mano, il
sospetto che siano state la vanità e la presunzione a dannarci sarebbe
inevitabile, e fonte di auto-dileggio, sempre che non si sia accecati, appunto,
dalla presunzione e dalla vanità. Nonostante questo, al concetto di “fine del
mondo” possiamo associare tonnellate di fantasy terrificante, paesaggi lugubri,
cortei di zombi, sangue e fiamme, punizione e rovina. Risate pochissime (una
tra tutte il Vonnegut di “Comica finale”, 1976, sempre sia lodato). (…),
dobbiamo allestire una task force per difendere, fino all’ultimo respiro, il
sentimento supremo del ridicolo.
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