Ha scritto Michele Serra in “La fine del presente” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di
oggi, 4 di settembre 2022: (…). La poetica dei "bei tempi
andati" è viziata dall'oblio. Nei bei tempi andati c'erano la guerra, la
fame e il gelo, si moriva di influenza e di tisi, la mortalità infantile era
dieci volte più alta e la vita media molto più breve. La povertà era la
condizione normale delle moltitudini. Il nostro problema è che i bei tempi
andati sono poi stati soppiantati, almeno qui in Occidente, da una crapula mai
vista sotto il cielo, fondata sull'usa e getta, sullo scialo spensierato,
sull'uso indiscriminato di qualunque risorsa come se fosse una cornucopia
inestinguibile: incluso il denaro, che spendiamo anche quando non c'è grazie a
una confidenza con il debito che ai nostri nonni sarebbe sembrata pura follia. Non
è dunque per tornare a un ruvido passato, ma per evitare la fine del presente
che dovremo tornare a dosare, a parte il gas, pure tutto il resto. Putin è solo
un accidente: stare attenti a cosa si consuma sarà, per figli e nipoti, una
pratica costante. Non ci piacque la decrescita come scelta, ci toccherà
sorbircela come obbligo. E non è nemmeno detto che sia felice. Di seguito,
“Quanto è facile non salvare il mondo”
di Francesco Piccolo, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la
Repubblica” del 6 di agosto ultimo: I miei figli vogliono salvare il mondo, il
che rende la mia vita complicata. Perché sono severi e attenti, dicono che non
mi impegno abbastanza, e che è colpa mia e della mia generazione. Io penso che
non è solo colpa mia, e cerco di distribuire gli errori in giro per il mondo.
Ma loro dicono che bisogna cominciare a impegnarsi in prima persona, che se
ognuno di noi fa qualcosa, tutti staranno facendo qualcosa; e non ci sarà la
fine del mondo. Vorrei chiedere: ma perché, ci sarà la fine del mondo?, ma so
che non posso. Vorrei chiedere: ma mica nei prossimi anni? Più in là, vero? -
che vuol dire: non fino a quando vivo io. Non avevo considerato che la fine del
mondo potesse arrivare così, gradualmente; la fine del mondo nel nostro
immaginario è improvvisa, con i dinosauri che si estinguono tutti in un
momento. Non avevo considerato che la fine del mondo potesse arrivare così, per
distrazione, cioè mentre dicevamo cerchiamo di salvare il mondo, prendiamo
tutte le misure, mobilitiamoci - poi arriva la pandemia, la guerra, la
recessione, e siamo costretti a dire: adesso dobbiamo occuparci di questo, ma
subito dopo non mancheremo di; eh, no, adesso c'è anche quest'altro, ma appena
dopo non possiamo fare a meno di. E così il mondo finirà, è chiaro - dicono i
miei figli. Se poi vogliamo essere sinceri, non avevamo preso ancora le misure.
Finora avevamo soltanto detto: bisogna fare qualcosa. "Bisogna fare
qualcosa" è una frase magica. Io la dico sempre, quando i miei figli a
cena indicano quello che sto mangiando e mi spiegano quanto inquinamento ho
provocato per avere questo cibo che ho nel piatto. Io guardo il piatto loro, e
loro hanno lo stesso cibo che ho io, ma forse il loro inquina meno, non lo so.
Comunque ascolto, comprendo, mi impressiono e dico: bisogna fare qualcosa. Alle
volte: bisogna assolutamente fare qualcosa. E poi ricomincio a mangiare. Chiunque
dica quella frase, diventa buono (ed è autorizzato a ricominciare a mangiare).
E la dicono quasi tutti, quindi quasi tutti sono buoni. È talmente potente
l'effetto che produce, che poi ci distraiamo anche qui, e non ci mettiamo a
controllare se poi si fa davvero qualcosa. Se vogliamo essere proprio sinceri:
"bisogna fare qualcosa" si dice proprio per evitare di farla. Si dice
per rassicurare e per dare fiducia, per non farsi rompere le palle dagli altri,
per dare l'idea di un piano. Ma non c'è nessun piano. Infatti quella frase
servirebbe a mettere giù un piano; e se bisogna metterlo giù, ancora non c'è. E
se quella frase serve a rassicurare e distrarre, il piano non ci sarà. "Bisogna
fare qualcosa" non è una frase che dicono i miei figli, mai. Loro
addirittura urlano di rabbia, piangono per la commozione, nel vedere il loro
padre e la sua generazione, essere così vaghi, e nel vedere il mondo andare
senza opposizione verso la sua fine. L'umanità però assomiglia a me, non a
loro. Ma non da ora, da secoli. Se non fosse così, non staremmo a questo punto.
A me, all'umanità nei secoli, alla mia generazione, alla classe politica mondiale,
manca totalmente l'idea del futuro. Tutto il nostro futuro lo sintetizziamo in
una frase: bisogna fare qualcosa. Dopodiché ce ne fottiamo. E ci concentriamo
sul presente. Apriamo il rubinetto e l'acqua c'è; premiamo l'interruttore e la
luce si accende; fa caldo e accendiamo l'aria condizionata a palla; il
benzinaio ci fa il pieno; e potrei andare avanti per pagine. Fino a quando è
così, come facciamo a preoccuparci? Dovremmo essere capaci di immaginare un
futuro in cui l'acqua non scende più, le luci non si accendono, l'aria
condizionata non si può usare più, il caldo aumenta e non c'è un posto dove
ripararsi, al supermercato la frutta e la verdura non ci sono, mentre invece
adesso bene o male ci sono - dovremmo immaginare tutto questo, ma non ne siamo
capaci. Per questo diciamo che bisogna fare qualcosa; ma in realtà stiamo
pensando, come in tutta la vita, al presente: fino a quando tutto questo c'è,
come faccio a preoccuparmi di quando non ci sarà? Dovrei concepire una vita
costruita per un futuro che io non riesco a vedere; e infatti il futuro poi lo
vediamo solo quando accade, e quando accade come adesso ci sembra spaventoso,
corroso come in questi mesi e, però, anche in questi mesi la nostra vita
riusciamo a farla lo stesso. Questo è quello che i miei figli non concepiscono
e che li fa arrabbiare, disperare. La questione è che bisognerebbe fare
qualcosa, ma intanto noi attraverseremo le nostre vite senza averne troppo
danno. Il danno è per un tempo che non vedremo. Ma il problema è proprio
questo: quel tempo che non vedremo si può aggiustare, ma bisognerebbe
cominciare ora. E non per noi, ma per il tempo che non vedremo. Il problema più
profondo è che tutto dovrebbe essere così: dovremmo cominciare a costruire oggi
le scuole, la sanità, l'equilibrio sociale di domani. Ma noi oggi ci occupiamo
di oggi. Tra l'altro, a malapena. I miei figli invece non sono come me - come
noi. Loro pensano al tempo, al futuro, pensano alla vita dopo di loro.
Inconcepibile. Mi guardano sconfortati perché io faccio degli sforzi ma il mio
modo di vivere è distratto, poco impegnato o concentrato su cose che loro
ritengono essenziali e sono essenziali, ma soprattutto i miei figli si sfogano
contro lo Stato, contro le multinazionali, contro le Nazioni unite - e sentono
in me quella stessa vacuità, vaghezza che sentono nello Stato, nelle Nazioni
unite, che sentono nei grandi incontri internazionali sull'ambiente. Quello che
sentono si può sintetizzare in un generico: bisogna fare qualcosa. Ed è un modo
di parlare poco sostanzioso e che svicola dalla questione e credo che io, come
gli stati, come i ministri, come le persone che dovrebbero fare qualcosa mentre
dicono che bisogna fare qualcosa, siamo incapaci. E così, io mi sento in
perfetta sintonia con il resto del mondo; e loro no. Mi sorvegliano quando mi
lavo i denti, sono dietro la porta quando faccio la doccia per sentire se
chiudo l'acqua mentre mi insapono, mi sorvegliano quando vado verso i vari
sacchetti dell'immondizia per vedere se differenzio, e se differenzio bene.
Quando loro non ci sono, non resisto, e faccio qualcosa che non devo fare, lo
faccio con l'idea della trasgressione, convinto di non farlo contro me stesso.
E osservo gli altri, quelli che non hanno i figli che vogliono salvare il
mondo, e sono puliti di molte docce, freschi di aria condizionata senza fine,
con delle bottiglie di plastica in mano dissetanti. La mia vita è come quando
bisogna acquistare un libro che non è proprio l'ultima novità, e ho due strade:
Amazon o la libreria di quartiere. Con Amazon clicco e compro in due minuti, e
il libro arriva il giorno dopo, posso anche non uscire da casa e posso anche
dimenticartene: il libro troverà me, salirà in ascensore e si deporrà nelle mie
mani. Se scelgo la libreria di quartiere, come mi impongono i miei figli, esco,
di solito diluvia, entro tutto bagnato in libreria, il commesso mi sorride, gli
chiedo il libro, scuote immediatamente la testa: non ce l'ha. Ma lo posso
ordinare, arriverà tra quattro giorni forse, ma è meglio ripassare la settimana
prossima. Esco, piove ancora, mi bagno, torno a casa, la settimana dopo ripasso
in libreria, non è arrivato, arriverà, intanto penso intensamente ad Amazon, e
penso alla fine quello che non devo pensare: vaffanculo alla libreria di
quartiere. Salvare il mondo è faticoso, non averne cura è molto più semplice.
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