“Politica&Straccichevolano”. Ha scritto Michele Serra in “Il più a destra di tutti” pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” di ieri domenica 7 di agosto 2022: Che
un multimiliardario proponga, sorridendo, un'aliquota fiscale uguale per tutti,
dal piccolo commerciante al grande manager, dalla ragazza con la partita Iva al
professionista strapagato, è una oscenità non solamente politica, anche morale,
che rischia di sfuggirci, e sicuramente sfuggirà - come da anni accade - ai
suoi elettori. Perché la progressività delle tasse è un elementare principio di
equità, e il ricco che propone al povero di pagare la sua stessa aliquota è,
politicamente parlando, un ladro che elogia il suo furto. Siamo così compresi a
parlare della Giorgia e del Salvini che rischiamo di dimenticare chi è, a
destra, largamente il peggiore, primo artefice del deterioramento della
politica italiana. Colui senza il quale nulla è spiegabile, non la deriva
populista della destra italiana (fu il primo dei populisti), non la sua solida
componente neofascista (fu il primo degli sdoganatori), non il complessivo
deterioramento culturale dell'intero quadro politico, sinistra compresa (fu il
primo dei semplificatori, dei demagoghi, dei soppressori del linguaggio critico
a vantaggio della ciancia pubblicitaria). La sua immagine recente, vuoi del
vecchietto accattivante, vuoi dell'anziano e saggio moderato, è tipicamente
consolatoria. Serve a dimenticare che Berlusconi è stato il nostro Trump, ha
svuotato la destra conservatrice e borghese per farne una fabbrica di demagogia
(fa testo il disgusto di Montanelli) e soprattutto ha tenuto bene da conto -
come Trump, come tutti gli straricchi - i suoi interessi personali. Il più di
destra, a destra, è sempre lui: da trent'anni. (…). Di seguito, “Perdere le elezioni: l’operazione Letta”
di Barbara Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano» di ieri 7 di agosto
2022: Prima ancora che cominci la campagna elettorale possiamo dare per
scontate due cose: la vittoria delle destre e con essa lo stravolgimento
presidenzialista della Costituzione, ottenibile con una maggioranza di due
terzi senza bisogno di referendum. Tutto fa pensare che il guazzabuglio
elettorale confezionato da Enrico Letta lo sappia, l’accetti, forse perfino lo
voglia. Che il Pd finga di voler vincere, quando invece si è tramutato non solo
in partito centrista ma in un ufficio di collocamento che spartisce seggi con
partitini affamati di posti e visibilità in TV. Come nel 2008 quando Veltroni
affossò il governo Prodi e oppose all’Ulivo la “vocazione maggioritaria” del
Pd, con l’intento/speranza di divenire primo partito italiano ma perdendo
clamorosamente le elezioni. Se così non fosse, se esistesse una coalizione
dotata di un minimo di realismo e decisa a combattere seriamente le destre, la
storia del dopo-Draghi non sarebbe sfociata nelle scemenze di questi giorni,
che alcuni nobilitano chiamandole suicidio. Innanzitutto Letta avrebbe ripreso
i contatti con Conte, non insisterebbe nel giudicare imperdonabile un atto di
sfiducia che senza lo strappo di Lega e Forza Italia non avrebbe privato Draghi
della maggioranza, non avrebbe adescato con qualche seggio Bonelli e Fratoianni
(il quale di sfiducie ne ha espresse cinquantacinque) dando a credere che
incorporando Fratoianni si allarga a sinistra. Dal vicolo cieco di veti e
controveti si poteva uscire imboccando la via di un’alleanza elettorale fra
diversi, Conte compreso, e però unita da un pensiero dominante: proteggere la
Costituzione da sovvertimenti più volte bocciati dagli italiani. Nel
guazzabuglio mancano sia il principio di realtà sia il pensiero dominante. Ma
soprattutto, il Pd non avrebbe scritto con Calenda il patto politico-ideologico
che vede un partitino e un leader dai toni sguaiati esercitare un’inaudita
egemonia culturale sul Pd. Ora si capisce come mai Letta si sia incaponito per
mesi a definire “largo” il campo con 5 Stelle, rifiutando l’aggettivo
“progressista” preferito da Conte o Bersani. Perché già lavorava a un
neocentrismo che non contemplasse più la divaricazione fra destra e sinistra (fra
Agenda Draghi e Agenda Sociale) ma introducesse uno spartiacque perdente: lo
scontro di civiltà. Lo spartiacque di Letta e Calenda si adatta alla seconda
guerra fredda: da una parte gli “europeisti-atlantisti”, che abbracciano
incondizionatamente il riarmo anti-russo deciso da Washington e Nato;
dall’altra i “putiniani”, di destra e 5 Stelle, che secondo Letta e Calenda si
accingerebbero anche a disfare un’UE già parecchio disfatta per conto suo.
Draghi sarebbe stato addirittura silurato dal Cremlino, come ha scritto «La
Stampa» per via di una domanda piuttosto banale rivolta da un funzionario
dell’ambasciata russa a un rappresentante leghista (“La Lega intende uscire dal
governo Draghi?”). Non a caso Letta ha evocato come riferimento le elezioni
dell’aprile 1948. Riferimento ominoso (Recita il Dizionario Treccani: “[dal
lat. ominosus, der. di omen omĭnis «augurio, presagio»],
letter. – Che è di malaugurio, che preannuncia o porta sventura” n.d.r),
visto che anche allora si sbandierò uno scontro di civiltà: i comunisti
italiani, con cui fino a gennaio si era scritta la Costituzione, venivano
dipinti nei manifesti elettorali come scheletri vestiti con l’uniforme dell’Armata
Rossa. Un altro elemento dello spartiacque centrista è rappresentato
dall’apologia dell’Agenda Draghi. Subito dopo la caduta del governo il PD
l’evocò con prudenza, ma su spinta di Calenda l’Agenda è ora il nerbo del patto
fra i due autoproclamati frontmen della campagna (Letta e Calenda), accendendo
paturnie ininfluenti in Fratoianni che entra nel cartello spacciandolo per
centro-sinistra. Saranno draghiani “il metodo e l’azione” – dice il patto con
Calenda – e l’adesione incondizionata alla Nato contro Russia e Cina. La
scommessa di Letta, e ovviamente di Calenda, è che il mini-partito Azione
diventi maxi pescando voti a destra. Scommessa inane: le destre sarebbero forse
indebolite, almeno al Senato, all’unica condizione di un fronte con 5 Stelle. A
Calenda Letta ha regalato uno spazio un po’ meno sproporzionato nei collegi
uninominali (24% invece dei 30 promessi) e i camaleonti Di Maio, Gelmini,
Carfagna ricevono regalucci. Fratoianni e Bonelli, ottusamente inghiottendo i
controsensi di Letta (“Siamo separati ma compatibili… questo patto non è di
governo”) si sono infine accontentati di porticine di servizio. “Senza intesa
parliamo con Conte”, suonava per qualche ora il ricatto di Fratoianni, non
seguito da Bonelli che è fervente atlantista come tutti i Verdi europei. Col
passare dei giorni appare probabile che Draghi sia stato il vero artefice dei
presenti garbugli, avendo voluto dimettersi a ogni costo nonostante disponesse
di una maggioranza solida e assecondato da Mattarella. I motivi, scrive Giovanni
Di Corato nel blog Econopoly, sono sia geopolitici sia economici. Sempre più
italiani son contrari all’invio di armi all’Ucraina, dunque meglio andare al
voto subito invece che fra un anno, specie se la guerra continua e se
Washington apre un secondo fronte contro Pechino, dopo la dissennata visita di
Nancy Pelosi a Taiwan. Intrecciata con la geopolitica c’è poi l’economia:
Draghi prevede nuvole, ma sarà uragano. Perfino Giorgia Meloni è in allarme,
dice che Draghi “è fuggito”, chiede tramite Guido Crosetto patti anti-crisi con
l’opposizione futura. L’Agenda Draghi è fedele al neoliberismo; liberalizza i
contratti precari sottopagati; ha scritto riforme della giustizia che intaccano
l’autonomia della magistratura e accorciano arbitrariamente i processi;
smantella le misure sociali introdotte dai governi Conte (reddito di
cittadinanza, decreto dignità, superbonus per l’edilizia). Quanto al salario
minimo, il ministro Pd Orlando non fissa cifre e chiede accordi preliminari con
le parti sociali, fin qui contrarie o riluttanti. Il disegno di legge sulla
concorrenza, infine, liberalizza senza vincoli normativi, a cominciare dai
trasporti Uber e dalla privatizzazione dell’acqua, respinta in tre referendum.
L’aumento delle spese militari colpisce settori come sanità, scuola, ricerca, e
il Welfare inviso alle destre. Nessuna considerazione, infine, per le proteste
bipartisan contro il rigassificatore a Piombino, piazzato alle banchine del
porto e non a 22 km dalla costa come a Livorno. Calenda arriva a dire: sì a
rigassificatori e termovalorizzatori, “se necessario militarizzando le aree”.
Se questi sono i piani e il linguaggio del neo-centro, a opporsi da sinistra
non resta che il “campo giusto” di Conte.
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