“Promemoriaelettorale”. È certo che il “peggio”
– ma al “peggio”, si suol dire, non c’è mai fine - che ci potesse capitare è
stato quel “tale” che ebbe l’arroganza e l’improntitudine di definire “cogl****”
i suoi avversari politici divenuti, nel racconto politico di quegli infausti
anni, i suoi “nemici”. Ha scritto Alessandro Robecchi in «Chi
votare? Così il “meno peggio” rischia spesso di portare al peggio»
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di agosto 2022: Il concetto di “meno peggio”
aleggia sulle elezioni di settembre come un solitario condor che cerca conigli
nella pianura. L’esercizio può essere infinito: preferite esser chiuso in una
stanza con una decina di vespe o con un giaguaro affamato? Scegliere il meno
peggio vi sarà agevole, così come, alla lunga, tra mangiare male e non mangiare
per niente, uno sarà costretto a scegliere la soluzione meno dannosa. Nella
politica italiana la cosa funziona da secoli, la usò Silvio quando c’erano da
fermare “i comunisti” (che vedeva solo lui), prima ancora la Dc a metà dei
Settanta quando c’era da evitare il sorpasso del Pci, e va molto di moda oggi
in cui si consigliano caldamente mollette per il naso a chi dovrebbe votare
senza entusiasmi, ma con l’onorevole missione di scegliere il male minore. Sembrerebbe
una questione di logica ferrea, difficile da attaccare e in molti casi usata
per forzare e stirare situazioni un po’ estreme: l’idea è che io – faccio un
esempio da Milano – debba votare Cottarelli per fermare Giorgetti, o che – dico
uno di Bologna – debba votare Casini per fermare Berlusconi (e tutti per
fermare io sono Giorgia). Suggestivo. L’antico trucchetto funziona un po’ meno
a questo giro: la polarizzazione del voto non è pienamente conclusa, perché i
poli da polarizzare non sono due, c’è una terza forza non trascurabile, i
Cinque stelle, accreditati sopra o attorno al dieci per cento, poi i guastatori
del quarto polo, che parlano di sé come terzo polo, che veleggiano nei sondaggi
intorno al cinque e che al momento hanno sicuramente più righe sui giornali che
elettori. Poi, piccole formazioni che meriterebbero almeno una seggiola. Quanto
al meno peggio, mi sia concesso di dubitare dell’efficacia del concetto. Alle
politiche del 2013 Giorgia Meloni prese il 2 per cento, a quei tempi il peggio
erano ancora Silvio buonanima e la Lega. Nel 2018 prese il 4,3, cioè raddoppiò
i voti. Dal governo Monti in poi o con dentro tutti a battere le mani, o con
governi a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte2, poi Draghi, con un anno di
Conte1 in mezzo), il peggio che si voleva combattere con il metodo del “meno
peggio” è lievitato come un panettone, la Meloni veleggia attorno al 25, e gli
altri (un peggio con cui peraltro si è governato) si ringalluzziscono dietro a
lei. Un elettore su due a votare non ci va, forse perché vede il confine tra
peggio e meno peggio un po’ labile e affievolito. (…). Pare abbastanza
conclamato che il meno peggio rischia spesso di portare al peggio. Non è una
cosa nuova, anzi. Tanto che ce la spiegò in modo cristallino Antonio Gramsci
nei “Quaderni dal carcere”, ricordando anche un detto popolare: “Peggio non è
mai morto”. E anche: “La formula del male minore, del meno peggio, non è altro
dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento
storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente
guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse)
sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo
colpo”. La rana di Chomsky, insomma. Non si pretende certo che qualcuno che sta
battendosi a mani nude con il Rosatellum vada a rileggersi Gramsci, però
magari, vai a sapere, alla lunga può aiutare. Di seguito, «Il
cavatappi Piero apostolo “scarismatico della politica dem»
di Pino Corrias pubblicato alla stessa data sempre su “il Fatto Quotidiano”: Il
perfido D’Alema dice che in quanto alla politica e alle donne il suo amico
Piero Fassino si sente meglio “di un cavatappi in un’enoteca”. Tutti
regolarmente ridono per l’enormità della battuta. E fanno l’errore di non
credergli. Ma basta il vasto territorio della politica – sulle altre intimità i
gentiluomini sorvolano – a dimostrare che nei suoi sessanta e passa anni di
carriera da militante diciottenne, a deputato, poi sottosegretario, ministro,
segretario di partito, sindaco, di tappi ne ha cavati parecchi, con conseguente
scia di malinconici vuoti a perdere. La verità è che Fassino ha un quid che
pesa la metà di quello che dovrebbe, 65 chili per quasi due metri di altezza,
ma ingombra il doppio. Anche per questo, al nuovo giro elettorale, pretende un
seggio, nonostante la penuria di posti a sedere. Anzi proprio per quello,
avendo bisogno, dai giorni della sua ombrosa infanzia torinese, di conferme
contro l’insicurezza. Un sentimento che lo imprigiona, segnalato da un veloce
sbattere di palpebre, quando prende fiato, e insieme da ricorrenti scoppi
d’ira. È dai tempi di Botteghe Oscure che si narrano le sue sfuriate, i
portacenere lanciati con massima violenza contro le segretarie. Circostanza che
lui ha sempre smentito, ci mancherebbe: “Ce ne sono tante che a distanza di
anni ancora mi telefonano”. Anche se il punto è: per dirgli cosa. Al netto dei
fuochi e dei lapilli, Fassino è quieto in superficie e di solito accomodante
nel profondo. Nel senso anche domestico del termine. Come a casa, gli piace
rigovernare i piatti e i bicchieri della cena, riordinandoli nella
lavastoviglie, così nel partito riordina le sedie dopo le riunioni e le
correnti dopo le scissioni. Sempre coltivando l’equidistanza. Specie in quei
sette anni di segretario del partito, 2001-2007, che allora si chiamava Ds,
democratici di sinistra, ma anche Democratici sinistrati, visto lo strapotere
di Silvio B. che si era preso il banco e tenuto il malloppo delle concessioni tv,
grazie alla inconcludenza fratricida dei progressisti, cominciata con la
sconfitta di Occhetto, anno 1994, proseguita con le mine antiuomo disseminate
da Bertinotti per divertirsi, la permanente congiura di D’Alema contro Prodi e
contro se stesso, la deriva kennediana di Veltroni, appassionato di West Coast
e Africa. Il convocatore seriale di riunioni subito chiuse. Non avendo carisma
in proprio, Fassino si annette quello degli altri. È stato fedele a D’Alema con
la guancia sinistra. Devoto a Veltroni con quella destra. Amico di Occhetto
fino alla disfatta. Tifoso di Bersani quando diventa il capo della ditta.
Ammiratore di Matteo Renzi quando vuole sfasciarla. Addirittura paterno con
Zingaretti “è uno dei miei tanti figli”. Per non dire “dell’ampio consenso”
verso Enrico Letta, segretario “di alta visione”, “nobile” persino nel nome di
battesimo che evocando quello dell’antico segretario “ne sente il peso della
responsabilità”. Fassino con la responsabilità ci va a pranzo e a cena. Un
giorno ha detto: “Ho sacrificato me stesso alla funzione che ricoprivo”.
Portentosa è stata, nei decenni, la sua capacità di convocare riunioni,
aprirle, argomentarle e chiuderle, come insegnava ai militanti durante la
scuola quadri che dirigeva da responsabile fabbriche della Federazione
torinese. Impegno che non gli impediva, tre volte al giorno, tutti i giorni, al
cambio turno delle sei del mattino, delle due del pomeriggio e delle undici di
sera, di volantinare davanti ai cancelli della Fiat, dove scopre l’ovvio e lo annota:
“Nel movimento operaio coesistono un’anima movimentista e una
contrattualistica”. Per non sbagliare le ha assecondate entrambe, fiutando
l’aria. Barricadero con Berlinguer ai tempi dei licenziamenti alla Fiat. Poi
progressista, riformista, “ma non moderato”. Oggi “moderato e centrista”. La
passione politica viene dal padre che fu comandante partigiano, compagno d’armi
di Enrico Mattei che nel Dopoguerra lo nominò concessionario Agipgas per il
Piemonte. Piero nasce benestante ad Avigliana, anno 1949. Cresce circondato dal
grigio della città fabbrica e dalla lenta evoluzione del partito che con la
falce, il martello e gli occhiali, comincia a fare i conti con l’evidenza
totalitaria di Mosca che manda i carri armati a Praga, anno 1968, a spazzare
vie le ceneri di Jan Palach. Anche stavolta Piero
capisce l’ovvio e lo annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra
cosa”. Ma siccome era appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il contrario,
iscrivendosi al partito, dove si trova subito benissimo: segretario della
federazione giovanile provinciale in capo a un anno. Apostolo della disciplina
di partito e dell’etica del lavoro, ha poche passioni, a parte la Juve, la
politica estera, il jazz, le melanzane alla parmigiana. Veste in giacca e
cravatta, combatte ogni deriva movimentista, compresa quella dei No-Tav. Ma
trova potabile quella in viaggio verso destra: da Giuliano Ferrara al “leale”
Mastella. Sarà il primo a riabilitare Bettino Craxi, “una figura da inserire
nel Pantheon del partito democratico”. Al quale annette anche le banche. Resta
celebre il suo “Abbiamo una banca!”, nella telefonata registrata con Giovanni
Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata a Banca Intesa, anno 2005.
Un po’ meno note sono le sue estati a bordo dello yatch Electa, 40 metri con
bandiera del Principato di Monaco, che fa sempre capo al patron di Banca
Intesa, Giovanni Bazoli. “Se Grillo vuol far politica, fondi un partito e si
presenti”. Sentendosi in sintonia con la nuova Torino post operaia, si candida
a sindaco nel 2011. L’idillio dura un solo mandato. Perde quello successivo a
vantaggio di Chiara Appendino, stella di quel movimento che il povero Piero
sfidò pubblicamente: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si
presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende!”. Sta in panchina da
allora. Dalle delusioni della politica, reagisce ballando. Con un valzer a
Santiago del Cile dice di avere conquistato la sua seconda moglie, Anna
Serafini. E in una memorabile apparizione da Maria De Filippi confessa che gli
piacerebbe ballare un tango con la Carfagna, una polka con la Gelmini e un rock
and roll con la Meloni. Siamo alla post politica del veterano d’altro secolo.
Noi ci fermiamo sulla soglia del Fassino Dancing. Lui non ancora.
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