"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 19 agosto 2022

Notiziedalbelpaese. 74 «Piero capisce l’ovvio e lo annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra cosa”».

Promemoriaelettorale”. È certo che il “peggio” – ma al “peggio”, si suol dire, non c’è mai fine - che ci potesse capitare è stato quel “tale” che ebbe l’arroganza e l’improntitudine di definire “cogl****” i suoi avversari politici divenuti, nel racconto politico di quegli infausti anni, i suoi “nemici”. Ha scritto Alessandro Robecchi in «Chi votare? Così il “meno peggio” rischia spesso di portare al peggio» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di agosto 2022: Il concetto di “meno peggio” aleggia sulle elezioni di settembre come un solitario condor che cerca conigli nella pianura. L’esercizio può essere infinito: preferite esser chiuso in una stanza con una decina di vespe o con un giaguaro affamato? Scegliere il meno peggio vi sarà agevole, così come, alla lunga, tra mangiare male e non mangiare per niente, uno sarà costretto a scegliere la soluzione meno dannosa. Nella politica italiana la cosa funziona da secoli, la usò Silvio quando c’erano da fermare “i comunisti” (che vedeva solo lui), prima ancora la Dc a metà dei Settanta quando c’era da evitare il sorpasso del Pci, e va molto di moda oggi in cui si consigliano caldamente mollette per il naso a chi dovrebbe votare senza entusiasmi, ma con l’onorevole missione di scegliere il male minore. Sembrerebbe una questione di logica ferrea, difficile da attaccare e in molti casi usata per forzare e stirare situazioni un po’ estreme: l’idea è che io – faccio un esempio da Milano – debba votare Cottarelli per fermare Giorgetti, o che – dico uno di Bologna – debba votare Casini per fermare Berlusconi (e tutti per fermare io sono Giorgia). Suggestivo. L’antico trucchetto funziona un po’ meno a questo giro: la polarizzazione del voto non è pienamente conclusa, perché i poli da polarizzare non sono due, c’è una terza forza non trascurabile, i Cinque stelle, accreditati sopra o attorno al dieci per cento, poi i guastatori del quarto polo, che parlano di sé come terzo polo, che veleggiano nei sondaggi intorno al cinque e che al momento hanno sicuramente più righe sui giornali che elettori. Poi, piccole formazioni che meriterebbero almeno una seggiola. Quanto al meno peggio, mi sia concesso di dubitare dell’efficacia del concetto. Alle politiche del 2013 Giorgia Meloni prese il 2 per cento, a quei tempi il peggio erano ancora Silvio buonanima e la Lega. Nel 2018 prese il 4,3, cioè raddoppiò i voti. Dal governo Monti in poi o con dentro tutti a battere le mani, o con governi a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte2, poi Draghi, con un anno di Conte1 in mezzo), il peggio che si voleva combattere con il metodo del “meno peggio” è lievitato come un panettone, la Meloni veleggia attorno al 25, e gli altri (un peggio con cui peraltro si è governato) si ringalluzziscono dietro a lei. Un elettore su due a votare non ci va, forse perché vede il confine tra peggio e meno peggio un po’ labile e affievolito. (…). Pare abbastanza conclamato che il meno peggio rischia spesso di portare al peggio. Non è una cosa nuova, anzi. Tanto che ce la spiegò in modo cristallino Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, ricordando anche un detto popolare: “Peggio non è mai morto”. E anche: “La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo”. La rana di Chomsky, insomma. Non si pretende certo che qualcuno che sta battendosi a mani nude con il Rosatellum vada a rileggersi Gramsci, però magari, vai a sapere, alla lunga può aiutare. Di seguito, «Il cavatappi Piero apostolo “scarismatico della politica dem» di Pino Corrias pubblicato alla stessa data sempre su “il Fatto Quotidiano”: Il perfido D’Alema dice che in quanto alla politica e alle donne il suo amico Piero Fassino si sente meglio “di un cavatappi in un’enoteca”. Tutti regolarmente ridono per l’enormità della battuta. E fanno l’errore di non credergli. Ma basta il vasto territorio della politica – sulle altre intimità i gentiluomini sorvolano – a dimostrare che nei suoi sessanta e passa anni di carriera da militante diciottenne, a deputato, poi sottosegretario, ministro, segretario di partito, sindaco, di tappi ne ha cavati parecchi, con conseguente scia di malinconici vuoti a perdere. La verità è che Fassino ha un quid che pesa la metà di quello che dovrebbe, 65 chili per quasi due metri di altezza, ma ingombra il doppio. Anche per questo, al nuovo giro elettorale, pretende un seggio, nonostante la penuria di posti a sedere. Anzi proprio per quello, avendo bisogno, dai giorni della sua ombrosa infanzia torinese, di conferme contro l’insicurezza. Un sentimento che lo imprigiona, segnalato da un veloce sbattere di palpebre, quando prende fiato, e insieme da ricorrenti scoppi d’ira. È dai tempi di Botteghe Oscure che si narrano le sue sfuriate, i portacenere lanciati con massima violenza contro le segretarie. Circostanza che lui ha sempre smentito, ci mancherebbe: “Ce ne sono tante che a distanza di anni ancora mi telefonano”. Anche se il punto è: per dirgli cosa. Al netto dei fuochi e dei lapilli, Fassino è quieto in superficie e di solito accomodante nel profondo. Nel senso anche domestico del termine. Come a casa, gli piace rigovernare i piatti e i bicchieri della cena, riordinandoli nella lavastoviglie, così nel partito riordina le sedie dopo le riunioni e le correnti dopo le scissioni. Sempre coltivando l’equidistanza. Specie in quei sette anni di segretario del partito, 2001-2007, che allora si chiamava Ds, democratici di sinistra, ma anche Democratici sinistrati, visto lo strapotere di Silvio B. che si era preso il banco e tenuto il malloppo delle concessioni tv, grazie alla inconcludenza fratricida dei progressisti, cominciata con la sconfitta di Occhetto, anno 1994, proseguita con le mine antiuomo disseminate da Bertinotti per divertirsi, la permanente congiura di D’Alema contro Prodi e contro se stesso, la deriva kennediana di Veltroni, appassionato di West Coast e Africa. Il convocatore seriale di riunioni subito chiuse. Non avendo carisma in proprio, Fassino si annette quello degli altri. È stato fedele a D’Alema con la guancia sinistra. Devoto a Veltroni con quella destra. Amico di Occhetto fino alla disfatta. Tifoso di Bersani quando diventa il capo della ditta. Ammiratore di Matteo Renzi quando vuole sfasciarla. Addirittura paterno con Zingaretti “è uno dei miei tanti figli”. Per non dire “dell’ampio consenso” verso Enrico Letta, segretario “di alta visione”, “nobile” persino nel nome di battesimo che evocando quello dell’antico segretario “ne sente il peso della responsabilità”. Fassino con la responsabilità ci va a pranzo e a cena. Un giorno ha detto: “Ho sacrificato me stesso alla funzione che ricoprivo”. Portentosa è stata, nei decenni, la sua capacità di convocare riunioni, aprirle, argomentarle e chiuderle, come insegnava ai militanti durante la scuola quadri che dirigeva da responsabile fabbriche della Federazione torinese. Impegno che non gli impediva, tre volte al giorno, tutti i giorni, al cambio turno delle sei del mattino, delle due del pomeriggio e delle undici di sera, di volantinare davanti ai cancelli della Fiat, dove scopre l’ovvio e lo annota: “Nel movimento operaio coesistono un’anima movimentista e una contrattualistica”. Per non sbagliare le ha assecondate entrambe, fiutando l’aria. Barricadero con Berlinguer ai tempi dei licenziamenti alla Fiat. Poi progressista, riformista, “ma non moderato”. Oggi “moderato e centrista”. La passione politica viene dal padre che fu comandante partigiano, compagno d’armi di Enrico Mattei che nel Dopoguerra lo nominò concessionario Agipgas per il Piemonte. Piero nasce benestante ad Avigliana, anno 1949. Cresce circondato dal grigio della città fabbrica e dalla lenta evoluzione del partito che con la falce, il martello e gli occhiali, comincia a fare i conti con l’evidenza totalitaria di Mosca che manda i carri armati a Praga, anno 1968, a spazzare vie le ceneri di Jan Palach. Anche stavolta Piero capisce l’ovvio e lo annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra cosa”. Ma siccome era appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il contrario, iscrivendosi al partito, dove si trova subito benissimo: segretario della federazione giovanile provinciale in capo a un anno. Apostolo della disciplina di partito e dell’etica del lavoro, ha poche passioni, a parte la Juve, la politica estera, il jazz, le melanzane alla parmigiana. Veste in giacca e cravatta, combatte ogni deriva movimentista, compresa quella dei No-Tav. Ma trova potabile quella in viaggio verso destra: da Giuliano Ferrara al “leale” Mastella. Sarà il primo a riabilitare Bettino Craxi, “una figura da inserire nel Pantheon del partito democratico”. Al quale annette anche le banche. Resta celebre il suo “Abbiamo una banca!”, nella telefonata registrata con Giovanni Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata a Banca Intesa, anno 2005. Un po’ meno note sono le sue estati a bordo dello yatch Electa, 40 metri con bandiera del Principato di Monaco, che fa sempre capo al patron di Banca Intesa, Giovanni Bazoli. “Se Grillo vuol far politica, fondi un partito e si presenti”. Sentendosi in sintonia con la nuova Torino post operaia, si candida a sindaco nel 2011. L’idillio dura un solo mandato. Perde quello successivo a vantaggio di Chiara Appendino, stella di quel movimento che il povero Piero sfidò pubblicamente: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende!”. Sta in panchina da allora. Dalle delusioni della politica, reagisce ballando. Con un valzer a Santiago del Cile dice di avere conquistato la sua seconda moglie, Anna Serafini. E in una memorabile apparizione da Maria De Filippi confessa che gli piacerebbe ballare un tango con la Carfagna, una polka con la Gelmini e un rock and roll con la Meloni. Siamo alla post politica del veterano d’altro secolo. Noi ci fermiamo sulla soglia del Fassino Dancing. Lui non ancora.

Nessun commento:

Posta un commento