“Popolo&Guerra”. Ha scritto Michele Serra in “Ho dubbi sulla Nato non su Putin”
pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 4 di marzo 2022: (…): nessuno,
da queste parti, è in ansia per il “povero Putin”. Da quando esiste vedo in
lui, e lo scrivo, un nemico della libertà, un nazionalista fanatico, nonché il
garante politico degli oligarchi che si sono mangiati la Russia. Difendere
“l’amico Putin” può essere un problema di Salvini e Berlusconi, certo non il
mio. La partita in corso è chiara a tutti: difendere l’autodeterminazione
dell’Ucraina per difendere la democrazia, concetto non poi così vago da avere
bisogno di grandi approfondimenti. Sono
con l’Europa, dunque contro Putin. Ma dirlo e basta significa poco. È una
comoda semplificazione (anche per questo le guerre sono pericolose: perché
costringono a semplificare). E dunque pensare che la Nato non avrebbe dovuto
spingere così a Est la sua presenza militare; considerare che una parte non
piccola del nazionalismo ucraino ha schiette venature fasciste, come sui
giornali (anche Repubblica) si legge da anni; che queste venature
nazional-fasciste erano ben presenti anche nella non lontana guerra in
Jugoslavia (anche lei “guerra nel cuore dell’Europa”, nella quasi indifferenza
degli europei, che l’hanno dimenticata in fretta); che le autocrazie ci fanno
comodo quando se ne stanno buone e fanno affari con noi, e non è intelligente
scoprire che sono autocrazie solo quando scendono in guerra; che Erdogan,
nazionalista islamico e persecutore dei suoi oppositori, non è un membro del
quale il club Nato può vantarsi, visto che “difendere la democrazia” dovrebbe
essere la sua ragione sociale; be’, dire e pensare queste cose non solo non
indebolisce il cosiddetto “Occidente”, ma lo aiuta a ragionare sui propri
limiti e i propri errori. Questa facoltà – ragionare sui propri limiti ed
errori – mi sembra il sale della democrazia. Lasciando a duci e ducetti, ai
capipopolo nazionalisti, il dubbio privilegio di sentirsi immuni da colpe,
benedetti da Dio, condottieri immacolati, e in fondo al loro percorso, macellai
di esseri umani. Di seguito, “All’inizio
fu il Kosovo poi venne l’Ucraina” di Fabio Mini – già Generale di Corpo d’Armata
-, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, venerdì 5 di agosto 2022: La
Storia parla, ma pochi la ascoltano, insegna ma quasi nessuno impara. La Storia
viene spesso travisata, tradita, sfruttata e allora si ribella e si vendica. La
storia dei conflitti prende il sopravvento sulla storia dell’umanità e la
Guerra interviene al posto della Giustizia, che ne diventa il pretesto, ma
facendosi livellatrice (nemesis) nel senso materiale e morale: azzerando
istituzioni e uomini, pensiero e morale, ma soprattutto riportando i conflitti
alle loro origini, ai delitti irrisolti o impuniti. In questi giorni l’Europa
sta vivendo una fase drammatica della sua storia e invece di ricordarla e
rispettarla, cercando di non ripetere errori e nefandezze, la bistratta
costruendo una storia senza passato, un presente ingestibile e l’unica
prospettiva di autodistruzione. Il Kosovo è un piccolo posto nei Balcani
(territorio equivalente al nostro Abruzzo) la cui storia è in questi giorni
volutamente dimenticata e stravolta. Come nemico dichiarato onnipresente e
pasticcione, la Russia è ritenuta responsabile di ciò che sta avvenendo in
quell’area. La Russia vorrebbe allargarsi alla Serbia e quindi minacciare
l’Occidente e la Nato. Il Kosovo “liberato” dalla Nato va difeso. La Nato è
pronta a bombardare la Serbia, di nuovo, parola di Stoltenberg. Le forze di
Kfor (inclusa la base americana di Bondsteel) non sono sufficienti a garantire
la difesa da un attacco e sono praticamente ostaggi da sacrificare per giustificare
un intervento armato di tutt’altro genere: gli americani hanno pronta la
brigata di Vicenza e le forze dell’Alleanza hanno quelle aeree, navali,
missilistiche e terrestri “over the horizon” dislocate oltre l’orizzonte
kosovaro. La storia è pronta a vendicarsi di tutto questo tempo passato a non
concludere un solo progetto di vera stabilizzazione. Ovvero una stabilizzazione
concordata fra Kosovo e Serbia e non sulla loro testa. Qualcuno tenta di
minimizzare: è una questione di targhe automobilistiche e di traffico
transfrontaliero e agli storici, quelli veri, sale il conato. Il Kosovo, come
cuore dei Balcani, è il luogo che produce più storia di quanta ne possa
digerire, diceva Churchill, dimenticandosi di aggiungere che la digestione era
più difficile proprio per la politica e l’intervento occidentale e britannico
in particolare. Da sempre. Il Kosovo è il luogo dove la Serbia combatté
l’impero ottomano (Kosovopolje – 1389). Perse la battaglia, fu assoggettata ma
arrestò i turchi salvando l’Europa e la cristianità. Da quel posto, 600 anni
dopo Milosevic, leader della repubblica di Serbia, ancora parte della
federazione jugoslava, commise l’errore di dichiarare la Serbia erede e guida
della federazione, riportando la questione balcanica sul piano più pericoloso e
contrastato: il nazionalismo etnico padre e padrone della xenofobia, del
razzismo e della discriminazione, nonché pretesto per le pulizie etniche. Il
nazionalismo serbo riproposto da Milosevic innescò quello di tutte le altre
repubbliche jugoslave e, dopo la caduta del Muro di Berlino, furono proprio i
nazionalismi a guidare l’occidente e la Nato nella corsa ad accaparrarsi le
spoglie dell’Urss, tra cui l’Ucraina. Erano quelli i problemi irrisolti già a
partire dalla Conferenza di Versailles del 1919, alla fine della prima guerra
mondiale. Problemi che il Wilsonismo statunitense lasciava aperti per
consentire agli stati irredenti di conquistare l’indipendenza e che di fatto
iniziò a frantumare gli stati multietnici e favorire i movimenti nazionalisti
estremi e bellicosi. E la Storia si vendicò con la Seconda guerra mondiale.
Durante la Guerra fredda il processo di disgregazione degli imperi continuò con
la decolonizzazione salvando solo l’Europa dove il conflitto tra i due blocchi
avrebbe comportato la loro estinzione. La fine dell’Urss e la riunificazione
della Germania (3 ottobre 1990 – anch’essa su base etnica) furono viste come
vittorie della democrazia e l’inizio di un periodo di pace, ma era già iniziato
lo sgretolamento balcanico: in Kosovo. A luglio del 1990 il parlamento
provinciale del Kosovo modificò la propria costituzione ergendosi a repubblica.
La Serbia annullò sia la decisione sia lo status di autonomia fino a quel
momento concesso. In Bosnia intervenne l’Onu con 40.000 uomini per uno dei suoi
tanti fallimenti militari (1992) in mezzo a conflitti fra bande armate e
delinquenti autori di massacri ai danni di bosniaci e serbi da parte di croati
e mercenari al soldo degli Usa. Nel 1993 anche nella Russia di Eltsin,
allineata con l’occidente ci fu una recrudescenza del nazionalismo patriottico
e il leader del partito liberal democratico, rosso-bruno, Žirinovskij, in
visita in Serbia parlò del suo impegno nella creazione di una “unione di stati
slavi dalla Krajina a Vladivostok”. Poi intervenne la Nato con il bombardamento
su Banja Luka (1994) primo atto di guerra dell’alleanza atlantica contro la
Jugoslavia in disfacimento e anticipazione del significato della nascente
Partnership for peace (Pfp) a sua volta preludio all’allargamento della Nato: o
con noi o contro di noi. Con le buone o le cattive. Intanto in Kosovo
continuava la repressione della polizia serba sulla popolazione albanese e
l’azione di bande armate albanesi contro la polizia. Fino al 1998 queste
formazioni kosovare furono considerate dagli stessi Usa come terroriste e
perfino affiliate ad al Qaeda. E quindi nessuno mosse un dito. Anzi la Russia
intervenne sul serbo Milosevic per convincere gli altri leader nazionalisti
croati e bosniaci a siglare gli accordi di Dayton con i quali gli Stati Uniti
in nome della pace costruivano un mostro geopolitico in Bosnia Erzegovina. Il
Kosovo fu riportato alla luce nel 1999, grazie a una lobby albanese negli Usa e
ai vagheggiamenti del presidente Clinton sulla pace mondiale, la democrazia di
mercato, la guerra umanitaria e il primato americano sul mondo perché “Stato
più forte”, come disse ai cadetti dell’Accademia militare di West Point. Le
bande irregolari dell’UCK furono legittimate dagli aiuti europei e americani, i
tentativi di difesa diplomatica di Milosevic naufragarono sull’onda della
campagna antiserba e dopo il presunto massacro di Racak, saltarono anche i
colloqui di Rambouillet. Così la guerra fu di nuovo chiamata a livellare la
storia. Bombardamenti sulla Serbia, evacuazione degli albanesi per colpire
meglio i serbi, profughi serbi mai più rientrati. Negli ultimi 22 anni di
permanenza di truppe Nato e di altri paesi in Kosovo, non è mai cessata
l’attività di disgregazione ed emarginazione della Serbia perché “filorussa”. Il
Kosovo si è dichiarato indipendente nel 2008 dopo che per anni Onu e Nato lo
avevano impedito. Il riconoscimento è tuttora contestato dalla Serbia che dopo
aver subito l’aggressione ha dovuto sopportare la graduale eliminazione della
minoranza serba in Kosovo e le restrizioni imposte dalla Nato alla propria
sovranità. Non è servito a nulla concedere il ritiro di tutte le istituzioni
pubbliche statali dal Kosovo concordato nel 2013. Non è servito chiedere di
essere ammessa all’Ue e alla Nato accettandone le condizioni, anzi tali
richieste sono state usate come ricatto costante. Tutti i leader della guerra
kosovara glorificati e appoggiati da Usa, Gran Bretagna, Germania e Italia sono
finiti sotto processo per crimini contro l’umanità, come quelli serbi che però
sono stati condannati o sono morti in carcere. In compenso, il nazionalismo
ucraino estremo, già fonte di disgrazie per l’Ucraina e l’Europa dalla fine
dell’Ottocento in poi, sta ottenendo miliardi di dollari e armamenti americani
ed europei e quindi è diventato lo stimolo a esasperare qualsiasi nazionalismo
irrisolto o insoddisfatto, purché diretto contro la Russia, in Europa, e contro
Russia e Cina nel resto del mondo. In realtà il patriottismo di questo genere,
basato sulla dipendenza da una nazione esterna, è fittizio e svanisce con lo
svanire dei soldi e del sostegno politico. Nel frattempo la guerra impazza e la
storia è costretta alla vendetta.
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