È quando ho letto sulla stampa la “barzelletta”
raccontata (forse con voce perentoria ed altisonante, ché sulla stampa non si
percepiva affatto) dal signor D. M. – dimissionario poiché autosfiduciatosi in
Parlamento – su come debba essere il
cuore di un banchiere – “barzelletta” raccontata sicuramente con sommo
compiacimento ad una assemblea di giornalisti stranieri –, è quando ho letto
quella “barzelletta” che ho ripensato al magnifico racconto il “Canto di Natale” di Charles Dickens - che lo scrisse correndo
l’anno 1843 - ed alla dominante figura di quel protagonista, l’avaro banchiere Scrooge,
per persuadermi completamente della necessità per il Paese tutto di fare a meno
della prestazione d’opera del signor D. M., poiché risultava evidente la sua
inadeguatezza alla guida di una moderna, complessa - se non complicata - democrazia
dell’Occidente. Ha scritto Diego Bianchi in “Il migliore e i peones” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 29 di luglio 2022: «Siete
voi che decidete, quindi niente richieste di pieni poteri, va bene?», scandisce
Mario Draghi nel pomeriggio dopo aver riletto parte del testo con cui aveva
relazionato in mattinata sulle dimissioni. (…). Guarda i banchi di Fratelli
d'Italia, Draghi; quel "va bene?" è rivolto a loro, che almeno, pur
nella scorrettezza dell'alterazione di testi e contenuti, una posizione chiara,
in questa torbida vicenda di esponenziale scaricabarile, l'hanno sempre avuta.
Ricorderò le 11 ore circa trascorse a liquefarmi nella tribuna del Senato come
le più incomprensibili e sciatte tra quelle passate a documentare crisi di
governo, ribaltoni e colpi di scena vari cui il Parlamento più pazzo del mondo
ci ha da tempo abituati. Non ci ha capito niente nessuno, va detto. I
giornalisti più navigati chiedevano conforto e consulenza l'un l'altro, ma lo
stesso valeva per i ministri e i senatori sotto di noi, man mano che gli
interventi replicavano alla relazione di Draghi, che le ore passavano e bronci
e risentimenti tardoadolescenziali venivano allo scoperto. Alla fine il governo
è caduto per dissanguamento, senza nessuno che si sia preso davvero e con
orgoglio la briga di dare la coltellata ferale, tanto è stato il coraggio di
parte di chi ancora per un po' ci rappresenta. Non c'è stata l'esultanza di chi
ha vinto e tutto sommato è sembrato contenuto anche lo scoramento di chi ha
perso. Altre volte, per altre crisi, c'è stato perlomeno il senso del teatro,
una drammaturgia coinvolgente, a consegnare alle cronache gesti da ricordare,
passaggi da citare, protagonisti da segnalare. Stavolta nulla di tutto ciò.
Ridevano i senatori, quasi tutti, quasi sempre, per nulla preoccupati,
all'apparenza, di ciò cui stavano dando esito. Durante alcuni degli interventi
più marginali e spesso sconclusionati, nessuno ascoltava (eppure avrebbero
meritato, nella loro deprecabilità), tutti parlavano con tutti, la presidente
compulsava il telefonino e il senso delle istituzioni si scioglieva ancor prima
delle Camere, senza che il caldo ne avesse colpa. Alla fine "il migliore"
così migliore non è stato (altrimenti mai sarebbe finito rosolato da un Romeo o
da un Licheri), la politica "sangue e merda" se lo è mangiato e la
palla passa agli Italiani, che quelli lì li hanno comunque eletti. A ognuno le
proprie responsabilità. Di seguito, «L’arroganza
del “Re sole”: ora diventa un visconte dimezzato» di
Domenico Gallo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 21 di luglio ultimo: Après
moi le deluge! è il famoso aforisma attribuito a Luigi XV che esprimeva tutta
l'arroganza del sovrano. Con lo stesso motto si potrebbe qualificare il
discorso di Draghi al Senato. Un discorso da divinità offesa (per lo
scollamento di una componente della sua amplissima maggioranza), che si
presenta alle Camere solo per dare un'altra chance ai parlamentari di mostrarsi
uniti alla sua leadership. Così non è il presidente del Consiglio che deve
avere la fiducia del Parlamento, ma sono i parlamentari che devono avere la fiducia
di Draghi: "All’Italia non serve una fiducia di facciata che svanisce
davanti ai provvedimenti scomodi... I partiti e voi parlamentari siete pronti a
ricostruire questo patto? Siete pronti? Lo dovete dire non a me, ma a tutti gli
italiani". È il Parlamento che deve spiegare al popolo la ferita inferta
alla leadership di Draghi, attenuando la fiducia su alcuni provvedimenti, e
fare ammenda del grave errore rinsaldando la sua unità intorno al sovrano e
l'obbedienza ai dettami della sua politica. A questa impostazione si possono
fare due obiezioni insuperabili. I) Non si può mettere il bavaglio alla
politica, soprattutto quando le maggioranze sono composite, pretendendo
l'obbedienza in ogni campo. 2) Non esiste una sola politica, indiscutibile
perché dettata dalla tecnica. Le competenze in politica sono importanti, ma non
esiste una risposta tecnica a tutte le domande politiche. Gli alfieri del
liberismo economico come Draghi commettono lo stesso errore commesso agli
albori del secolo scorso dai sostenitori del "socialismo
scientifico". Pretendere che scelte politiche come la privatizzazione dei
servizi pubblici o la disgregazione di professioni come quella dei taxisti a
vantaggio di multinazionali straniere, siano indiscutibili perché dettate dalla
"scienza" economica, è un elemento di autoritarismo che mal si
concilia con la dialettica democratica. Ma ci sono elementi ancora più
inquietanti nel discorso di Draghi che attengono alla legittimazione
internazionale di questo governo: "Questo governo si identifica pienamente
nell'Ue, nel legame transatlantico. La nostra posizione è chiara e forte nel
cuore dell'Ue, del G7, della Nato". A parte il fatto che non è possibile
servire due padroni: chi si identifica nell'Unione Europea dovrebbe accorgersi
che c'è una distanza incolmabile fra gli interessi dell'Europa (il primo è che
cessi la guerra ai suoi confini) e quelli degli Usa (che dal prosieguo della
guerra traggono grandi vantaggi). Chi pretende di identificarsi nell'Ue e nel
legame transatlantico sposa la subalternità dell'Europa agli Usa e tradisce gli
interessi europei. Draghi non è un europeista, ma il più autorevole terminale
della Nato nel sistema politico. Lo dimostra con i richiami al sostegno della
guerra, in Ucraina: "Armare l'Ucraina è il solo modo per permettere agli
ucraini di difendersi". Draghi ha fatto riferimento alla mobilitazione a
suo sostegno dei sindaci e di ampi settori della società civile, ma la spinta
vera al ritorno di Draghi va cercata altrove. Zelensky non gradisce che una
crisi di governo in Italia disturbi l'incessante flusso di armi all’Ucraina né,
come dice il suo consigliere Podolyak, "la tradizionale lotta politica
interna nei Paesi occidentali" (cioè la democrazia) "deve intaccare
l'unità nelle questioni fondamentali della lotta tra il bene e il male",
ovvero mettere in dubbio la suddetta "fornitura d'armi all'Ucraina".
La presenza di Draghi alla guida del governo è una garanzia irrinunziabile, non
per gli ambienti finanziari, ma perché sia assicurata la fedeltà assoluta agli
indirizzi sconsiderati della Nato che a Madrid ha effettuato una scelta
strategica di rilancio della guerra, fredda e calda (in Ucraina), difficile da
far accettare ai popoli europei. Se non ché la festa del ritorno di Draghi è
stata rovinata da5Stelle, FI e Lega, non intenzionati a inchinarsi al suo
cospetto. Entrato in campo come il Re Sole, ne sta uscendo come il Visconte
dimezzato di Italo Calvino.
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