"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 3 agosto 2022

Quellichelasinistra. 28 Michele Serra: «Ogni botte dà il suo vino».

 

Una “profetica” riflessione di Michele Serra – “La cucina di casa Draghi” – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 5 di marzo dell’anno 2021: (…). …rispondo ancora “sotto schiaffo” per la nomina dei sottosegretari, che definire deludente è poco. Temo anche io che il forte credito che Mario Draghi vantava (…) alla partenza di questa avventura, possa non bastare per portare a casa il risultato che tutti ci aspettiamo: gestione intelligente, trasparente e utile dei fondi europei, fuoruscita dalla pandemia riducendo danni e rischi al minimo possibile. (…). Il problema è che la diciassettesima legislatura, commissariata di fatto dalla nomina di Draghi, non può mutare di sostanza: è uscita dalle urne così come la vediamo, con una destra nazionalista e antieuropea molto forte (Lega e Fdi), un partito di maggioranza relativa di natura incomprensibile prima di tutto a sé stesso (Cinquestelle), una sinistra divisa e insicura. Per quanto il trasformismo e l’opportunismo abbiano piegato il quadro politico alla prima necessità di Draghi, che era costruire una larga maggioranza, ora i problemi tornano a emergere, come le macchie sotto una frettolosa mano di intonaco. Ogni botte dà il suo vino, e a Salvini non si può chiedere una fornitura di sottosegretari diversi da quelli che vediamo, cresciuti nel solco di una conduzione politica aggressiva, xenofoba, incolta. La speranza è che Draghi sappia ricondurre con fermezza tutti i commensali (…) all’uso delle posate e a una masticazione non troppo rumorosa. Ma è, ripeto, solamente una speranza, dovuta per amor di patria. Come ho già scritto, tra tanti demeriti il governo giallorosso aveva però il merito di trarre, da questa legislatura e da questo Parlamento, una maggioranza politica più o meno leggibile: centrosinistra, con la destra sovranista all’opposizione. A Draghi, invece, toccherà tenere insieme elementi politici che, messi nella stessa provetta, minacciano di esplodere da un momento all’altro. È da una settimana che mi domando come potrà Lamorgese interagire con il suo vice Molteni, Guerini con la sua vice Pucciarelli, Franceschini con la sua vice Borgonzoni. Va bene il senso di responsabilità, ma ci sono differenze così profonde che possono essere regolate solamente nelle urne. Di seguito, “Letta jr., il Nipote che il centrodestra vorrebbe avere” di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, mercoledì 3 di agosto 2022: Sarà per le conseguenze lisergiche del clima, sarà che deve aver cambiato lo spacciatore di analcolici, fatto sta che Enrico Letta, detto Enrichetto, detto Sottiletta, detto il Nipote, ha messo il turbo visionario al suo eloquio da tisana riscaldata. D’ora in avanti vuole addentare la polpa elettorale sfoderando “gli occhi della tigre” e maneggiando “i colori decisi di Van Gogh”. Basta con “i Cinque stelle traditori!”. Batteremo la Destra “metro per metro, casa per casa!”. Enormità decisioniste per uno che da un quarto di secolo pigola come il Chiurlo dentro le nebbie d’acquarello che la Scienza politica, dai tempi in cui l’Oltretevere arruolava contemporaneamente Luigi Gedda e Don Sturzo, ha dipinto sui cieli del celebre cattolicesimo universale buono per tutti gli usi, centro-destra, centro-sinistra, centro-centro, purché officiante nelle messe cantate del Potere compassionevole. Con l’aggravante che mai nessuna sana e consapevole libidine lo ha salvato dall’Azione cattolica, a cui fu iscritto in piena gioventù, quando i suoi coetanei più smaliziati già usavano il Viagra come un calmante, mentre a lui toccava sciropparsi gli inchiostri governativi all’ombra del grande Beniamino Andreatta, suo mentore, per poi svagarsi con gli eccitanti tabulati dei primi dossier di Maastricht a dire quanto fosse ostinato nella sua ascesa, pur sapendosi predestinato. Lo è in qualità di erede di alta famiglia pisana, padre matematico in molte accademie europee, ma specialmente nipote di Gianni Letta, il celebrato conte zio, capace di rivestire di gommapiuma qualunque spigolo della Repubblica, comprese le intemperanze notturne del suo secolare datore di lavoro, Silvio B., con la sua insuperata coda di scandali sessuali e fiscali. È respirando quel borotalco sparso nelle sacre stanze a stemperare il guasto odore delle profane decisioni, che il gusto del potere è trasmigrato da zio a nipote, per una singolare partenogenesi “sperimentata finora solo a Paperopoli” (Travaglio dixit). Enrico nasce nell’anno 1966. Cresce mite, miope, lungimirante. Da chierichetto militante, considera Andreotti “una icona” che compariva a ogni Capodanno per la tombola del dopocena. Migliora frequentando l’Università di Pisa, dove si laurea in Scienze politiche, con master in Diritto della Comunità Europea e quasi rinsavisce quando si lega a Mino Martinazzoli nel neonato partito popolare, che diventerà Margherita, con Francesco Rutelli, incubatore di numerosi alti destini, al netto di un tale Luigi Lusi, tesoriere, che si fregò la bellezza di 25 milioni all’insaputa di tutti i restanti petali del partito. Da giovanotto ama “Drive in” e tifa Milan. Cambia moglie. Esordisce ministro per le Politiche comunitarie con il governo D’Alema, quello della coltellata alla schiena di Prodi. A seguire lo imbarca Giuliano Amato come ministro per il Commercio con l’Estero. Nel 2001 diventa deputato, poi europarlamentare. Quando è sottosegretario del secondo governo Prodi, anno 2009, non difende a Strasburgo il diritto di Europa 7 a trasmettere via etere, preferisce fare il pesce in barile a favore di Retequattro che ha frequenze illegittime. Silvio B. lo stima. Confalonieri lo pettina. L’anno dopo esce dall’aula quando la Camera vota contro le dimissioni di Nicola Cosentino, indagato per camorra. Mentre nel giorno in cui si insedia il governo di Mario Monti, sta al primo banco per genuflettersi davanti al nuovo capo con un biglietto che è un commovente apostrofo rosa: “Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile (…) sia ufficialmente, sia riservatamente”. Nel 2012, dopo il disastro del governo Monti, dichiara al Corriere: “Preferisco che i voti vadano al Popolo della Libertà piuttosto che disperdersi verso Grillo. Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere”. È il suo modo di candidarsi a fabbricarne una direttamente a favore del Caimano che lo stima e lo pettina. Nasce il suo primo esecutivo, benedetto da Giorgio Napolitano e dal conte zio, battezzato governo delle larghe intese, anzi “alba di un nuovo umanesimo”, anno 2013, dentro al quale nuotano capolavori quattrocenteschi come Angelino Alfano, Gianfranco Miccichè e Nunzia De Girolamo, la mamma ministra. Naufragio garantito dopo dieci mesi grazie al celebre “#enricostaisereno”, il serramanico usato da Matteo Renzi, suo compagno di partito, anzi segretario, per sgonfiargli il salvagente e guardarlo annegare, ridendo. Reagisce con offesissima mitezza, dimissioni immediate dal Parlamento (“dopo 13 anni può bastare”) e le valigie pronte per Parigi. Nelle valigie, dice, infila solo tre parole: “Libri, scuola, lavoro”. Di libri, da allora, ne sforna uno l’anno. La scuola è Sciences Po, l’Istituto di studi politici, dove sale in cattedra. In quanto al lavoro durerà sette anni, quanto l’esilio, terminato nel 2021, quando rientra per governare le corsie del manicomio democratico, in qualità di segretario psichiatra, con il viatico di Le Monde in tasca: “Tranquillo come Enrico, europeo come Letta”, che sembra l’head line di un motore elettrico. Nell’anno e mezzo trascorso, diventa alleato di Conte, poi di Salvini e di Berlusconi. Ma specialmente più draghiano di Draghi nella stagione dei migliori. È la riscossa della sua scienza politica risciacquata nella Senna: tutti con chiunque, quando serve, meglio ancora se ha l’eleganza di un banchiere. Anzi, di un Arciduca, che malauguratamente “il colpo di pistola di Conte” ha fatto volare via, “aprendo un varco per le elezioni”: un dannato favore a Salvini “che non aspettava altro”. Dunque “occhi di tigre” anche contro il leader dei Cinque Stelle. E pazienza se al prossimo giro di giostra elettorale sia l’intera nazione a rischiare l’osso del collo dentro le mandibole di Salvini e quelle affamatissime di Giorgia Meloni, con la sua coda di alleati a braccia tese, da Marine Le Pen a Victor Orban, il trucido “della pura razza europea”. Sarebbe naturale una trincea comune contro il disastro. Enrico sceglie Calenda-Bonino, auguri. In compenso promette 100 mila militanti a combattere strada per strada. Magari è vero. Oppure è colpa del nuovo analcolico.

Nessun commento:

Posta un commento