Una “profetica” riflessione di
Michele Serra – “La cucina di casa
Draghi” – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 5 di marzo
dell’anno 2021: (…). …rispondo ancora “sotto schiaffo” per la nomina dei
sottosegretari, che definire deludente è poco. Temo anche io che il forte
credito che Mario Draghi vantava (…) alla partenza di questa avventura, possa
non bastare per portare a casa il risultato che tutti ci aspettiamo: gestione
intelligente, trasparente e utile dei fondi europei, fuoruscita dalla pandemia
riducendo danni e rischi al minimo possibile. (…). Il problema è che la
diciassettesima legislatura, commissariata di fatto dalla nomina di Draghi, non
può mutare di sostanza: è uscita dalle urne così come la vediamo, con una
destra nazionalista e antieuropea molto forte (Lega e Fdi), un partito di
maggioranza relativa di natura incomprensibile prima di tutto a sé stesso
(Cinquestelle), una sinistra divisa e insicura. Per quanto il trasformismo e
l’opportunismo abbiano piegato il quadro politico alla prima necessità di
Draghi, che era costruire una larga maggioranza, ora i problemi tornano a
emergere, come le macchie sotto una frettolosa mano di intonaco. Ogni botte dà
il suo vino, e a Salvini non si può chiedere una fornitura di sottosegretari
diversi da quelli che vediamo, cresciuti nel solco di una conduzione politica
aggressiva, xenofoba, incolta. La speranza è che Draghi sappia ricondurre con
fermezza tutti i commensali (…) all’uso delle posate e a una masticazione non
troppo rumorosa. Ma è, ripeto, solamente una speranza, dovuta per amor di
patria. Come ho già scritto, tra tanti demeriti il governo giallorosso aveva
però il merito di trarre, da questa legislatura e da questo Parlamento, una
maggioranza politica più o meno leggibile: centrosinistra, con la destra
sovranista all’opposizione. A Draghi, invece, toccherà tenere insieme elementi
politici che, messi nella stessa provetta, minacciano di esplodere da un
momento all’altro. È da una settimana che mi domando come potrà Lamorgese
interagire con il suo vice Molteni, Guerini con la sua vice Pucciarelli,
Franceschini con la sua vice Borgonzoni. Va bene il senso di responsabilità, ma
ci sono differenze così profonde che possono essere regolate solamente nelle
urne. Di seguito, “Letta jr., il
Nipote che il centrodestra vorrebbe avere” di Pino Corrias pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” di oggi, mercoledì 3 di agosto 2022: Sarà per le conseguenze
lisergiche del clima, sarà che deve aver cambiato lo spacciatore di analcolici,
fatto sta che Enrico Letta, detto Enrichetto, detto Sottiletta, detto il
Nipote, ha messo il turbo visionario al suo eloquio da tisana riscaldata. D’ora
in avanti vuole addentare la polpa elettorale sfoderando “gli occhi della
tigre” e maneggiando “i colori decisi di Van Gogh”. Basta con “i Cinque stelle
traditori!”. Batteremo la Destra “metro per metro, casa per casa!”. Enormità
decisioniste per uno che da un quarto di secolo pigola come il Chiurlo dentro
le nebbie d’acquarello che la Scienza politica, dai tempi in cui l’Oltretevere
arruolava contemporaneamente Luigi Gedda e Don Sturzo, ha dipinto sui cieli del
celebre cattolicesimo universale buono per tutti gli usi, centro-destra,
centro-sinistra, centro-centro, purché officiante nelle messe cantate del
Potere compassionevole. Con l’aggravante che mai nessuna sana e consapevole
libidine lo ha salvato dall’Azione cattolica, a cui fu iscritto in piena
gioventù, quando i suoi coetanei più smaliziati già usavano il Viagra come un
calmante, mentre a lui toccava sciropparsi gli inchiostri governativi all’ombra
del grande Beniamino Andreatta, suo mentore, per poi svagarsi con gli eccitanti
tabulati dei primi dossier di Maastricht a dire quanto fosse ostinato nella sua
ascesa, pur sapendosi predestinato. Lo è in qualità di erede di alta famiglia
pisana, padre matematico in molte accademie europee, ma specialmente nipote di
Gianni Letta, il celebrato conte zio, capace di rivestire di gommapiuma
qualunque spigolo della Repubblica, comprese le intemperanze notturne del suo
secolare datore di lavoro, Silvio B., con la sua insuperata coda di scandali
sessuali e fiscali. È respirando quel borotalco sparso nelle sacre stanze a
stemperare il guasto odore delle profane decisioni, che il gusto del potere è
trasmigrato da zio a nipote, per una singolare partenogenesi “sperimentata
finora solo a Paperopoli” (Travaglio dixit). Enrico nasce nell’anno 1966.
Cresce mite, miope, lungimirante. Da chierichetto militante, considera
Andreotti “una icona” che compariva a ogni Capodanno per la tombola del
dopocena. Migliora frequentando l’Università di Pisa, dove si laurea in Scienze
politiche, con master in Diritto della Comunità Europea e quasi rinsavisce
quando si lega a Mino Martinazzoli nel neonato partito popolare, che diventerà
Margherita, con Francesco Rutelli, incubatore di numerosi alti destini, al
netto di un tale Luigi Lusi, tesoriere, che si fregò la bellezza di 25 milioni
all’insaputa di tutti i restanti petali del partito. Da giovanotto ama “Drive
in” e tifa Milan. Cambia moglie. Esordisce ministro per le Politiche
comunitarie con il governo D’Alema, quello della coltellata alla schiena di
Prodi. A seguire lo imbarca Giuliano Amato come ministro per il Commercio con
l’Estero. Nel 2001 diventa deputato, poi europarlamentare. Quando è
sottosegretario del secondo governo Prodi, anno 2009, non difende a Strasburgo
il diritto di Europa 7 a trasmettere via etere, preferisce fare il pesce in
barile a favore di Retequattro che ha frequenze illegittime. Silvio B. lo
stima. Confalonieri lo pettina. L’anno dopo esce dall’aula quando la Camera
vota contro le dimissioni di Nicola Cosentino, indagato per camorra. Mentre nel
giorno in cui si insedia il governo di Mario Monti, sta al primo banco per
genuflettersi davanti al nuovo capo con un biglietto che è un commovente
apostrofo rosa: “Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile
(…) sia ufficialmente, sia riservatamente”. Nel 2012, dopo il disastro del
governo Monti, dichiara al Corriere: “Preferisco che i voti vadano al Popolo
della Libertà piuttosto che disperdersi verso Grillo. Non vorrei che si
tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il
Cavaliere”. È il suo modo di candidarsi a fabbricarne una direttamente a favore
del Caimano che lo stima e lo pettina. Nasce il suo primo esecutivo, benedetto
da Giorgio Napolitano e dal conte zio, battezzato governo delle larghe intese,
anzi “alba di un nuovo umanesimo”, anno 2013, dentro al quale nuotano
capolavori quattrocenteschi come Angelino Alfano, Gianfranco Miccichè e Nunzia
De Girolamo, la mamma ministra. Naufragio garantito dopo dieci mesi grazie al celebre
“#enricostaisereno”, il serramanico usato da Matteo Renzi, suo compagno di
partito, anzi segretario, per sgonfiargli il salvagente e guardarlo annegare,
ridendo. Reagisce con offesissima mitezza, dimissioni immediate dal Parlamento
(“dopo 13 anni può bastare”) e le valigie pronte per Parigi. Nelle valigie,
dice, infila solo tre parole: “Libri, scuola, lavoro”. Di libri, da allora, ne
sforna uno l’anno. La scuola è Sciences Po, l’Istituto di studi politici, dove
sale in cattedra. In quanto al lavoro durerà sette anni, quanto l’esilio,
terminato nel 2021, quando rientra per governare le corsie del manicomio
democratico, in qualità di segretario psichiatra, con il viatico di Le Monde in
tasca: “Tranquillo come Enrico, europeo come Letta”, che sembra l’head line di
un motore elettrico. Nell’anno e mezzo trascorso, diventa alleato di Conte, poi
di Salvini e di Berlusconi. Ma specialmente più draghiano di Draghi nella
stagione dei migliori. È la riscossa della sua scienza politica risciacquata
nella Senna: tutti con chiunque, quando serve, meglio ancora se ha l’eleganza
di un banchiere. Anzi, di un Arciduca, che malauguratamente “il colpo di
pistola di Conte” ha fatto volare via, “aprendo un varco per le elezioni”: un
dannato favore a Salvini “che non aspettava altro”. Dunque “occhi di tigre”
anche contro il leader dei Cinque Stelle. E pazienza se al prossimo giro di
giostra elettorale sia l’intera nazione a rischiare l’osso del collo dentro le
mandibole di Salvini e quelle affamatissime di Giorgia Meloni, con la sua coda
di alleati a braccia tese, da Marine Le Pen a Victor Orban, il trucido “della
pura razza europea”. Sarebbe naturale una trincea comune contro il disastro.
Enrico sceglie Calenda-Bonino, auguri. In compenso promette 100 mila militanti
a combattere strada per strada. Magari è vero. Oppure è colpa del nuovo
analcolico.
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