A lato. Duomo di Cosenza: "Tomba di Isabella d'Aragona" (1275).
“Storie di Calabria” 1. “La luce
francese che illumina il Duomo di Cosenza” di Tomaso Montanari, pubblicato
sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di luglio 2022: Compie
800 anni, il Duomo di Cosenza. Conficcata in un centro antico struggente quanto
tradito, la cattedrale è come un'arca di Noè, carica di oggetti mirabili (su
tutti la Stauroteca donatale da Federico II), o come un'arca dell'Alleanza.
Dell'alleanza tra tempi e luoghi lontani: monumento meticcio e porta magica tra
identità diverse. Quel che a Cesare Brandi pareva una compromissione
inaccettabile («gotico su impianto romanico, ma purtroppo a causa di
rifacimenti e restauri, e restauri di restauri, è ridotto a parere tutto
falso») sembra a noi una geografia di cicatrici che ce lo fa più caro, più
simile a noi tutti: gli umani. E non è forse questa connessione sentimentale,
in fondo, a tenere i monumenti in vita? E poi lo stesso Brandi concedeva: «Nel
Duomo di Cosenza c'è un monumento, più che singolare, assolutamente unico in
Italia: quello a Isabella d'Aragona, moglie di re Filippo l'Ardito, che
tornando dall'Oriente morì a Cosenza. Era il 1271 e alla sovrana, probabilmente
a cura degli Angioini di Napoli, fu fatto erigere il monumento sepolcrale: e
regina di Francia Isabella, francesi gli Angioini, non meraviglia che lo
scultore fosse francese». Ecco la folgorazione: un caso crudele volle che
quella giovane sovrana incinta, nata in Spagna e regina di Francia, morisse
cadendo da cavallo proprio lì, a Cosenza. E lì fosse sepolta, finché il marito
non riuscì a riportarne il corpo tra le arche reali francesi. Ma la tomba no,
quella è restata: francese non solo nella funzione, ma nella fattura e dunque
nello stile. Contaminazione felice e feconda di un tempo più capace del nostro
di abbattere frontiere e mescolare storie. Un'opera meravigliosa, continuava
Brandi: «Questa scultura unica merita un viaggio a Cosenza: perché l'aerea
trasparenza di questa pietra, più modellata che scolpita, si indurisce per la
fotografia, non sopporta le ombre secche: esige questo crepuscolo, la luce
filtrata da quella ipotetica grisaglia che sta dietro le figure e che diffonde
sulle figure l'impalpabile grigio, lunare e velato, che è solo francese».
Andare a Cosenza per conoscere Isabella, sì: per vedere questo pezzo di ile de
France trapiantato all'estremo sud della Penisola. Vedere con i nostri occhi:
andando con i nostri corpi vivi incontro a quei corpi di pietra. Chi usa
l'arte, la cultura, l'identità come altrettante clave contro gli incroci, i
mescolamenti, le ibridazioni tra popoli e storie: ebbene, non sa cosa siano.
Quanta luce si perde dividendo, classificando e separando ciò che è intrecciato
così strettamente da non esistere da solo. Come ci insegna questa luce francese
che illumina Cosenza da più di sette secoli.
“
Storie di
Calabria” 2.
«I Bronzi
“fratricidi” erano romani?» di Sergio Rinaldi Tufi
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di agosto ultimo: La
grande stampa non ha colto l'occasione del cinquantenario della scoperta
(agosto 1972) per fare il punto sulle ultime importanti ipotesi nelle ricerche
sui Bronzi di Riace. Neppure quelle che li collegano alla vicenda (fra storia e
mito) dei "Sette contro Tebe", narrata anche in una celebre tragedia
di Eschilo, e addirittura ipotizzano una loro presenza a Roma. Parliamone noi (…)
partendo doverosamente però da un'intervista al personaggio da cui tutto è
partito, Stefano Mariottini, il "sub" che le individuò e che diede
subito la notizia alle autorità competenti. Solo un appassionato di immersioni
fortunato e onesto? No: chimico e dirigente di aziende, fra cui Selenia, ha
collaborato da allora come volontario a infinite ricerche delle Soprintendenze
e dei nuclei specializzati dei carabinieri. (…). All'inizio le due statue
venivano viste quasi come "gemelle", accomunate dalla perfezione
delle forme e dalle grandi dimensioni (2,05 metri per la statua battezzata
provvisoriamente "K, 1,98 per "B"). E sono analoghe anche le
impostazioni delle due figure, che somigliano a quelle del "Canone"
delineato intorno al 450 a.C. da Policleto, grande scultore di Argo in
Peloponneso: peso del corpo scaricato in maggior misura sulla gamba destra mentre
la sinistra è di appoggio ("ponderatio"). Negli anni si è parlato, a
seconda dei momenti e dell'esito delle più disparate analisi, di distanza
cronologica fra le due sculture, oppure di contemporaneità. Fra i più recenti
protagonisti delle ricerche ricordiamo Paolo Moreno (Università di Roma III,
grande esperto di scultura del V e IV secolo a. C., scomparso nel 2021) e
Daniele Castrizio (Università di Messina (…). Su alcuni punti c'è accordo.
Anzitutto, le statue sono proprio contemporanee, e si datano intorno al 450 a.
C., non solo perché è questo il periodo in cui Policleto elabora il
"Canone", ma anche perché lo rivela l'esame al C 14 (l'isotopo
radioattivo del carbonio che consente di datare i resti vegetali e animali) dei
residui organici trovati fra le terre di fusione rimaste all'intero delle
sculture. Altre analisi hanno attribuito le terre stesse alla zona di Argo
(proprio la città di Policleto). Vista la qualità delle sculture, il monumento
di cui in origine facevano parte doveva essere importantissimo, e ricordare un
evento in cui la presenza di Argivi era stata determinante. Pausania, autore
nel II secolo d. C. di una Periegesi (guida) della Grecia, dice che nella
stessa Argo esisteva un monumento dedicato all'impresa (fra storia e mito) dei
Sette contro Tebe. I tebani Eteocle e Polinice non avevano trovato un accordo
sulla successione al padre Edipo, e avevano deciso di regnare un anno per uno.
Quando Eteocle, alla fine del suo primo turno, non rispetta l'accordo, Polinice
va ad Argo a chiede aiuto al re Adrasto e al valoroso e feroce Tideo, che
coinvolgono altri cinque eroi, fra cui il mite e poco convinto Anfiarao. Si
parte per Tebe, dove però Eteocle e Polinice si uccidono fra loro, e gli altri
muoiono tutti, tranne Anfiarao. Poiché l'evento, visto il pessimo esito, non
sembra tale da essere celebrato, e poiché d'altra parte la sconfitta venne
vendicata dieci anni dopo dagli Epigoni (i "discendenti"), si è pensato
che il monumento rievocasse entrambe le fasi, e che i Bronzi rinvenuti a Riace
facessero parte di un nutrito gruppo, piuttosto complesso. Chi erano? Le due teste sono rese entrambe
con eccezionale maestria: i riccioli delle barbe e dei capelli sono lavorati e
inseriti a uno a uno, gli occhi sono in avorio e pasta vitrea (il canale
lacrimale, in "A”, è addirittura indicato da minuscole pietrine rosa), le
labbra (come del resto i capezzoli) assumono una colorazione rossa grazie
all'uso del rame. Ma, al di là di questa perfezione tecnica, le espressioni
sono ben diverse: "A" mostra uno sguardo fierissimo e digrigna i
denti (eseguiti peraltro in argento), "B" appare meno aggressivo. Per
Moreno raffiguravano rispettivamente Tideo con la sua sovrumana ferocia e Anfiarao,
il timoroso che però si salva. In una serie di ricerche svolte nell'ultimo
quindicennio, Daniele Castrizio ha rivoluzionato il panorama. I Bronzi
riconducono, sì, alla vicenda dei Sette contro Tebe, ma non raffigurano Tideo e
Anfiarao, bensì i fratelli nemici Eteocle e Polinice. Un autore cristiano del
II secolo d.C., Taziano il Siro, rimprovera i pagani di non disapprovare il
fratricidio: "Vedendo le figure di Polinice e di Eteocle, non seppellite
insieme al loro autore Pitagora... ". Esisteva dunque un gruppo dei Fratricidi,
opera di Pitagora di Reggio, nato a Samo ma trasferitosi poco dopo il 500 a. C.
in Magna Grecia. Attivo qui e nel Peloponneso, era secondo Plinio il Vecchio il
quarto bronzista del mondo ellenico dopo Fidia, Policleto e Mirone. Già nel I
secolo d. C. un poeta epico, Papinio Stazio, nella sua Tebaide, aveva parlato
di Polinice che "guardava in modo ostile il fratello", e anche della
madre Giocasta, "nuda nel petto coperto di graffi", che manifestava
la sua disperazione per il disastro incombente. Sembra quasi che Stazio avesse
sott'occhio il gruppo di cui parla Taziano, integrato dalla figura femminile
disperata. I due autori operano a Roma. Possibile? Per la verità esistono
testimonianze di una certa popolarità, nell'Urbe, del tema dei Fratricidi. In
un sarcofago rinvenuto a Villa Pamphilj, nell'ambito di un lungo rilievo spicca
un gruppo di cinque figure: alle estremità i due guerrieri, al centro la madre
disperata, dietro di lei una fanciulla e un vecchio: la figlia Antigone e
l'indovino Tiresia che, nella tormentata vicenda, secondo altre fonti tentarono
una mediazione. Le figure sembrano sei, ma è la prima a sinistra che, molto
peculiarmente, si "sdoppia" in due momenti, dalla stasi all'attacco. I
Bronzi a Roma, dunque, alle due estremità di una composizione che "faceva
scuola". Mentre si era finora pensato che le due statue, al momento della
caduta in mare, stessero viaggiando verso l'Urbe, risulterebbe ora che invece
vi erano già state. L'ultimo viaggio era perciò diretto altrove: forse, in età
tardoantica, da Roma verso Costantinopoli, la nuova capitale.
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