A lato. "Ponte francese" (2020), acquerello di Anna Fiore.
È da tempo (quasi) immemorabile che non si fa “capolino”, per una sbirciatina insomma, per vedere come se la passa – o se la “spassa”, Covid permettendo -, quel che fu nomato essere il “bel paese”. Colpa certamente della “guerra/nonguerra” che dal 24 di febbraio ha come calamitato la pubblica attenzione e le emozioni da essa – dalla “guerra/nonguerra” - derivanti.
Ma oso azzardare, però, per dire che, “guerra/nonguerra” a parte,
quella sbirciatina mancata è derivata dalla certezza della immutabilità dello
scenario e del clima – sociale, politico e quant’altro ancora – che regna
sovrana – l’immutabilità – sia nelle ombrose colline sia nei ridenti litorali del
bel paese. Una certezza che ha spinto i non pochi a tralasciare i ponderosi –
ma ponderati mai – commenti ed articolesse della libera stampa sulla “vegetativa”
vita politica del bel paese, stante la convinzione diffusa, tra i più, della sua
– di quella vita politica asfittica - inutilità ai fini della sopravvivenza personale
e sociale. Ed ecco apparire, sull’ultimo numero del settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 3 giugno, a firma di Michele Serra, “La prevalenza del burino” a conforto di quelle certezze di cui
sopra si è detto: (…), se Fruttero&Lucentini fossero ancora tra noi non scriverebbero
più La prevalenza del cretino, ma La prevalenza del burino. Mi rendo conto che
questo incipit rischia di qualificarmi per quello che temo di essere: un
anziano borghese di sinistra con inestirpabili radici novecentesche. Ma sarebbe
assai peggio se io simulassi di non esserlo. Sì, la forma è sostanza, a tavola
ci si confronta con i commensali e non con il web per l’evidente ragione che il
rispetto comincia dai presenti, a scuola non si va con le infradito, dire troppo
spesso “io” è una forma di maleducazione, le libertà individuali sono
importantissime purché non prevarichino sugli altri. Sono ateo ma mi irrita
vedere nelle chiese le turiste con le chiappe di fuori. Mi deprimono, a Venezia
e Firenze, i bivacchi di mangiatori e bevitori di marciapiede, sbracati,
stravaccati e in evidente opposizione ai luoghi. Nel suo magnifico libretto
Servabo, Luigi Pintor, comunista, scrisse che l’unico ceffone ricevuto da suo
padre fu quando pronunciò la parola “soldi” durante un pranzo di famiglia. Poi
vennero Gianluca Vacchi e Flavio Briatore, e si capì che il mondo era molto
cambiato. Può anche essere che la pretesa (o la nostalgia) di una forma sia
appannaggio di chi ebbe la fortuna di conoscerla, e praticarla. Il decoro
borghese così come la forma severa dell’ideologia convergevano nello
sconsigliare ogni tipo di esibizionismo. Non possiamo imputare a chi è
cresciuto in una società slabbrata, ipersensibile alla suscettibilità
individuale ma del tutto ignara di una cultura collettiva, l’evidente
incapacità di rinunciare a qualcosa in cambio del rispetto dei luoghi e delle
persone. Non rimpiango i liceali in giacca e cravatta – non uso la cravatta
nemmeno adesso. Ma ci è toccato, per la legge del contrappasso, arrivare ai
liceali in ciabatte e canottiera. Future generazioni, forse, avranno la fortuna
di trovare un equilibrio tra formalismo e gentilezza (non sono la stessa cosa).
A noi non è concesso. E sempre su quel provvidenziale, generoso numero
di quel settimanale, a conforto delle convinzioni di “quei più” e di quel
mancato “capolino” - stante l’immarcescibilità della politica nel bel paese – ecco
giungere, dopo la “nota sociologica” di Michele Serra, una “nota politica” a
firma di Diego Bianchi che ha per titolo “Forza
Tajani!”, che è un tutto dire: «Non
dobbiamo prendere lezioni da nessuno, noi siamo continuamente europeisti e
atlantisti», scandisce Tajani davanti alla folla di onorevoli, quadri e
militanti di Forza Italia riuniti a Napoli per il lancio di quella che sarà una
lunga campagna elettorale fatta di amministrative, referendum e politiche. Dopo
le ambigue ultime uscite di Berlusconi in fatto di relazioni diplomatiche a
margine del conflitto in corso, Tajani sente di dover dire qualcosa, dicendo di
non dover dire niente. Fin qui, nulla di bizzarro, ma poi arriva l'intemerata
il crescendo, il flusso di coscienza strappa applausi, la standing ovation.
«Non c'è mai stata un'abiura del comunismo da parte di tutti i partiti della
sinistra! Facciano l'abiura per quello che hanno detto quando i carri armati
russi invadevano l'Ungheria! Quando invadevano la Cecoslovacchia!» urla
agitando le braccia Tajani, che è stato ex presidente del Parlamento europeo ma
sbiella come l'ultimo dei fomentati su Facebook. Seduto all'esterno dell'angusta
sala scelta alla Fiera d'Oltremare, aspetto l'arrivo del Principale, ascoltando
i suoi subordinati dagli altoparlanti. Credo di aver avuto in quel momento,
un'espressione ebete e incredula, tra il divertito e lo sconcertato. Mentre
Tajani carica le masse, penso a Letta, Zingaretti, Renzi o Bersani, tanto per
stare agli ultimi segretari del Pd e al loro non aver fatto abiura per i carri
armati in Ungheria. Mentre ragiono sull'assurdità di ascoltare parole così
prive di senso e di distinguo, arriva la frase definitiva. «La vita di Silvio
Berlusconi è la vita di ciascuno di noi!», dice Tajani puntando l'indice verso
gli accaldati militanti. Che in quel momento devono aver pensato «sì, magari».
Ed è lì, più o meno, che il corteo di macchine arriva, con Berlusconi e
onorevole quasi consorte che scendono, lei perfetta in tutto, lui accaldato e
affaticato, ma tenace come sempre. Durante il lungo discorso racconterà
aneddoti triti e ritriti, ma rodati evergreen per un pubblico che come sente la
parola "comunismo" si eccita e si ritrova. Berlusconi arranca, salta
passaggi del discorso preparato per eccesso di improvvisazione, beve in
continuazione, preoccupa tutti, ma sostenuto da grandi classici si riprende e
taglia il traguardo. «Chi ci crede combatte, chi ci crede supera ogni ostacolo,
chi ci crede vince». Ron Mass batte le mani, l'inno di Forza Italia parte e
riparte, Tajani è indeciso tra il ruolo di valletto e quello di vocalist. A me,
tanto sono tornato giovane, quasi ricrescono i capelli.
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