"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 22 giugno 2022

Dell’essere. 45 «Quando la guerra finisce sul campo, non finisce per i sopravvissuti e tanto meno per quelli che l’hanno combattuta».

Ha scritto magistralmente – come sempre - Umberto Galimberti in “La guerra è il male assoluto oltre ogni immaginazione” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno 2022: (…). …chi la vive da telespettatore non può davvero capirne lo spavento e l’orrore. Gino Strada diceva che "la guerra è il male assoluto". (…). "Assoluto" significa "sciolto da" (solutus ab) ogni legame razionale, mentale, psicologico, sentimentale. Quindi è inutile cercare spiegazioni che ci consentano di capire le atrocità (…). Sospendendo il pensiero e il sentimento, celebrando il coraggio e l'eroismo, nascondendo il terrore, che i combattenti non possono confessare per non apparire vili, si mandano in guerra giovani, spesso inconsapevoli, e non di rado i più diseredati, trasformando le stragi che devono compiere in atti di eroismo, coraggio, lealtà e spirito di abnegazione. E tutto questo in nome del patriottismo che è una forma appena velata di autocelebrazione che esalta i propri ideali e svilisce quelli del nemico. Una nozione, quella di "nemico", che comprende ovviamente anche i civili, che magari non hanno grande simpatia per i tiranni che li opprimono o per i signori della guerra. La guerra è necrofila, non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. E quando la violenza della guerra, al pari di una droga, raggiunge certi livelli di intossicazione, la necrofilia getta in quello stato psichico in cui tutte le vite, compresa la propria, sembra non abbiano più alcun valore. La guerra scatena una lussuria cruda e intensa che ha la stessa voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Come scrive Chris Hedges, corrispondente di guerra per The New York Times, in Il fascino oscuro della guerra (Laterza): "Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, spesso si ha la sensazione che rimangano solo la morte o un fugace piacere carnale". Noi, che sui nostri teleschermi guardiamo a distanza le morti, le distruzioni e i crimini di guerra, non sperimentiamo il terrore e il caos del campo di battaglia, il rumore assordante e spaventoso delle bombe, la sete e la fame dove non c'è più né acqua né cibo, "non sentiamo" come scrive Hedges "l'odore della carne putrefatta, non ascoltiamo i lamenti dell'agonia e non vediamo davanti a noi il sangue e le viscere che erompono dai corpi" ma, abituati come siamo all'industria dello spettacolo, quando il racconto si ripete per giorni, settimane e magari anche per mesi, finiamo per cadere nell'indifferenza, se non addirittura nel fastidio. Quando la guerra finisce sul campo, non finisce per i sopravvissuti e tanto meno per quelli che l’hanno combattuta. L’accumulo di distruttività vista e inflitta diventa autodistruttività che conduce al suicidio, altri a interminabili cure psichiatriche, altri ancora a permanenti disadattamenti sociali. Per chi ha combattuto la guerra o per chi ha dovuto migrare e abbandonare la sua terra per salvare la propria vita, la guerra non finisce mai, perché, come ci ricorda Platone nel Menesseno (236 d): "Solo i morti hanno visto la fine della guerra". E perciò, come scrive il poeta e tenente dell'esercito britannico Wilfred Owen, morto alla fine della Prima guerra mondiale: "Non ripeteresti, amico mio, con tanto compiaciuto fervore/a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate/la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori". Ha scritto Boris Chersonskij – poeta ucraino, psichiatra e docente di “Psicologia clinica” in Odessa - in “Difendo la mia lingua” pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno ultimo: Provai per la prima volta una sorta di "disagio linguistico" nel comunicare in russo nel 2014, quando, seduto in un caffè di Salisburgo, ebbi modo di ascoltare una famiglia dalla Federazione Russa (ignoro da quale città provenisse) che esprimeva la propria esultanza rumorosa e maleducata per l'annessione della Crimea da parte della Russia e per il fatto che i Chochlì (dispregiativo per ucraini) «le avessero prese di brutto». Con voce squillante, l'uomo si rivolgeva a uno sconosciuto, era un militare ucraino: «In quale calderone hai prestato servizio?» (nel gergo militare calderone è una sacca d'accerchiamento). La battuta fu accolta da una grassa risata. Pensai: in quale calderone ti ritroverai a bollire tu, quando verrà l'ora del Giudizio? Non fu un bel pensiero. E pensai anche: Dio non voglia che a me e a Ljusja ci senta parlare in russo e ci riconosca come "dei nostri". Così passammo all'inglese. Condivisi i miei sentimenti durante una discussione pubblica che in quello stesso tragico 2014 si tenne a Leopoli, al Forum degli editori. Si parlava in ucraino. Andriy Lyubka, un giovane scrittore e poeta ucraino, ascoltò il mio racconto e per la prima volta suggerì l'idea di una "lingua russa ucraina", che fosse diversa dal "dialetto moscovita". Era un'ottima idea e in seguito fu espressa a più riprese. La parte migliore di questa idea è che la Russia non possa detenere il monopolio della lingua russa, come la Gran Bretagna non detiene quello dell'inglese. A tal proposito, anche il poeta ucraino di lingua russa Aleksandr Kabànov ha parlato e scritto molto su questo argomento. In seguito, mi sono tuttavia convinto che per la maggior parte degli scrittori di lingua russa sparsi per il mondo, Mosca rappresenta ancora una metropoli desiderabile. A prescindere da tutto. Per cui mi sono ritrovato in minoranza. In alcune regioni, la lingua russa necessita probabilmente di essere supportata. Ma io vivo a Odessa, dove è la lingua ucraina ad avere bisogno di sostegno, essendo la lingua ufficiale del mio Paese. Ora questo problema viene dichiarato dagli aggressori come il motivo principale per scatenare una sanguinosa guerra di aggressione. E l'aggressione ha trasformato un artificioso problema in un problema reale. Purtroppo, il palese disprezzo per la lingua e la cultura ucraina è un tratto caratteristico di molti. Non ripeterò le solite frasi fatte che, ahimè, in Russia sono note a tutti. Per me queste espressioni sono sempre state di cattivo gusto. Ripeto, l'inizio della guerra (forse la più strana e terribile che abbia mai conosciuto) ha messo fine ai miei ultimi dubbi. Sì, la guerra è iniziata con lo slogan di proteggere la lingua russa e persino di «proteggere la popolazione russofona dal genocidio». Ero uno scrittore e un poeta, le cui migliori poesie erano scritte in russo. Per queste poesie ho ricevuto premi internazionali molto prestigiosi. Non è così che dovrebbe essere - mi diceva la mia coscienza. E continua a dirmelo, con forza, con insistenza.

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