Ha scritto magistralmente – come sempre - Umberto
Galimberti in “La guerra è il male
assoluto oltre ogni immaginazione” pubblicato sul settimanale “d” del
quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno 2022: (…). …chi la vive da telespettatore
non può davvero capirne lo spavento e l’orrore. Gino Strada diceva che "la
guerra è il male assoluto". (…). "Assoluto" significa
"sciolto da" (solutus ab) ogni legame razionale, mentale,
psicologico, sentimentale. Quindi è inutile cercare spiegazioni che ci
consentano di capire le atrocità (…). Sospendendo il pensiero e il sentimento,
celebrando il coraggio e l'eroismo, nascondendo il terrore, che i combattenti
non possono confessare per non apparire vili, si mandano in guerra giovani,
spesso inconsapevoli, e non di rado i più diseredati, trasformando le stragi
che devono compiere in atti di eroismo, coraggio, lealtà e spirito di
abnegazione. E tutto questo in nome del patriottismo che è una forma appena
velata di autocelebrazione che esalta i propri ideali e svilisce quelli del
nemico. Una nozione, quella di "nemico", che comprende ovviamente
anche i civili, che magari non hanno grande simpatia per i tiranni che li
opprimono o per i signori della guerra. La guerra è necrofila, non solo perché
ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la
propria morte. E quando la violenza della guerra, al pari di una droga,
raggiunge certi livelli di intossicazione, la necrofilia getta in quello stato
psichico in cui tutte le vite, compresa la propria, sembra non abbiano più
alcun valore. La guerra scatena una lussuria cruda e intensa che ha la stessa
voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Come scrive Chris Hedges,
corrispondente di guerra per The New York Times, in Il fascino oscuro della
guerra (Laterza): "Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri
di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, spesso si ha la
sensazione che rimangano solo la morte o un fugace piacere carnale". Noi,
che sui nostri teleschermi guardiamo a distanza le morti, le distruzioni e i
crimini di guerra, non sperimentiamo il terrore e il caos del campo di
battaglia, il rumore assordante e spaventoso delle bombe, la sete e la fame
dove non c'è più né acqua né cibo, "non sentiamo" come scrive Hedges
"l'odore della carne putrefatta, non ascoltiamo i lamenti dell'agonia e
non vediamo davanti a noi il sangue e le viscere che erompono dai corpi"
ma, abituati come siamo all'industria dello spettacolo, quando il racconto si
ripete per giorni, settimane e magari anche per mesi, finiamo per cadere
nell'indifferenza, se non addirittura nel fastidio. Quando
la guerra finisce sul campo, non finisce per i sopravvissuti e tanto meno per
quelli che l’hanno combattuta. L’accumulo di distruttività vista e inflitta
diventa autodistruttività che conduce al suicidio, altri a interminabili cure
psichiatriche, altri ancora a permanenti disadattamenti sociali. Per chi ha
combattuto la guerra o per chi ha dovuto migrare e abbandonare la sua terra per
salvare la propria vita, la guerra non finisce mai, perché, come ci ricorda
Platone nel Menesseno (236 d): "Solo i morti hanno visto la fine della
guerra". E perciò, come scrive il poeta e tenente dell'esercito britannico
Wilfred Owen, morto alla fine della Prima guerra mondiale: "Non
ripeteresti, amico mio, con tanto compiaciuto fervore/a fanciulli ansiosi di
farsi raccontare gesta disperate/la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro
patria mori". Ha scritto Boris Chersonskij – poeta ucraino, psichiatra
e docente di “Psicologia clinica” in Odessa - in “Difendo la mia lingua” pubblicato sul settimanale “Robinson” del
quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno ultimo: Provai per la prima volta una
sorta di "disagio linguistico" nel comunicare in russo nel 2014,
quando, seduto in un caffè di Salisburgo, ebbi modo di ascoltare una famiglia
dalla Federazione Russa (ignoro da quale città provenisse) che esprimeva la
propria esultanza rumorosa e maleducata per l'annessione della Crimea da parte
della Russia e per il fatto che i Chochlì (dispregiativo per ucraini) «le
avessero prese di brutto». Con voce squillante, l'uomo si rivolgeva a uno
sconosciuto, era un militare ucraino: «In quale calderone hai prestato
servizio?» (nel gergo militare calderone è una sacca d'accerchiamento). La
battuta fu accolta da una grassa risata. Pensai: in quale calderone ti ritroverai
a bollire tu, quando verrà l'ora del Giudizio? Non fu un bel pensiero. E pensai
anche: Dio non voglia che a me e a Ljusja ci senta parlare in russo e ci
riconosca come "dei nostri". Così passammo all'inglese. Condivisi i
miei sentimenti durante una discussione pubblica che in quello stesso tragico
2014 si tenne a Leopoli, al Forum degli editori. Si parlava in ucraino. Andriy
Lyubka, un giovane scrittore e poeta ucraino, ascoltò il mio racconto e per la
prima volta suggerì l'idea di una "lingua russa ucraina", che fosse
diversa dal "dialetto moscovita". Era un'ottima idea e in seguito fu
espressa a più riprese. La parte migliore di questa idea è che la Russia non
possa detenere il monopolio della lingua russa, come la Gran Bretagna non
detiene quello dell'inglese. A tal proposito, anche il poeta ucraino di lingua
russa Aleksandr Kabànov ha parlato e scritto molto su questo argomento. In
seguito, mi sono tuttavia convinto che per la maggior parte degli scrittori di
lingua russa sparsi per il mondo, Mosca rappresenta ancora una metropoli
desiderabile. A prescindere da tutto. Per cui mi sono ritrovato in minoranza. In
alcune regioni, la lingua russa necessita probabilmente di essere supportata.
Ma io vivo a Odessa, dove è la lingua ucraina ad avere bisogno di sostegno,
essendo la lingua ufficiale del mio Paese. Ora questo problema viene dichiarato
dagli aggressori come il motivo principale per scatenare una sanguinosa guerra
di aggressione. E l'aggressione ha trasformato un artificioso problema in un
problema reale. Purtroppo, il palese disprezzo per la lingua e la cultura
ucraina è un tratto caratteristico di molti. Non ripeterò le solite frasi fatte
che, ahimè, in Russia sono note a tutti. Per me queste espressioni sono sempre
state di cattivo gusto. Ripeto, l'inizio della guerra (forse la più strana e
terribile che abbia mai conosciuto) ha messo fine ai miei ultimi dubbi. Sì, la
guerra è iniziata con lo slogan di proteggere la lingua russa e persino di
«proteggere la popolazione russofona dal genocidio». Ero uno scrittore e un
poeta, le cui migliori poesie erano scritte in russo. Per queste poesie ho
ricevuto premi internazionali molto prestigiosi. Non è così che dovrebbe essere
- mi diceva la mia coscienza. E continua a dirmelo, con forza, con insistenza.
Nessun commento:
Posta un commento