Ha scritto Sergej Gandlevskij – scrittore russo,
che ha abbandonato Mosca a seguito dei tragici fatti del 24 di febbraio – in “Putin ha tradito un popolo”, pubblicato
sull’ultimo numero del settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica”
del 18 di giugno: Nel 2006 presi parte, insieme a un gruppo di letterati, a un pomposo
ricevimento nell'enorme villa di Badri Patarkatsishvili, un uomo d'affari
caduto in disgrazia; mi pare che fosse ad Avlabari, un quartiere storico di
Tbilisi. Nel pieno della festa uno degli ospiti, un po' alticcio, chiese al
padrone di casa come era possibile che, un milionario e magnate dei media come
lui, fosse di fatto rinchiuso nella sua piccola Georgia, in patria, e gli fosse
precluso varcare il con-fine, pena l'arresto, poiché le autorità russe avevano
emesso nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale. Badri rispose
con studiato candore: «Giuro, non saprei. Avevamo convocato Volodja (Vladimir
Putin) e gli avevamo dato istruzioni, lui ci aveva ascoltati. Gli avevamo chiesto
se avesse capito tutto e aveva annuito. E allora avevamo detto: bene, vai, ed
era andato...». Dopo oltre venti anni da quelle istruzioni, le espressioni
"bombardamento di Charkiv" o "fuoco d'artiglieria di Kiev e
Odessa", che conosciamo dall'infanzia per via dei libri e dei film sulla
guerra contro la Germania nazista, sono tornate a imporsi in un contesto
completamente diverso, abominevole. Gli eventi che si susseguono dal 24
febbraio sono l'incubo degli scrittori della generazione della Guerra patriottica:
Viktor Nekrasov, Bulat Okudzhava, Viktor Astafev, Vasilij Bykov. Per loro
fortuna Dio gliel'ha risparmiato. La serie di slogan e di cliché sovietici da
manuale come "pace al mondo", "no alla guerra", "la
colomba di Picasso" o la straziante cronaca del ritorno dei soldati dal
fronte alla stazione Belorusskij sono diventati un atto sovversivo da un giorno
all'altro. Mentre sulle strade dell'Ucraina e dei paesi occidentali confinanti
si sono riversate folle di profughi con i loro vecchi, bambini, gatti, cani,
fagotti e valigie, che hanno lasciato rovine e corpi morti alle spalle ... Non
sono un veggente, né voglio ergermi a fine politologo; non appartengo neanche a
coloro che criticano a priori il capitale, ma ritengo che esista un legame
causa-effetto tra il conciliabolo soprammenzionato e la guerra attuale. Alcuni
affaristi di successo hanno deciso che si potevano fidare di un uomo mediocre,
abile a infiorare i discorsi con motti da caserma, ma hanno fatto male i conti.
Volodja si è rivelato un'acqua cheta, a poco a poco ha fatto rigare dritto gli
inetti demiurghi, si è fatto prendere la mano e ha istituzionalizzato il
proprio potere a vita. È un uomo mediocre a tutti gli effetti, che non
riconosce la sacralità dei luoghi di cultura: ha spianato "le colline
della Georgia", care a Pushkin, e ora bombarda l'Odessa di Babel' e di
Pushkin; e solo Dio sa quante generazioni di russi serviranno a riparare questo
guaio sanguinoso e quante dovranno prendere coraggio per rispondere a chi,
all'estero, gli domanda qual è il loro paese di origine. Di seguito, “Cappuccetto rosso e il lupo russo” di
Barbara Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano» del 17 di giugno ultimo: (…). Il
pezzo ucraino di guerra è specialmente vistoso, perché ha scatenato in
Occidente una corsa al riarmo e alle sanzioni che affamerà il pianeta, e perché
sono implicate le due superpotenze atomiche: Mosca che in febbraio ha
spietatamente attaccato e Washington che da anni arma e addestra gli ucraini.
Ma anche questo conflitto, se dura molto, scomparirà dagli schermi pur restando
trama dei nostri tempi. Angela Merkel parla di tragedia, nell’intervista del 6
giugno allo «Spiegel», perché lei si sforzò di evitare il peggio: fin dal 2015
si oppose all’invio di armi a Kiev, e con Parigi tentò di conciliare le
esigenze russe e ucraine tramite gli accordi di Minsk. Fu boicottata dagli Usa,
e Kiev rifiutò l’autonomia, specie linguistica, che gli accordi prescrivevano
per le province russofone del Donbass. Oggi la Merkel riconosce che l’ordine di
sicurezza europea cui ambiva è fallito, che Putin ha reagito con violenza
ingiustificata, ma non si pente: “Se la diplomazia fallisce non è detto che
diventi inutile”. Anche nelle nostre menti la terza guerra mondiale c’è e non
c’è; non siamo belligeranti ma combattiamo inviando armi in grado di colpire la
Russia; formalmente non c’è stato di eccezione ma i grandi giornali pubblicano
liste di cosiddetti “putiniani” perché contrari alla linea degli alti comandi.
Cos’altro è questo, se non stato di eccezione e maccartismo. Quanto all’alto
comando, non ne conosciamo il volto, l’ubicazione. A seconda delle convenienze
si addita Palazzo Chigi, i Servizi, il Copasir, i giornali mainstream, in un
immondo scarico di responsabilità. Tanto per fare un esempio, il «Corriere
della Sera» ripete che la pagina del 5 giugno con la lista di proscritti
stilata dai Servizi è uscita perché i giornali seri “danno le notizie”. Ma sono
state le firmatarie dell’articolo – una di esse vicedirettore – a decidere
l’impaginazione piuttosto indecente della notizia in questione e a corredarla
di foto segnaletiche che denunciano, per intimidire chiunque scriva sulla guerra,
nove “putiniani”. Non tutti i nomi escono dal Dipartimento delle Informazioni
per la Sicurezza. L’affare non è pulito: per il «Corriere» questa guerra ha da
farsi anche in casa, senza troppi riguardi. Dice il Papa che dobbiamo
abbandonare lo “schema di Cappuccetto Rosso, con Cappuccetto che è buono e il
lupo che è cattivo”. Che “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo
astratto”. Che le idee prive di esperienza sono “eresie”, perché “scollegate
dalla realtà umana”: le idee possono essere discusse, ma “quel che conta è il
discernimento che porta all’azione”. Discernere gli eventi era possibile già
nel 2014, quando in Donbass insorsero i separatisti russofoni e l’esercito di
Kiev contrattaccò assieme alle milizie neonaziste (i neonazisti ucraini dispongono
di una trentina di battaglioni, tra cui Azov e Aidar, integrati nell’esercito
regolare dopo il colpo di Stato di piazza Maidan). Il 24 febbraio Mosca è
intervenuta con innegabile brutalità e ferocia, dice Bergoglio, ma discernere
implica che lo sguardo non si appunti solo sul pericolo russo: “Il pericolo è
che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si
sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o
provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi”. Il
dramma comprende l’espansione della Nato, come confidato al Papa da un capo di
Stato poco prima dell’invasione russa: “Stanno abbaiando alle porte della
Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna
potenza straniera di avvicinarsi a loro”. Fino a quando i co-belligeranti
occidentali non riconosceranno le proprie responsabilità, e resteranno
impigliati nello schema di Cappuccetto Rosso e dell’offensiva antihitleriana,
la guerra d’attrito in Ucraina continuerà sempre più mortifera: con le forze
russe che devasteranno una città dopo l’altra fino a prendersi la riva destra e
sinistra del Dniepr e a ridurre l’Ucraina a un torso di Stato, deprivato delle
sue industrie, dello sbocco al mare, degli abitanti (l’Onu prevede 10 milioni
di profughi). Non è vero che alla fine entrambi i belligeranti saranno
perdenti. La Russia avrà perso moltissimo, ma potrà dire di aver conquistato le
parti essenziali, industrializzate, dell’Ucraina. L’Ucraina invece sarà uno
Stato fallito, grazie alle armi occidentali che hanno rovinosamente prolungato
la guerra. Chi in un’Unione europea già flagellata dalla crisi saprà
ricostruire città, fabbriche, campi agricoli? E il Donbass: con quali risorse
sarà ricostruito da Mosca? Nonostante le perdite e qualche resipiscenza,
Zelensky chiede armi sempre più pesanti ed è in preda al pensiero magico della
vittoria. Ma gran parte degli occidentali sa che non sarà così, pur non osando
dirlo: in particolare Macron, Scholz e Draghi che ieri erano a Kiev per
appoggiare Zelensky ma anche per sondare e propiziare i suoi intenti negoziali.
Kiev ha l’appoggio di Polonia, dei Baltici, del Regno Unito, degli Usa, ma
anche Washington mostra alcune insofferenze. Alti funzionari Usa si lamentano
delle poche informazioni che hanno da Zelensky, sulle perdite e sulle armi
disponibili. Poi c’è la “guerra mondiale a pezzi e bocconi” descritta dal Papa.
La Turchia si presenta come mediatrice, ma Erdogan profitta del caos ucraino
per annunciare nuovi attacchi sterminatori contro le enclave curde nel nord
siriano. Per non disturbarlo e scongiurare il veto turco all’ingresso di Svezia
e Finlandia nella Nato, gli Occidentali tacciono. Intanto Biden s’appresta a
riconciliarsi con gli assassini di Khashoggi a Ryad, in cambio di più petrolio.
Per questo è insensato inviare più armi a Kiev. Tra Russia e Europa si apre un
baratro tragico. Di disarmo atomico non si parla più da anni. E la retorica
secondo cui Mosca ha il monopolio della brutalità criminale non fa che
nascondere gli altri conflitti: in Yemen, Kashmir, Palestina, Siria, ecc. Chi
li menziona è sospettato di sminuire l’unica guerra che conta. Chi difende
l’innocenza di Julian Assange reo d’aver svelato i delitti Usa in Iraq e
Afghanistan è considerato un nemico che svia l’attenzione dai “putiniani”
incriminati dal «Corriere».
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