"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 giugno 2022

Piccolegrandistorie. 21 «Sono Maria Oliverio di anni ventidue. Nata e domiciliata a Casole, Cosenza, senza prole, di Pietro Monaco. Tessitrice, cattolica, illetterata».

 

A lato. "Ciccilla", al secolo Maria Oliverio, nata a  Casole Bruzio, Cosenza, nell'anno 1841, in una foto d'epoca.

“Donne di Calabria”. Oggi si festeggia la “Repubblica tradita” – “art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. (…)”; art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (…). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…; art. 4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. (…)”. Anch’io voglio festeggiare questa “Repubblica tradita” ma a modo mio, proponendoVi la lettura di “Ciccilla, libera e ribelle: la capobrigantessa della Sila che non voleva essere Maria”, lettura tratta dal volume “Italiana” – 2021, edito da “Mondadori libri” - di Giuseppe Catozzella e riportata sul settimanale “L’Espresso” del 14 di febbraio dell’anno 2021:

Tribunale Speciale Militare di Catanzaro, 16 febbraio 1864.“Si fa noto che si è qui presentata vestita da uomo indossando gilè di panno a colore, giacca e pantaloni di panno nero e il capo avvolto in un fazzoletto.”

“Sono Maria Oliverio, fu Biaggio, di anni ventidue. Nata e domiciliata a Casole, Cosenza, senza prole, di Pietro Monaco. Tessitrice, cattolica, illetterata.”

In verità illetterata non sono, a leggere e scrivere mi hanno insegnato quattro anni di scuola e i libri che di nascosto rubavo a mio marito Pietro, ma con la legge, se sei soltanto una tessitrice, è meglio fingersi idioti. Sono finita davanti al giudice militare come a carnevale, i capelli corti da uomo, la faccia lorda e segnata da due anni sulle montagne, le unghie spezzate. Mi hanno trovata nascosta in una grotta, nel bosco di Caccuri, dentro la Sila; sotto di me la valle assolata e profonda, e di fronte, a darmi respiro, il Monte Carlomagno e il Monte Scuro. Ero chiusa da settimane, come un orso. La cavità era profonda e umida, casa di lombrichi e toporagni, l’apertura era poco più di un buco ma all’interno si allargava e, a parte la luce che non c’era, quando accendevo il fuoco non stavo male. Era rimasta una scatola di fiammiferi buoni, di giorno sistemavo la legna ad asciugare al sole e di notte facevo una bella fiamma. Avevo messo insieme un giaciglio di rametti e aghi di pino, e un piccolo altare di pietra con una croce fatta alla bell’e meglio che mi teneva compagnia. Dio ho iniziato a cercarlo nel bosco, prima per lui avevo solo le preghierine di convenienza che mi aiutavano a tenere lontana la paura, quando arrivava. Fuori, i fusti dei larici attutivano i gridi dei nibbi, le strida dei falchi pellegrini, i voli a picco dei bianconi. Per giorni e notti interminabili i pensieri tornavano a mamma e a papà, ai miei fratelli Vincenza, Salvo, Angelo e Raffaele, e a quel diavolo di mio marito Pietro, che avevamo lasciato lassù, morto, bruciato, in quel disperato nido d’aquila. Prima del tramonto uscivo a battere i monti in cerca di cibo. Il fucile duebotte, per il rimbombo non lo potevo usare, ma avevo imparato a cacciare animaletti a mani nude, e con una fionda – piccoli uccelli, quercini, qualche carpa di fiume con una lenza. Li arrostivo su una praca di pietra nera e piatta, insieme a castagne, spugnole e colombine, aspettavo il buio per mascherare il fumo e mangiavo come una bestia che non vede preda da giorni. Raccoglievo acqua piovana e lasciavo che il tempo passasse. Il pomeriggio, o la notte, con la luna, scendevo al torrente, immergevo la testa fino alle spalle nella corrente gelida e mi dissetavo, accucciata, come Bacca, la lupa che è rimasta con noi finché non ha fiutato il tradimento. Di giorno mi spogliavo nuda ed entravo in acqua, galleggiavo sul dorso lasciandomi trasportare dalla corrente, mi perdevo a seguire le nuvole nel cielo e tutto in quei momenti si sospendeva, il passato e il futuro tornavano pieni di vita; poi restavo nascosta sotto le fronde a prendere qualche raggio di sole. Tornavo al rifugio bagnata e felice. Era febbraio, l’acqua del Neto era ghiacciata, niente mi faceva paura. Al rientro richiudevo bene l’apertura, accatastando delle pietre, ma lasciavo un piccolo buco, e spiavo le cose fuori: sognavo di raggiungere le cime, gli abeti bianchi e i castagni del cielo, di fare come l’astore che su quei rami si posava prima di spiccare il volo, per portare un cucciolo di lepre ai suoi piccoli. Ma era soltanto questione di tempo. Ci avevano già traditi una volta, sicuramente mi stavano cercando per tutta la Sila. Fosse stato solo per quei soldati del Nord potevo stare tranquilla, anche se tra di loro c’erano dei Cacciatori delle Alpi, montanari che avevano liberato le loro terre e adesso venivano a dare la caccia a chi cercava la libertà per il Sud; ma in certi posti, dentro i nostri boschi e sulle nostre montagne, non ci sarebbero arrivati. Non potevano conoscere i sentieri battezzati dai nostri nonni, le vie aperte dai nostri avi. Ma avevano cominciato a farsi condurre da vaccari e carbonai, montanari e taglialegna, e questo mi toglieva il sonno. Mi sentivo braccata. Con la primavera, avevo deciso, sarei scappata a valle, verso il mare. Avrei rubato una barca e navigato a nord. Prima di Scalea avrei risalito il fiume Argentino, toccato terra a Orsomarso, e da lì mi sarei arrampicata di nuovo dentro la Sila; in molti, nel tragitto, si sarebbero uniti, avrei ricostruito un folto gruppo di ribelli, avremmo scalato il Monte Curcio e li avremmo presi da dietro: e sarebbe stata la battaglia finale. Ma poi è arrivato il giorno. Mi hanno circondata, e prima che potessi guardarlo negli occhi hanno portato via il giuda che gli aveva aperto la strada. Hanno preso a sparare, fitto, di notte, e ho risposto al fuoco come impazzita. Ho resistito un giorno intero, ma poi? Non potevo uscire a cacciare, avevo finito le scorte d’acqua, erano tantissimi. Scelta non ce n’era. Chi mi ha catturata, il sottotenente Giacomo Ferraris, nei capelli tagliati e nei vestiti scuri ha visto un uomo. Ci hanno messo un po’, quegli idioti dei bersaglieri, a capire che ero una donna, l’unica capobrigantessa di questa nostra Italia appena fatta col sangue; ero già legata, la faccia schiacciata nella terra bruna. Uno mi ha strattonata per farmi voltare, e con la canna del fucile ha squarciato la cammisa. «Ha le tette!», rideva insieme con gli altri, con quel ridicolo accento piemontese. «Ha le tette!». I compagni non smettevano di guardarmi, piegavano la testa e mi squadravano, chissà che si credevano di trovarmi nella faccia, o forse non avevano mai visto un paio di minne. Poi hanno capito, e hanno preso a saltare dalla gioia; si congratulavano, si abbracciavano, ballavano come tanti cretini: avevano preso Ciccilla, la famosa Ciccilla, la terribile Ciccilla! L’unico che guardava senza parlare era il sottotenente, sembrava si spaventasse anche solo ad avvicinarsi; gli altri mi colpivano con le punte degli stivali, e con i calci dei fucili. Finché Ferraris non ha ordinato di smettere. Certo che ero io, e che non ero un uomo, per niente al mondo avrei voluto esserlo. Da due anni ero più simile a Bacca che a un uomo, e non c’è niente di più lontano da un uomo di una lupa. Ma una cosa dev’essere chiara: se ho usato un coltello per tagliarmi i capelli e mi sono vestita da uomo non è stato per essere come uno di loro. Se l’ho fatto è stato perché, senza, non mi sarei mai liberata. Senza, sarei rimasta Maria. Sta a tutti Voi stabilire della "piccolezza" o della grandezza di questa Storia di Calabria.

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