A lato. Hannah Arendt
Letta, su cortese segnalazione dell’amica Agnese A. e parzialmente riportata, l’intervista di Davide D'Alessandro allo psicoanalista Massimo Recalcati - "A Cacciari e Agamben dico: la filosofia può rendere ciechi" – postata sul sito www.huffingtonpost.it il 2 di gennaio 2022:
La pandemia ha segnato profondamente gli ultimi due anni. Hanno parlato tutti, molto meno chi vede i pazienti quotidianamente. Non pensi che sia mancata la parola della psicoanalisi? Quale può essere la sua parola su questa tragedia epocale? “Io ho parlato. Non ho disdegnato né di parlare pubblicamente, né di scrivere su quanto ci è accaduto. Non è un compito della psicoanalisi quello di provare a dire qualcosa di ciò che lascia senza parole? D’altronde, non è proprio vero che gli psicoanalisti in generale non abbiano preso la parola. I collegamenti da remoto imposti dalla pandemia ci hanno riunito da Londra a Buenos Aires, da Barcellona a Città del Messico, da Roma ad Atene, per parlare di ciò che stava avvenendo. Due i grandi temi: come rispondere al trauma quando esso è collettivo, quando travolge intere popolazioni? Che contributo ha potuto dare e può dare la psicoanalisi? Come si è poi modificata la nostra pratica? Che cosa cambia nello svolgere una seduta da remoto rispetto all’incontro in presenza? Si tratta solo di un’emergenza o di un’emergenza che ha reso più elastico il nostro setting? Ci sono state anche numerose iniziative cliniche nella città per mettere la psicoanalisi a disposizione di chi ha sofferto di più la pandemia. Penso al personale sanitario all’inizio della pandemia. Ma penso anche ai lutti rimasti sospesi e poi ai sintomi che hanno avuto in questi due anni un’amplificazione evidente: depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni, dipendenze. Per non parlare dei giovani. Insomma, non condivido il quadro che tu rappresenti, anche se esiste nella psicoanalisi una tendenza a isolarsi dal mondo, dalla vita della polis. È del resto una tendenza che ho contrastato sin da giovane”.
Attraverso alcuni libri continui il confronto con il testo biblico. Guardi a quelle pagine come rifugio, come speranza o come insegnamento perenne? “Chi conosce, anche superficialmente, il testo biblico sa che in primo piano non c’è l’esperienza del rifugio, ma quella dell’esodo, del deserto, dell’erranza, della spada che separa. Io non sono un biblista ma un semplice lettore della Bibbia; però, sono anche uno psicoanalista e i grandi temi che attraversano la Bibbia sono gli stessi che attraversano la psicoanalisi: il rapporto tra le generazioni, la fratellanza, l’odio e l’invidia, l’idolatria, il narcisismo, il senso dell’esistenza, la sofferenza, il rapporto tra Legge e desiderio, la vacuità dell’essere, la libertà, la vita e la morte. Dunque, io non pretendo in nessun modo di psicoanalizzare il testo biblico, ma ritrovo in quel testo le radici stesse della psicoanalisi. L’ebreo Freud e il cattolico Lacan, quanto meno nella sua formazione giovanile, sono stati del resto lettori molto appassionati della Bibbia”.
Sei stato giustamente critico con le posizioni assunte sulla pandemia da alcuni intellettuali. Perché è così difficile comprendere la strada giusta da seguire? “La filosofia può rendere ciechi. Pensa a come Heidegger ha letto l’avvento terrificante del nazismo. Perché ha potuto commettere un errore simile? Perché la filosofia rischia sempre di cadere nell’ideologia, se per ideologia intendiamo, come ricorda Arendt, far prevalere l’Idea sulla realtà. È quello che è accaduto a Heidegger: l’idea del destino nichilistico dell’Occidente, della storia come oblio dell’essere, ha voluto vedere nel nazismo una possibilità di ritornare a pensare gli dei, la verità come aletheia, la resistenza di fronte al narcisismo umanistico dell’Occidente. Un delirio ideologico. Lo stesso che ha accecato pensatori di grande spessore, come Agamben e Cacciari. Con il riferimento ideologico alla biopolitica, al biopotere, allo stato di eccezione, eccetera, hanno piegato la realtà agli interessi dell’ideologia. A questo aggiungerei, se mi permetti, una dose non irrilevante di vanità. Chi ha contatto quotidiano con la sofferenza sa che ci sono momenti in cui la parola deve poter subordinarsi alle ragioni della scienza medica. Nessuno, tra coloro che si sono sottoposti a interventi chirurgici importanti, ha mai questionato sulla ratio dell’intervento che ha dovuto subire. Ci siamo affidati al discorso medico come ci affidiamo ai piloti quando saliamo su un aereo. Aggiungerei anche la miseria di un certo giornalismo, soprattutto di destra, che ha cavalcato questa crisi in modo indegno perseguendo un mero obiettivo di visibilità. È lo stesso che abbiamo visto nei talk show, dove la presenza proliferante dei no vax è servita a mantenere l’audience. Che pena!”.
Non tutti hanno la stessa resilienza al dolore e al trauma. I casi di depressione grave vengono dati in aumento esponenziale. C’è chi si adopera per contenere questo dramma? Credi che si debba fare di più? “Noi facciamo l’impossibile. ‘Jonas’ ha aperto le sue porte a tutti, abbattendo come fa da anni le tariffe delle sedute e creando anche servizi domiciliari di assistenza psicologica. Notiamo che molti giovani sono in difficoltà. Ma non evochiamo, per carità, la definizione di ‘generazione covid’. Non ci sarà nessuna ‘generazione covid’, almeno che gli adulti non la facciano esistere. I nostri figli hanno vissuto un’esperienza durissima, che ha lasciato ferite. Non c’è dubbio. Ma identificare qualcuno con la sua ferita è fomentare l’alibi torbido della vittima. L’etica della psicoanalisi va in tutt’altra direzione; noi crediamo che il soggetto sia sempre responsabile. Non ovviamente di ciò che gli accade, ma di quello che fa di ciò che gli accade. Sarà importante anche l’azione della scuola: gli insegnanti dovranno accompagnare i nostri figli in questa difficile elaborazione del trauma. A questo serve, in fondo, la cultura, non credi? A rendere formative anche le esperienze che appaiono solo negative. Anzi, proprio quelle esperienze sono, come ogni educatore sa bene, le più formative”. (…).
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