Scriveva il 13 di febbraio dell’anno
2011 – ben undici anni prima di questa sciagurata stagione politica - Nadia
Urbinati - titolare della cattedra di scienze politiche presso la Columbia
University di New York, già Presidente dell’associazione “Libertà e Giustizia” - in
“Il paradosso del Sultano”
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). Negli anni del dopoguerra alla cultura
morale dell´anti-autoritarismo è corrisposto un modello di vita libero e
trasgressivo: le relazioni sentimentali e sessuali nel mondo variegato della
sinistra, istituzionale o di movimento, erano tutto fuorché tradizionali. La libertá
sessuale non è stata soltanto una conseguenza possibile di diritti conclamati,
ma prima ancora un modo di vivere l’intimitá con l’altro e con la sessualitá.
Insomma, la cultura di chi ha lottato per i diritti civili è stata una cultura
della trasgressione e dell’opposizione insieme. Il paradosso dell’Italia di
oggi è che il premier occupa lo spazio della trasgressione, costringendo l’opposizione
nel ruolo impossibile del conservatorismo. Ecco perché la distinzione tra donne
brave e donne reprobe è segno di un atteggiamento che incarta e sconvolge la
nostra cultura liberale e democratica. Si tratta di una distinzione che non
dovremmo fare, non soltanto per non cadere nella trappola tesa dal premier. C’è
una ragione ulteriore: difendere i diritti, volere i diritti significa
necessariamente credere che ciascuno sia autonomo e responsabile delle proprie
scelte, piacevoli o spiacevoli che siano, e che di quelle scelte non debba
rendere conto a nessuno, se non alla legge se e quando viola i diritti altrui
(qui sta la vera ragione della critica ai comportamenti del premier). Ora, che
una persona risponda o no alla propria coscienza è un fatto che alla cultura
dei diritti non interessa direttamente, anche se i liberali si augurano che
ciascuno sia in grado di avere una coscienza individuale che faccia da
sentinella (e magari impostano la vita famigliare ed educativa perché questa
coscienza venga formata). Dopo di che, come ciascuno o ciascuna di noi usa quei
diritti di libertá sono fatti che non riguardano nessuno. E se l’opinione
pubblica critica i nostri comportamenti e le nostre abitudini sessuali, noi
siamo legittimati a reagire con una contro-opinione. Ma la distinzione tra
donne reprobe e donne brave scompagina proprio questa cultura dei diritti
poiché sembra dire che le donne devono essere rispettate nella misura in cui
esse usano "bene" i loro diritti. Ovviamente, questo discorso non
riguarda le minori: poiché la responsabilità giuridica è una componente
essenziale del godimento dei diritti ed è legata all’età adulta stabilita dalla
legge. Ma nel caso di persone adulte, di donne adulte, l’uso che esse fanno
della loro vita non è un fatto che può diventare oggetto di critica da parte
dell’opinione pubblica e politica. La cultura dei diritti non ha nulla a che
fare con la gogna nè con la distinzione tra donne brave e donne reprobe. I
paradossi che questo presidente del Consiglio provoca sono quindi dei più
spinosi, perché la sua mania (che è un problema serissimo, non perché disturba
la morale ordinaria, ma per l’alta funzione che egli esercita) è il frutto
estremo del rovesciamento del giudizio pubblico in giudizio privato. Il
paradosso è che il trasgressivismo malato di chi ci governa induce i critici a
flirtare con la tentazione di discriminare le donne in ragione dei loro
comportamenti. Le centinaia di giovani donne che hanno preso regali e soldi dal
presidente non sono il bersaglio: non si devono mettere alcune donne contro
altre, anche perché è proprio questo l’esito studiato della politica del
leader. È certo difficile che si crei empatia tra le donne che lavorano e le
donne che mettono il loro corpo a servizio; ma la sorgente della difficoltà va
individuata con correttezza. La nostra attenzione critica dovrebbe essere
rivolta non alle donne per la loro condotta, ma alle politiche dei governi che
la destra ha in questi anni messo in moto con l’obiettivo esplicito di
indebolire i diritti associati al lavoro e di dissociare infine il lavoro dalla
dignità per identificarlo con un pugno di soldi a qualunque costo o addirittura
con il dono (e questo non vale solo per le donne che vanno ad Arcore come la
vicenda Fiat insegna). Questa dequalificazione estrema del valore delle persone
deve offendere e fare reagire. Essa è il vero problema, in quanto abbassa le
aspettative delle donne e degli uomini e, quel che è peggio, confonde il
giudizio sulle responsabilità e le colpe. L’obiettivo critico non sono le donne
giovani e belle che frequentano le case del premier. L’obietto è il premier, la
sua illegalità e le politiche sociali del suo governo. L’obiettivo è il
messaggio che trasmette da decenni ogni giorno. A tutto questo bisogna reagire,
insieme, e dire basta. Di seguito, “Fermare
il ballo col diavolo” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, 17 di gennaio 2022: (…). Quasi trent'anni dopo la "discesa
in campo" da Arcore a Roma la trasfigurazione del Cavaliere a Capo dello
Stato rappresenta infatti la definitiva prevalenza dell'ideologia sulla storia,
che può essere rovesciata, vilipesa o semplicemente ignorata per insediare al
vertice del Paese un nuovo esperimento di potere, in lotta non con la sinistra
ma con la realtà. L'immagine del caimano che si trasforma in animale domestico
per la grazia di Stato del Quirinale è infatti l'ultimo inganno, il packaging
propagandistico che contrabbanda la presidenza come un pensionamento d'onore,
senza più armi e munizioni, trasformando il guerriero che ha diviso l'Italia in
un mansueto pater familias dell'intera nazione, custode dei Lari e dei Penati
di una tradizione condivisa e della loro sacra protezione per tutti, anche i
tradizionali avversari, molto spesso in questi anni trasformati in nemici. Certamente Berlusconi, che è prima di tutto un attore interprete di se stesso,
saprebbe arricchire le contraddizioni del suo repertorio mimando anche il ruolo
del super partes, quando gli conviene. Ma non è questo il punto, perché oggi
ciò che conta è il significato della candidatura, il suo nucleo concettuale,
dunque la sua portata e la sua ambizione. E tutto questo può essere riassunto
in una formula: Berlusconi non viene scelto dal centrodestra e indicato per il
Quirinale "nonostante" la sua anomalia, ma "per" questa
anomalia intrinseca alla sua figura, dunque insuperabile perché connaturata al
personaggio, anzi costitutiva del suo agire pubblico. Talmente intrinseca - un
intreccio di conflitto d'interessi, strapotere economico, dismisura mediatica -
che ha impedito la trasmissione del comando a un delfino o comunque
l'individuazione di un successore, al punto da ipotizzare come unico radicale
rimedio la soluzione dinastica, che consentirebbe di consegnare all'erede di
famiglia il comando indiviso e l'anomalia, intatta. È impossibile che leader
politici esperti come quelli che guidano il centrodestra non vedano
l'irrazionalità della scelta di candidare questa anomalia alla suprema
magistratura repubblicana, l'inopportunità di far rappresentare l'Italia dentro
il Paese e fuori da un pregiudicato, la singolarità di questa selezione
rispetto alle qualità richieste dal ruolo: saggezza, prudenza, decoro, rispetto
delle leggi, difesa dell'unità nazionale, scrupolo costituzionale. Il contrasto
tra la regola, la tradizione e il nome di Berlusconi è evidente, soprattutto
all'estero, tra gli osservatori non sedati dalla propaganda massiccia di questi
decenni e dalla deformazione ideologica operata costantemente nel nostro Paese
sulla realtà. L'indicazione di Berlusconi è dunque stata fatta con perfetta
coscienza di queste riserve e di queste obiezioni. Potremmo aggiungere che
quell'indicazione è stata fatta al di là delle convenienze apparenti, immediate
del centrodestra, che ha deciso di lanciare un nome evidentemente controverso,
imboccando una strada in salita. C'è dunque qualche ragione superiore che
spiega la decisione, e ha la forza di spazzar via tutte le evidenze contrarie. Questa ragione va cercata nella natura antipolitica della destra italiana di
Salvini e Meloni, nella tentazione continua di corteggiare il sentimento
dell'Antistato, nella scelta di riconoscersi pienamente nell'agibilità del
sistema repubblicano ma non nei suoi valori liberali, flirtando al contrario
con i leader che propongono un'interpretazione neo-autoritaria della democrazia
e contestano i principi dello Stato di diritto. L'anomalia trasformata in
candidatura al Quirinale è la scelta conseguente a questa impostazione teorica.
Se poi si insediasse al Quirinale, vincendo, sarebbe con questi connotati la
prefigurazione di un nuovo ordine, da saldare con la possibile vittoria della
destra sovranista alle elezioni politiche: in un Paese pericolosamente inclinato
sul suo fianco estremo. Ma già oggi, anche da solo, il
nome di Berlusconi per queste ragioni rappresenta una rottura dell'equilibrio
tra politica, istituzioni e tradizione repubblicana. L'eccezione viene
prescelta in quanto tale, la contraddizione si trasforma in deroga permanente,
anzi si sublima diventando consustanziale alle istituzioni. A quel punto, tutto
è consumato: il nazionalismo sovranista avrà compiuto il suo disegno di
deformazione dello Stato e Berlusconi col suo istinto avrà rifondato una
seconda volta la destra italiana. In peggio. Salvo che il parlamento si rifiuti
di ballare col diavolo, vendendosi l'anima.
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