"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 18 gennaio 2022

Lamemoriadeigiornipassati. 25 «L'inopportunità di far rappresentare l'Italia dentro il Paese e fuori da un pregiudicato».

Scriveva il 13 di febbraio dell’anno 2011 – ben undici anni prima di questa sciagurata stagione politica - Nadia Urbinati - titolare della cattedra di scienze politiche presso la Columbia University di New York, già Presidente dell’associazione “Libertà e Giustizia” - in “Il paradosso del Sultano” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). Negli anni del dopoguerra alla cultura morale dell´anti-autoritarismo è corrisposto un modello di vita libero e trasgressivo: le relazioni sentimentali e sessuali nel mondo variegato della sinistra, istituzionale o di movimento, erano tutto fuorché tradizionali. La libertá sessuale non è stata soltanto una conseguenza possibile di diritti conclamati, ma prima ancora un modo di vivere l’intimitá con l’altro e con la sessualitá. Insomma, la cultura di chi ha lottato per i diritti civili è stata una cultura della trasgressione e dell’opposizione insieme. Il paradosso dell’Italia di oggi è che il premier occupa lo spazio della trasgressione, costringendo l’opposizione nel ruolo impossibile del conservatorismo. Ecco perché la distinzione tra donne brave e donne reprobe è segno di un atteggiamento che incarta e sconvolge la nostra cultura liberale e democratica. Si tratta di una distinzione che non dovremmo fare, non soltanto per non cadere nella trappola tesa dal premier. C’è una ragione ulteriore: difendere i diritti, volere i diritti significa necessariamente credere che ciascuno sia autonomo e responsabile delle proprie scelte, piacevoli o spiacevoli che siano, e che di quelle scelte non debba rendere conto a nessuno, se non alla legge se e quando viola i diritti altrui (qui sta la vera ragione della critica ai comportamenti del premier). Ora, che una persona risponda o no alla propria coscienza è un fatto che alla cultura dei diritti non interessa direttamente, anche se i liberali si augurano che ciascuno sia in grado di avere una coscienza individuale che faccia da sentinella (e magari impostano la vita famigliare ed educativa perché questa coscienza venga formata). Dopo di che, come ciascuno o ciascuna di noi usa quei diritti di libertá sono fatti che non riguardano nessuno. E se l’opinione pubblica critica i nostri comportamenti e le nostre abitudini sessuali, noi siamo legittimati a reagire con una contro-opinione. Ma la distinzione tra donne reprobe e donne brave scompagina proprio questa cultura dei diritti poiché sembra dire che le donne devono essere rispettate nella misura in cui esse usano "bene" i loro diritti. Ovviamente, questo discorso non riguarda le minori: poiché la responsabilità giuridica è una componente essenziale del godimento dei diritti ed è legata all’età adulta stabilita dalla legge. Ma nel caso di persone adulte, di donne adulte, l’uso che esse fanno della loro vita non è un fatto che può diventare oggetto di critica da parte dell’opinione pubblica e politica. La cultura dei diritti non ha nulla a che fare con la gogna nè con la distinzione tra donne brave e donne reprobe. I paradossi che questo presidente del Consiglio provoca sono quindi dei più spinosi, perché la sua mania (che è un problema serissimo, non perché disturba la morale ordinaria, ma per l’alta funzione che egli esercita) è il frutto estremo del rovesciamento del giudizio pubblico in giudizio privato. Il paradosso è che il trasgressivismo malato di chi ci governa induce i critici a flirtare con la tentazione di discriminare le donne in ragione dei loro comportamenti. Le centinaia di giovani donne che hanno preso regali e soldi dal presidente non sono il bersaglio: non si devono mettere alcune donne contro altre, anche perché è proprio questo l’esito studiato della politica del leader. È certo difficile che si crei empatia tra le donne che lavorano e le donne che mettono il loro corpo a servizio; ma la sorgente della difficoltà va individuata con correttezza. La nostra attenzione critica dovrebbe essere rivolta non alle donne per la loro condotta, ma alle politiche dei governi che la destra ha in questi anni messo in moto con l’obiettivo esplicito di indebolire i diritti associati al lavoro e di dissociare infine il lavoro dalla dignità per identificarlo con un pugno di soldi a qualunque costo o addirittura con il dono (e questo non vale solo per le donne che vanno ad Arcore come la vicenda Fiat insegna). Questa dequalificazione estrema del valore delle persone deve offendere e fare reagire. Essa è il vero problema, in quanto abbassa le aspettative delle donne e degli uomini e, quel che è peggio, confonde il giudizio sulle responsabilità e le colpe. L’obiettivo critico non sono le donne giovani e belle che frequentano le case del premier. L’obietto è il premier, la sua illegalità e le politiche sociali del suo governo. L’obiettivo è il messaggio che trasmette da decenni ogni giorno. A tutto questo bisogna reagire, insieme, e dire basta. Di seguito, “Fermare il ballo col diavolo” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, 17 di gennaio 2022: (…). Quasi trent'anni dopo la "discesa in campo" da Arcore a Roma la trasfigurazione del Cavaliere a Capo dello Stato rappresenta infatti la definitiva prevalenza dell'ideologia sulla storia, che può essere rovesciata, vilipesa o semplicemente ignorata per insediare al vertice del Paese un nuovo esperimento di potere, in lotta non con la sinistra ma con la realtà. L'immagine del caimano che si trasforma in animale domestico per la grazia di Stato del Quirinale è infatti l'ultimo inganno, il packaging propagandistico che contrabbanda la presidenza come un pensionamento d'onore, senza più armi e munizioni, trasformando il guerriero che ha diviso l'Italia in un mansueto pater familias dell'intera nazione, custode dei Lari e dei Penati di una tradizione condivisa e della loro sacra protezione per tutti, anche i tradizionali avversari, molto spesso in questi anni trasformati in nemici. Certamente Berlusconi, che è prima di tutto un attore interprete di se stesso, saprebbe arricchire le contraddizioni del suo repertorio mimando anche il ruolo del super partes, quando gli conviene. Ma non è questo il punto, perché oggi ciò che conta è il significato della candidatura, il suo nucleo concettuale, dunque la sua portata e la sua ambizione. E tutto questo può essere riassunto in una formula: Berlusconi non viene scelto dal centrodestra e indicato per il Quirinale "nonostante" la sua anomalia, ma "per" questa anomalia intrinseca alla sua figura, dunque insuperabile perché connaturata al personaggio, anzi costitutiva del suo agire pubblico. Talmente intrinseca - un intreccio di conflitto d'interessi, strapotere economico, dismisura mediatica - che ha impedito la trasmissione del comando a un delfino o comunque l'individuazione di un successore, al punto da ipotizzare come unico radicale rimedio la soluzione dinastica, che consentirebbe di consegnare all'erede di famiglia il comando indiviso e l'anomalia, intatta. È impossibile che leader politici esperti come quelli che guidano il centrodestra non vedano l'irrazionalità della scelta di candidare questa anomalia alla suprema magistratura repubblicana, l'inopportunità di far rappresentare l'Italia dentro il Paese e fuori da un pregiudicato, la singolarità di questa selezione rispetto alle qualità richieste dal ruolo: saggezza, prudenza, decoro, rispetto delle leggi, difesa dell'unità nazionale, scrupolo costituzionale. Il contrasto tra la regola, la tradizione e il nome di Berlusconi è evidente, soprattutto all'estero, tra gli osservatori non sedati dalla propaganda massiccia di questi decenni e dalla deformazione ideologica operata costantemente nel nostro Paese sulla realtà. L'indicazione di Berlusconi è dunque stata fatta con perfetta coscienza di queste riserve e di queste obiezioni. Potremmo aggiungere che quell'indicazione è stata fatta al di là delle convenienze apparenti, immediate del centrodestra, che ha deciso di lanciare un nome evidentemente controverso, imboccando una strada in salita. C'è dunque qualche ragione superiore che spiega la decisione, e ha la forza di spazzar via tutte le evidenze contrarie. Questa ragione va cercata nella natura antipolitica della destra italiana di Salvini e Meloni, nella tentazione continua di corteggiare il sentimento dell'Antistato, nella scelta di riconoscersi pienamente nell'agibilità del sistema repubblicano ma non nei suoi valori liberali, flirtando al contrario con i leader che propongono un'interpretazione neo-autoritaria della democrazia e contestano i principi dello Stato di diritto. L'anomalia trasformata in candidatura al Quirinale è la scelta conseguente a questa impostazione teorica. Se poi si insediasse al Quirinale, vincendo, sarebbe con questi connotati la prefigurazione di un nuovo ordine, da saldare con la possibile vittoria della destra sovranista alle elezioni politiche: in un Paese pericolosamente inclinato sul suo fianco estremo. Ma già oggi, anche da solo, il nome di Berlusconi per queste ragioni rappresenta una rottura dell'equilibrio tra politica, istituzioni e tradizione repubblicana. L'eccezione viene prescelta in quanto tale, la contraddizione si trasforma in deroga permanente, anzi si sublima diventando consustanziale alle istituzioni. A quel punto, tutto è consumato: il nazionalismo sovranista avrà compiuto il suo disegno di deformazione dello Stato e Berlusconi col suo istinto avrà rifondato una seconda volta la destra italiana. In peggio. Salvo che il parlamento si rifiuti di ballare col diavolo, vendendosi l'anima.

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