Ha scritto Enzo Bianchi in “Chi ricorda non mente” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 24 di gennaio 2022: (…). Nel nostro presente s'intrecciano
memoria e oblio, passato e futuro, ma senza finire in un culto della memoria
dobbiamo aprire un futuro al passato, come avverte acutamente Barbara Spinelli
nel libro Il sonno della memoria. La memoria diventa allora "motrice di
storia" che rilegge ma non riscrive e consente di mutare non il passato ma
il futuro. La memoria del male e della sua epifania è essenziale ad assumere
una crudele verità: il male è possibile all'uomo, anche a me stesso, il male è
banale, e quindi si arriva a considerarlo come una realtà da vincere. Il giorno
della Memoria del 27 gennaio deve essere un giorno di intelligente riflessione
per ricordare le vittime: dimenticarle significherebbe ucciderle una seconda
volta. Sì, una porzione di umanità è stata perseguitata ed eliminata con un
disegno progettato da un'altra parte di umanità accecata e barbara che non
riconosceva più né la comune dignità umana, né la fraternità. È importante far
risuonare con sdegno un "mai più", ma è anche necessario interrogarci
su perché la Shoah è potuta accadere. Quando si evoca la Shoah, la si imputa
esclusivamente all'ideologia nazista, individuando i colpevoli nei soggetti al
servizio di quel potere totalitario e criminale. In realtà della Shoah furono
responsabili anche molti uomini senza condivisione di ideologie naziste,
persone con una coscienza silente e abituate a pensare solo a sé stesse. Nel
silenzio o nella muta approvazione, per il bene della nazione, del popolo e
della razza, scelsero l'indifferenza. Per questo, quello che è successo allora
è possibile anche oggi: deboli che diventano prepotenti, impotenti che
diventano aguzzini, apatici che diventano crudeli. Gli ultimi sopravvissuti
all'inferno se ne stanno andando e cesseranno le narrazioni di ciò che
all'inizio fu inenarrabile. E allora più che mai occorrerà vigilanza per
combattere l'affievolirsi della memoria, l'oblio che è terreno fertile per
negazionismi, letture oblique e giustificazioni impossibili. "L'uomo è
definito dalla sua memoria", scriveva Elie Wiesel intendendo dire che
l'umanità è singolare anche per la sua capacità di memoria. Senza questa,
neanche la parola sarebbe possibile a noi umani e la verità diventerebbe
menzogna. Di seguito, “Gli ebrei
e il compito di rivivere l’orrore” di Enrico Mentana, tratto dalla
prefazione al volume “Per questo ho
vissuto” di Sami Modiano (PaperFirst editrice) e riportato su “il Fatto
Quotidiano” del 27 di gennaio dell’anno 2021: (…), …la Soluzione Finale della
questione giudaica, fu messa in atto in tutta l’Europa occupata da centinaia di
migliaia di uomini delle forze hitleriane, con la complicità di milioni di
cittadini di quei Paesi, complici della svastica tedesca. Ma le poche ammissioni
sono arrivate solo nelle aule di tribunale, quasi sempre allo scopo di
circoscrivere le proprie responsabilità. Dopo i conti sommari fatti dai
vincitori sui vinti col falò giudiziario del processo di Norimberga, fu
quindici anni dopo un altro storico processo, quello israeliano a Adolf
Eichmann, a mostrare al mondo quella che proprio in quell’occasione Hannah
Arendt definì la banalità del Male, e cioè la pianificazione ragionieristica
dello sterminio di sei milioni di persone che in comune avevano solo la fede
religiosa, l’appartenenza a un popolo, pur bollata come “razza ebraica”. Da
allora, giusto sessant’anni fa, nascondere o mettere in secondo piano
l’Olocausto non fu più possibile. Eppure il compito di raccontarlo fu di lì in
poi affidato a una sola minoritaria categoria, i deportati superstiti: come se
in quei terrificanti anni della Seconda guerra mondiale si fosse consumato
unicamente il conflitto tra un popolo alieno, i nazisti, e un altro popolo,
quello ebraico, e a essere estinti fossero stati gli sterminatori. Anche per
questo il dovere di continuare a testimoniare l’orrore di Auschwitz rischia di
schiacciare gli ormai pochi sopravvissuti a una nuova coercizione, di
raccontare sempre la stessa vicenda, davanti a spettatori ormai lontani da quel
momento storico, a rischio perfino di essere ascoltati con scetticismo, perché
appunto “parte” di quella persecuzione. È come se toccasse a loro di dover
documentare quel che accadde, in una diabolica inversione dell’onere della
prova. Conoscete del resto documenti scritti o visivi di militari o dirigenti
nazisti che descrivano e raccontino quella macchina pianificata di sterminio?
Oppure, quel che è peggio per noi, conoscete registrazioni o deposizioni di
anche uno solo dei funzionari italiani che si prestarono ad aiutare i nazisti
nell’opera di individuazione, rastrellamento, internamento e deportazione degli
ebrei del nostro Paese? E lo stesso per i francesi, gli olandesi, i belgi, gli
ungheresi, i polacchi e tutti gli altri popoli d’Europa. Nessun nazista, nessun
collaborazionista, nessuno degli zelanti cittadini che si misero a disposizione
degli eserciti di occupazione, nessuno dei “volonterosi carnefici di Hitler”,
nessun delatore pentito. L’omertà post-bellica di un continente che si voleva
lasciare subito l’orrore alle spalle, ridando dignità anche alle nazioni
sconfitte, ha lasciato soli gli ebrei scampati dai campi di sterminio nel
compito storico di tramandare ciò che fu. E questo solo dopo molto tempo,
perché la stessa Italia stanca di guerra lasciò sugli scaffali delle librerie
praticamente tutte le copie di Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato
due anni dopo la liberazione di Auschwitz da una piccola casa editrice, perché
le più grandi e impegnate l’avevano rifiutato. Le ferite erano ancora aperte, e
troppe coscienze erano ancora sporche. Perché negli anni dell’occupazione gli
ufficiali nazisti erano potuti andare a colpo sicuro: elenchi, residenze, beni
e ruoli degli ebrei italiani erano inventariati da molti anni, “grazie” alle
infami leggi razziali. Quelle leggi, certo, erano state volute da Mussolini e
scritte dai gerarchi del regime fascista, e ignominiosamente controfirmate dal
re, ma furono messe in atto con zelo da tutte le amministrazioni centrali e
periferiche del Paese, a cominciare da quelle scolastiche, infami più di tutti,
per cacciare i minori da ogni istituto. (…), Sami Modiano seppe di essere stato
espulso dal suo maestro, nella scuola italiana dell’isola di Rodi: lui, alunno
di otto anni, non capì perché succedeva, e fu il padre a doverglielo spiegare. “Quel
giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un
bambino. La notte mi addormentai come un ebreo”. Sami è coetaneo di un’altra
bambina ebrea, come lui già orfana di madre e attaccatissima anche per questo
al padre, che nella lontana Milano stava vivendo la stessa progressiva
tragedia. Liliana Segre si separerà dal padre nel luogo dell’orrore assoluto,
la rampa di Auschwitz, per sempre. Per Sami invece il legame col padre e la sorella
si spezzerà più avanti nell’inferno dello stesso campo di sterminio. Accosto le
loro esperienze anche per affrontare il tema più duro. Possiamo leggere, e
ancora ascoltare dalla loro voce, il racconto di Modiano come quello di Segre
perché riuscirono a sopravvivere alla macchina organizzata di morte del Terzo
Reich. I bambini di allora sono oggi novantenni. Forse anche la loro stessa
missione di testimonianza, iniziata per tutti e due solo con la maturità,
quando anche il nostro Paese ha cominciato davvero a voler sapere, ha
contribuito a corazzarli contro l’incedere dell’età più anziana. Ma non ci
saranno per sempre. Per questo il loro racconto dovrà varcare i decenni col
supporto indispensabile della parola scritta. Furono perseguitati con le loro famiglie
perché appartenevano a quello che in omaggio alla sua storia plurimillenaria
fissata dalla Torah è sempre stato chiamato il Popolo del Libro. E, da quando
sarà in poi, saranno solo libri come questo a portare avanti la testimonianza
di quell’orrore, perché altri occhi di bambino possano leggere, perché nuove
coscienze si formino su questi insegnamenti, perché nessun altro provi ancora a
negare, a relativizzare, a nascondere nell’oblio. Ma c’è un altro elemento
valido per i nostri giorni che il racconto della vita di Sami Modiano ci fissa
con il candore della sua memoria d’infanzia: allora convivevano a Rodi, l’isola
delle rose, come in tanti altri luoghi del Mediterraneo, comunità nazionali,
etniche e religiose diverse, plasmate da scambi commerciali e migrazioni
continue. Un equilibrio che sembrava rappresentare il superamento definitivo di
avversioni e odi che nei secoli precedenti erano sfociati in conflitti
sanguinosi. Poi arrivarono le leggi razziali e la guerra a spazzare via tutto.
Oggi la guerra e il razzismo sono banditi, ma da tempo il vento
dell’intolleranza è tornato a soffiare sul nostro mare. Lì è cominciata la
nostra civiltà, lì si dovrà lottare per farla rifiorire.
"Il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro".(Iosif Aleksandrovic Brodsky). "Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male:gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità".(Joseph Conrad). "Esiste un contagio del male:chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso".(Primo Levi). "Il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio, ma
RispondiEliminal'indifferenza:questa è l'essenza dell'inumanità".(George Bernard Shaw). Grazie per questo post straordinario, intenso, profondo ed incisivo. Buona continuazione.