A lato. "Windmill", acquerello (2022) di Anna Fiore.
Quel grande “cantore” che è stato l’indimenticato Giorgio Gaber così declamava nel Suo struggente “Far finta di essere sani”:
Vivere, non riesco a vivere
Ma la mente mi autorizza a credere
Che una storia mia, positiva o no
È qualcosa che sta dentro alla realtà
Nel dubbio mi compro una moto
Telaio e manubrio cromato
Con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani
Far finta di essere sani
Far finta di essere insieme a una donna normale
Che riesce anche ad esser fedele
Comprando sottane, collane e creme per mani
Far finta di essere sani
Far finta di essere
Liberi, sentirsi liberi
Forse per un attimo è possibile
Ma che senso ha se io sento in me
La misura della mia inutilità
Per ora rimando il suicidio
E faccio un gruppo di studio
Le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani
Far finta di essere sani
Far finta di essere un uomo con tanta energia
Che va a realizzarsi in India o in Turchia
Il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani
Far finta di essere sani
Far finta di essere
Vanno, tutte le coppie vanno
Vanno, la mano nella mano
Vanno, anche le cose vanno
Vanno, migliorano piano piano
Le fabbriche, i grattacieli
Le autostrade, gli stadi comunali
E vedo bambini cantare
In fila li portano al mare
Non sanno se ridere o piangere e batton le mani
Far finta di essere sani
Far finta di essere sani
Far finta di essere sani
Far finta di essere sani
Far finta di essere.
Ha scritto Michele Serra sull’ultimo numero del settimanale “il Venerdì di Repubblica” – “Non facciamo finta di essere sani” - del 28 di gennaio 2022: Già, cosa ci manca? A molti, non solo nei Paesi poveri e lontani, manca ancora il pane, guai a non tenerne conto; ma non c'è dubbio che prevalga un diffuso benessere, specie in Occidente. E dunque il malumore, la sofferenza psicologica, se vogliamo l'infelicità, non dipendono solamente dalle condizioni materiali. Non basta la sicurezza di avere un tetto sulla testa, un letto caldo, la dispensa piena per sentirsi contenti. Questo stacco tra condizioni materiali e umore ci costringe dunque a filosofeggiare, (…). Manca, evidentemente, uno scopo, una direzione. Chi ce l'ha, per ragioni sue e per suoi meriti individuali, può dirsi in salvo, ma ci sono moltitudini di persone che farebbero molta fatica a dire perché si alzano al mattino. Non credo per pagare le rate della macchina, senza niente togliere alla piacevolezza delle macchine e alla comodità delle rate. In Far finta di essere sani Gaber, molti anni fa, già elencava una serie di espedienti, chiamiamoli così, che potevano servire a fingersi sani. "Comprare sottane, collane, creme per mani", una motocicletta "con tanti pistoni, bottoni, accessori più strani", "un viaggio in luoghi lontani" (allora era molto in auge andare in India), eccetera. La canzone, bellissima, è di quasi mezzo secolo fa, e questo significa che il problema è annoso. Leggemmo, chi più chi meno, Marcuse, i francofortesi, Pasolini, la "macchina desiderante" di Deleuze, ci sembrò di capire che non siamo nati (solo) per consumare e camminare in fila per due per rendere onore al Pil. Abbiamo desideri più alti, meno visibili, più complicati e più sfuggenti. Ora noi (…) saremmo ridicoli se pensassimo, (…), di aggiungere qualcosa di intelligente a questo annoso dibattito. Certo dobbiamo prendere atto, ormai in via definitiva, che la pancia piena è meglio di quella vuota, ma non basta a sentirsi felici, o quantomeno sereni. Anche perché ci hanno progettato, a quanto pare, con pance estensibili quasi all'infinito: più le riempi, più hai fame. Che ci serve? Dieta? Decrescita felice? Maggiore ricerca di soddisfazione nel sentirsi comunità come ai tempi (beati, checché se ne dica) dell'impegno politico di massa? Musica, cultura, arte, silenzio, paesaggi? Be', un po' di tutte queste cose, certamente. In più, senza dubbio, respirare forte e guardare le nuvole, per sentirsi un poco più sintonici con il mondo che ci ha generato. Di seguito, “Ma davvero dobbiamo continuare a crescere?” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, 29 di gennaio 2022: E questa ideologia non confligge con i limiti della sostenibilità del pianeta? Dopo il fallimento storico delle società regolate dal comunismo reale, il suo antagonista, il capitalismo è apparso come unica forma accettabile capace di garantire una convivenza umana nel segno della libertà. Anche se già Marx avvertiva che la libertà non è garantita dalla semplice uguaglianza dei diritti civili, ma richiede anche una più equa distribuzione della ricchezza, perché chi è ricco è ovviamente più libero di chi è povero. Con la globalizzazione il capitalismo, che ha per scopo unicamente il profitto, è diventato in un certo senso la forma del mondo, che ha imposto il mito della crescita sia ai Paesi sottosviluppati, quando non diseredati, che raccolgono i quattro quinti dell'umanità, sia ai Paesi sviluppati, tra cui anche il nostro, che ciononostante "devono crescere". Fin dove? A spese di chi? E a quali costi ambientali? Quello che mi preoccupa non è tanto il capitalismo in sé con il suo modello di sviluppo e di crescita (nonostante noi siamo già alla terza o quarta generazione che cresce), ma il fatto che questo modello sia diventato una forma mentìs, uno stato d'animo, una caparra per il futuro nostro e dei nostri figli, per cui se questa speranza nella crescita viene meno, accade una paralisi del pensiero, un'ansia per il domani, un senso di inquietudine che avvertiamo ogni volta che si profila una crescita zero o addirittura una decrescita. Eppure sappiamo tutti che questa idea di crescita, che caratterizza il nostro modo di pensare occidentale e quello cinese, non è esportabile in tutto il mondo, se non al costo di distruggere la terra, come non cessano di avvertirci i nostri giovani che guardano al futuro non come a una promessa, ma come a una minaccia. E come si chiedono i quattro quinti dell'umanità che costringiamo a sacrificarsi per la nostra crescita, e che noi continuiamo a respingere se non sono emigrati "politici", ma "economici". Siamo poi sicuri di voler sacrificare la nostra esistenza al mito della crescita che visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori di merci, senz'altro scopo che non sia quello di continuare a crescere, a cui ci invitano sia la moda sia la pubblicità, che ogni giorno ci sollecitano a un "consumo forzato", sotteso al quale possiamo leggere un appello alla distruzione che riempie la terra di rifiuti che non sappiamo più dove mettere? Insensibili al monito di Gunther Anders: «L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via finirà col trattare se stessa come un'umanità da buttar via». E già il Mare Nostrum, come gli antichi chiamavano il Mediterraneo, ne è una testimonianza. Ma ci siamo accorti che l'ideologia della crescita ha già ridotto gli uomini a strumenti impiegabili come momenti della sua organizzazione e, per effetto della crescente disoccupazione giovanile, come mezzi più interscambiabili di qualsiasi altro mezzo? E tutto ciò all'interno di un sistema economico che non ha altra finalità che non sia il proprio potenziamento, misurato dal denaro, che è diventato il generatore simbolico di tutti i valori. E allora, come scrive Franco Totaro in un suo libro Non di solo lavoro (Vita e Pensiero): «I fini dell'economia che punta solo alla crescita sono anche i nostri fìni?». Perché se così non è, al "lavoro come produzione", che guarda solo alla crescita esponenziale senza ragione e senza perché, potremmo pensare a un "lavoro come servizio" che non ha in vista solo beni e merci di cui, rispetto al resto del mondo, sovrabbondiamo, ma anche erogazioni di tempo, di cura e di relazioni.
"Siamo qui fermi malgrado la grave emergenza, come uomini al minimo storico di coscienza".(Giorgio Gaber). "Basterebbe pochissimo. Basterebbe capire che un uomo non può essere veramente vitale, se non si sente parte di qualcosa. Rendersi conto che la crescita del mercato può anche essere indispensabile alla nostra sopravvivenza, ma che la sua inarrestabile espansione ci rende sempre più egoisti e più volgari. Basterebbe abbandonare l'idea di qualsiasi facile soluzione, ma abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trovare finalmente l'audacia di frequentare il futuro con gioia. Perché la spinta utopistica non è mai accorata e piangente. La spinta utopistica è subito. Qui e ora".(Giorgio Gaber). "Essendo fallite tutte le rivoluzioni,l'unico modo per non farsi consumare dal consumismo è quello di digiunare, digiunare da qualsiasi cosa che non sia assolutamente indispensabile, digiunare dal comprare il superfluo. Se venissi ascoltato sarebbe la fine dell'economia. Ma, se l'economia continua a imperversare come fa, sarà la fine del mondo ". (Tiziano Terzani). Grazie per questo post molto prezioso e illuminante,perché particolarmente denso di significato e ricco di importantissime verità. Buona continuazione.
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