"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 gennaio 2022

Eventi. 47 «Le strade, le case, i libri, la musica, perfino la lingua, le parole, sono state inventate dall'infinita schiera dei morti senza nome».

 

“In morte di David Maria Sassoli”, che gli sia lieve la terra. Tratto da “Quando la fine racconta il senso delle nostre vite” di Giacomo Papi, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, venerdì 14 di gennaio 2022: Per capire le persone bisogna immaginarle morte. A me capita di farlo con gli amici e le amiche, quando muoiono, ma a volte anche da vivi. Ho bisogno di allontanarle per vederle davvero, per capire che cos'avevano di speciale, in sé o forse solo per me. In che modo possono essere raccontati. E così vedo la ragazza con cui non ero d'accordo quasi mai perché ne vedevo la rabbia, ma a cui volevo bene proprio perché quella rabbia con cui non ero d'accordo era la fonte della sua intelligenza e dei suoi errori. O quell'altro immenso, che per nascondersi occupava tutto lo spazio, un altro che trasformava ogni gesto in un rito e il grande Gatsby, che per scappare alla morte viveva con così tanta smania da inseguirla. Ogni volta che muore una persona per cui ho provato affetto sento il bisogno di scriverne per descriverla a me stesso. L'obituary costringe a mettere a distanza, per fare rivivere qualcuno attraverso i dettagli. I necrologi a pagamento all'opposto - "death notices", in inglese - sono sempre di circostanza e non mostrano mai niente se non il ruolo sociale, le relazioni e il potere del morto. E infatti nei corsi di scrittura scrivere obituary è utile: raccontare una persona amata a chi non l'ha mai conosciuta obbliga a vedere i particolari rivelatori e a condividerli. Insegna a costruire i personaggi. E però ogni volta mi chiedo che cosa ci sia nei morti di vero e che cosa insegnino ai vivi. È la fine a dare un senso, cioè una direzione, all'inizio. È la fine a raccontare tutto quello che è accaduto prima. (…). Le vite dei santi e degli eroi sono sempre servite a questo, in fondo. Oggi la stessa funzione è svolta dai famosi, (…). Ci si riscalda un po' le ossa infreddolite stringendosi intorno alla pira dei grandi defunti, sentendoci individui e insieme comunità. La morte è il misuratore universale, da sempre. È l'ultimo istante a partire dal quale le nostre esistenze prendono forma e senso, e diventano narrabili. Chi si lamenta del tramonto del sacro e dell'espulsione della morte dall'orizzonte dei vivi non vede che oggi i morti sfilano ora per ora e che tutti, ogni giorno, contribuiamo a un processo di beatificazione istantanea e di massa. I famosi si accavallano ai lutti privati, gli anniversari ai doodle di Google, in un assembramento nuovo perché in passato il dovere dei vivi era concedere ai morti, per quanto umili fossero - Eleanor Rigby, Father McKenzie, il suonatore Jones di Spoon River -, almeno per un istante, il privilegio dell'unicità. Oggi una folla di fantasmi famosi si assembra intorno alla vita. Nel "Ramo d'oro" James G. Frazer racconta che gli antichi ruteni ricavassero flauti dalle tibie dei cadaveri per addormentare i bambini suonando, ma anche per sentire i morti vicini, sospesi nell'aria, intorno alla vita. Non so se sia per via di questo contagio infinito, anche se finirà, che sento la folla dei morti ingrandirsi ogni giorno in un misto di grottesco e tragedia, e circondare tutto quello che c'è. Alla fine del primo capitolo di "Dombey and son" (forse il più bel primo capitolo della letteratura) Dickens evoca "il mare buio e ignoto che avvolge tutto il mondo". Mi pare di tutti i colori, per quanto sbiaditi. Ma esiste, perché intorno a ognuno di noi, che siamo vivi oggi sulla Terra, ci sono quasi venti persone, gli oltre cento miliardi di umani venuti al mondo e morti dall'inizio dell'uomo. Il mondo in cui abitiamo è fatto da loro: le strade, le case, i libri, la musica, perfino la lingua, le parole che ci giriamo in bocca e con cui cerchiamo di comunicare qualcosa di noi agli altri, sono state inventate dall'infinita schiera dei morti senza nome, ed è quindi come se tutto quello che diciamo sia in fondo detto anche da loro, dai morti, un coro in cui nessuno è mai uno solo, per quanto sia solo. L'intimità con i morti dice che, forse, abbiamo un senso anche noi. (…). …troppo spesso parlare dei morti è un modo per parlare di sé, per vantarsi di avere letto Joan Didion prima degli altri (che se fosse vero, avrebbe venduto più di John Grisham), di essere stato l'unico adepto (o adepta) di Trevisan per quanto difficile fosse come uomo e di averglielo anche detto una volta senza purtroppo incidere sui suoi insani propositi o di avere stretto la mano a Sassoli in tempi non sospetti. La commemorazione e l'encomio sono arti antiche e gloriose, umane da sempre. Forse, addirittura, sono l'istinto che ci ha resi uomini. Lo schema con cui oggi commemoriamo gli umani, però, assomiglia alla nostalgia con cui salutiamo le cose, al rimpianto con cui avremmo parlato di Polaroid e Subbuteo, il giorno in cui uscirono di produzione.

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