"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 23 gennaio 2022

Paginedaleggere. 82 «I giovani cercano il divertimento perché non sanno gioire. Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé».

 

Ha scritto Umberto Galimberti in “Qui signora ci occupiamo di didattica, non di problemi psicologici”, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di gennaio 2022: Si diventa professori senza aver mai aperto un libro di psicologia dell'età evolutiva e poi si va a insegnare a ragazzi in età evolutiva, perché non si ritiene che sia compito degli insegnanti affrontare problemi psicologici. Eppure tutti sappiamo che la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore. Quando parlo di "cuore" intendo dire che non si dà apprendimento senza cura dei percorsi emotivi dei ragazzi, che si radicano nella loro provenienza spesso difficile, come nel caso dei figli adottati (che, se vengono adottati, è perché hanno avuto già un'infanzia che non era la più favorevole alla vita), o degli immigrati che oltre alle nozioni impartite dalla scuola devono acclimatarsi a una cultura spesso radicalmente diversa da quella della loro provenienza o addirittura in contrasto con quella che vivono in famiglia. Se la misura è data solo dall'apprendimento e non tiene conto delle diverse condizioni ed esperienze da cui i ragazzi provengono, questa misura è ingiusta. Già Aristotele avvertiva che se la legge, che per sua natura è universale, non tiene conto nella sua applicazione delle differenze individuali, quella legge diventa ingiusta, per cui la giustizia, per essere giusta, deve essere corretta dall'equità, che è la capacità di contemperare l'universalità della legge alle differenze espresse dai singoli casi. Tutto questo la nostra scuola non lo fa e in alcuni casi pone rimedio ricorrendo agli psicologi, ben sapendo che le parole che lo psicologo rivolge allo studente sarebbero molto più efficaci se a rivolgerle fosse il suo insegnante con un minimo di empatia e una sufficiente preparazione psicologica. Ma questo non accade perché, se la misura è solo l'apprendimento, chi non arriva alla misura prevista diventa uno studente bisognoso di cure psicologiche quando non psichiatriche, e così lo si patologizza facendogli credere che è "malato". Ma quanti "malati" ci sono nella nostra scuola visto il gran numero di dislessici, discalculici, dìsgrafìcì, come vengono etichettati tutti quegli studenti che incontrano qualche difficoltà nell'apprendimento. Ed è sempre necessario un insegnante di sostegno in tutti questi casi? O in molti di questi casi l'insegnante di sostegno finisce col veicolare allo studente il messaggio che ha un sé fragile e debole e che per la gestione dell'esistenza avrà sempre bisogno di un tutor se non addirittura di cure terapeutiche? È allarmante se la nostra scuola si assolve trovando giustificazione alle sue scelte o alle sue negligenze in una diagnosi. Di seguito, “Silenzio in aula” di Umberto Galimberti, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di marzo dell’anno 2001: (…). …a partire dall’adolescenza, per un naturale processo psicobiologico, i figli, per emanciparsi dalla famiglia, riducono il loro livello di comunicazione in casa per aprirlo fuori, con quei sostituti genitoriali che finiscono poi con l’essere i professori. Se i professori tacciono perché il loro compito è solo l’istruzione, va da sé che gli studenti si trovano di fronte a un vuoto, a una risposta mancata, che andranno a cercare altrove, ma non a scuola. Non dimentichiamo che a motivare un ragazzo a scuola non è il sapere (che semmai è un mezzo), ma il riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità. Se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male o va così così a scuola, l’identità, che è un bisogno assoluto per ciascun adolescente, la si costruisce altrove, in tutti i luoghi, scuola esclusa, dove è possibile raccattare riconoscimenti. Se poi fuori dalla scuola resta solo la famiglia (che a quell’età è solo l’ambito protettivo da cui, come gli aquilotti, si prova ad uscire) allora l’alternativa o è la strada con quel che la strada può fornire, o è la solitudine non meno pericolosa. (…). L’adolescenza, ognuno c’è passato, è promossa dal desiderio che, proprio in quel periodo di vita ha la sua massima espressione. Adolescenze non desideranti annunciano esistenze mancate, ma il desiderio, ognuno lo sa, è contraddetto dalla realtà che non è costruita apposta per soddisfare desideri. Qui sono possibili due atteggiamenti: o la rimozione della realtà con creazione di un mondo sognante ad essa alternativo, o la frustrazione che, reiterata, annulla l’identità. Il processo di rimozione, molto complicato e pericoloso, è noto ai professori come “distrazione”: “Suo figlio è sempre distratto”. Quasi bastasse un richiamo per fargli accettare la realtà che si oppone alla forza del suo desiderio, e fargli dimettere il sogno senza di cui il desiderio esploderebbe in modo incontrollato nella realtà (…). In questo scontro tra realtà e desiderio in cui si dibatte l’adolescenza, quando non scatta la rimozione della realtà, può scattare la frustrazione che è utilissima per crescere, ma, come tutte le medicine efficaci, va dosata. Un eccesso di frustrazione (…) sposta questa ricerca di riconoscimento senza cui non si costruisce alcuna identità e quindi non si può vivere. Questo spostamento, questa diversione è nota agli adolescenti e ai loro insegnanti come “divertimento”: “Suo figlio pensa solo a divertirsi” dice il professore che neppure sospetta che nel divertimento non c’è la gioia, ma solo la frustrazione. I giovani cercano il divertimento perché non sanno gioire. Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo. Che fa la scuola per tutto questo? La scuola svolge i programmi ministeriali, perché il suo compito non è di educare, ma di istruire, essendo l’educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato necessario dell’istruzione. Ma le cose non stanno proprio così. È semmai l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta; e l’educazione non sono le buone maniere, ma una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti, della gioia di se. Là infatti dove il sapere diventa lo scopo, e il profitto il metro per misurarlo, qualunque siano le condizioni di esistenza in cui una vita è riuscita a esprimersi la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca. E qui non serve invocare la “buona volontà” a cui, come una formula magica, ricorrono i professori nei loro sbiaditi  colloqui con i genitori, perché tutti sanno che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia dello studente esce dagli schemi della psicologia del professore. Per questo basta pochissimo e, se si evita il suicidio, certo non si evita quella demotivazione insidiosa che spegne in giovani vite il rispetto di se.

1 commento:

  1. "Educare la mente senza educare il cuore non è affatto educazione".(Aristotele). "Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco".(William B. Yeats). "Prima si sentono la bontà, l'ostilità, l'indifferenza, l'amicizia e pure la bellezza. Si sentono non attraverso i sensi, ma a dispetto dei sensi". (Jorge Luis Borges). "Un mondo differente non può essere costruito da persone indifferenti".(Peter Marshall). "La più grande gioia della vita è la convinzione di essere amati".(Victor Hugo). "La gioia profonda del cuore è come una calamita che indica il percorso della vita".(Madre Teresa di Calcutta). "Se sarò capace di impedire ad un cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano".(Emily Dickinson). "In ogni gioia profonda c'è sempre un sentimento di gratitudine".(M.von Eber). "La gioia non è nelle cose, è in noi".(Richard Wagner). Carissimo Aldo, un grazie particolare per questo meraviglioso post. Come sai, il pensiero del Professor Galimberti esercita sempre in me un singolare potere di seduzione, ma questa volta mi ha dato anche l'opportunità di tuffarmi in un passato per me sempre vivo e presente...E ciò mi ha fatto rivivere esperienze, momenti ed emozioni importanti, che sono una forte conferma per le mie convinzioni di sempre. Grazie ancora e buona continuazione.

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