Tratto da “Vietato
condannare l'indifferenza dei nostri ragazzi” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di gennaio
dell’anno 2017: Se il mondo che abbiamo creato per loro è immodificabile, perché
dovrebbero darsi da fare? Prima di accusare i giovani d'indolenza, mancanza di
sacrificio e incapacità di promuoversi in qualsiasi attività lavorativa, anche
se non necessariamente connessa con la tipologia dei loro studi, i vecchi, (…),
dovrebbero rendersi conto che forse i giovani sono come (…) li (si) descrive
per effetto del mondo in cui sono nati e cresciuti. Un mondo che noi vecchi, e
più siamo vecchi più siamo responsabili, abbiamo creato per loro. Nessuno di
noi è individualmente responsabile, se non per il fatto di aver lasciato
avanzare, senza contrastarla, una cultura che non ci percepisce più come
"persone", ma come semplici produttori e consumatori, quindi come
funzionari delle merci, dalla cui circolazione si alimenta, come per noi un
tempo, anche l'odierna economia. Con una differenza radicale, che consiste nel
fatto che l'economia dei nostri tempi concepiva il denaro come un
"mezzo" per soddisfare bisogni e produrre beni, oggi invece l'odierna
economia lo concepisce, in modo perverso, come un "fine", per
realizzare il quale, si vedrà se soddisfare i bisogni e in che misura produrre
i beni. Questo capovolgimento, che ha messo da parte l'uomo, i suoi bisogni e i
beni necessari per soddisfarli, per privilegiare dell'uomo unicamente le sue
prestazioni, purché siano funzionali alla produzione del denaro, ha determinato
la miseria estrema dei disperati della Terra che abitano un'Africa la cui
ricchezza non è nelle loro mani, la schiavitù nei Paesi più poveri e più ricchi
dell'Asia, e infine l'espansione della povertà qui da noi, dopo il relativo
benessere di cui abbiamo goduto noi vecchi, non per merito nostro, ma perché ai
nostri tempi l'economia era più reale che finanziaria. Per essere apprezzati
dal mondo finanziario bisogna produrre con il minor costo possibile merci che
si rinnovino nel modo più rapido possibile, per una loro sempre più veloce e
massiccia circolazione sul mercato. Qui subentra il tratto nichilista tipico
della nostra economia, per la quale il consumo dei prodotti non coincide tanto
con la loro fine ma è il loro fine. Le cose vanno condotte alla loro fine nel
modo più rapido possibile, per cui la data di scadenza non l'hanno solo gli
alimentari, ma anche le automobili, i frigoriferi, i televisori, per non parlare
dei telefonini e dei computer. In ciò la nostra economia ha due potenti alleate
che riempiono le pagine e i video dei media: la pubblicità, che quando non si
riesce più a vendere i prodotti interviene per produrre i bisogni che poi
richiedono i prodotti, e la moda, che di anno in anno trasforma beni ancora
funzionanti e utilizzabili in oggetti socialmente improponibili. Come chiamiamo
una cultura che si regge sul consumare e ridurre al nulla nel tempo più rapido
possibile tutte le cose? Io la chiamo nichilista. E non vedo perché i giovani
dovrebbero essere entusiasti di vivere in una simile stagione della storia. E
per giunta senza speranza, per due ragioni: innanzitutto perché gli abbiamo
fatto vedere solo questa, come se non ci fossero altri mondi possibili, in
secondo luogo perché in effetti non ce ne sono davvero, dal momento che, con la
globalizzazione, il mercato ha sottoposto a sé sia i "servi" sia i
"signori", che non possono più contrapporsi come ai nostri tempi, ma
devono allearsi per stare sul mercato, che ormai più nessuno contesta, come se
fosse una legge di natura. Di qui l'invito agli anziani di non pensare che noi
eravamo meglio dei giovani d'oggi, al contrario vivevamo in un mondo
decisamente più umano e meno caratterizzato dai valori di efficienza,
funzionalità, produttività come il mondo che abbiamo creato per loro, e che in
loro non desta alcun entusiasmo. Semplicemente ci fa capire la ragione profonda
del loro lamento, reso tragico dalla consapevolezza dell'impossibilità di
modificare la loro situazione.
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