“Tutto tornava ad essere come prima”, terzo “racconto breve” di
Andrea Camilleri pubblicato su “L’Ora
del popolo” di Palermo del 6 si settembre dell’anno 1949 e custodito a Palermo nell'archivio storico del giornale presso la
Biblioteca Centrale Regionale: La porta si chiuse dietro a Silvio con uno
scatto secco e netto. Solo allora egli capì d’essere di nuovo tornato libero e
la consapevolezza improvvisa di ciò gli diede una felicità violenta e insostenibile.
Libero. Sentì che le gambe gli si piegavano sotto il peso del corpo e che il
cervello gli si intorpidiva: ebbe la sgradevole sensazione di precipitare in un
abisso di tenebra come in certo incubi notturni e per non cadere si dovette
appoggiare con le spalle al muro. Stette dei secondi così con gli occhi chiusi
e la bocca semiaperta, le mani abbandonate lungo le gambe; poi il calore del
muro intriso di sole cominciò dalle spalle ad arrivargli al petto e via via si
propagò per tutto il resto del corpo, rianimandolo e dandogli una certa forza.
Così poté aprire gli occhi e guardare la piazza quasi deserta a quell’ora. Il
sole a picco l’illuminava, l’incendiava addirittura con una ostinazione
caparbia, come se avesse voluto metterne a nudo anche il più segreto angolo e i
palazzi d’intorno si offrivano alla vista scoperti e indifesi, senza che
neppure un filo di ombra li ricoprisse. A Silvio in un primo momento la
prospettiva della piazza parve falsa e contornata, gli sembrò che i muri delle
case si slanciassero a sghembo verso il cielo e che i pochi alberi rinsecchiti
dell’unica aiuola del centro stessero inclinati in un equilibrio assurdo. Ma
questa sensazione non era altro che un effetto ancora dell’ebbrezza che lo
aveva assalito al primo sentirsi libero e che ora a poco a poco svaniva per
cedere il passo ad una sorta di stracco languore, difatti appena egli si mosse,
ogni cosa attorno a lui riacquistò un aspetto normale. Per arrivare fin sul
marciapiede dove c’era la fermata del tram, gli sembrò di avere impiegato
moltissimo tempo. Abituato ormai ai cinque passi per lungo e ai tre per largo
della cella, aveva perduto il senso delle dimensioni assieme a quello del tempo
ed ora, fermo in attesa del vecchio carrozzone cigolante che avrebbe dovuto
condurlo fino alla casa di Clara, non si stancava di guardare la piazza e le
strade che ad essa convergevano e tutto quello spazio a sua completa
disposizione gli rimescolava il sangue, lo turbava. Adesso avrebbe potuto
camminare a lungo per le strade, come faceva un tempo e fermarsi a osservare le
vetrine dei negozi o passare da un marciapiede all’altro senza che nessuno
stesse a contargli i passi, i gesti e forse anche le idee. “Sono assetato di
spazio” – pensò e questo fu il primo pensiero finalmente lucido che poté trarre
dalla confusa ridda di sensazioni e impressioni sino a quel momento avute.
Istintivamente allora, forse per avere un maggiore spazio di cui poteva
saziare, alzò gli occhi al cielo. Subito si sentì riprendere dalla vertigine e
fu grato alla violenza del sole che gli fece abbassare immediatamente gli occhi
altrimenti, se avesse guardato solo per un altro poco, avrebbe cominciato a
vacillare come un ubbriaco. “Devo riabituarmi al cielo - si disse mentre il
tram sbucava lento dall’angolo -. E chissà quando sarò di nuovo in grado di
sopportare la vista del mare”. Dentro il tram si sentì più calmo, più
rasserenato e gli venne naturale allora paragonarsi a un bimbo che muove i
primi passi incerto, spaventato e che solo dentro un lettino ritrova la spontaneità
dei gesti, la sicurezza; ma la sua fantasia si rifiutò di suggerirgli
l’immagine di lui bambino e per un attimo Silvio ebbe la buffa visione di se
stesso così come era in quel momento, con la barba lunga e gli abiti
spiegazzati, in ginocchio dentro una rosea e minuscola culla. Una risata ampia
e spezzata proruppe da le sue labbra e suonò stonata nel tram vuoto. Il
bigliettaio si voltò a guardarlo sorpreso ma egli continuò a ridere convulso,
con le spalle sussultanti come se singhiozzasse e le lacrime che gli correvano
sul viso. Finalmente con uno sforzo poté trattenersi sebbene per tutta la
durata del viaggio continuasse a sentire la risata serpeggiargli dentro
costringendolo a strani movimenti per evitare che traboccasse di nuovo fuori.
Ma quando si trovò dinnanzi alla casa di Clara l’allegria l’abbandonò di colpo
lasciandolo svuotato e come afflosciato su se stesso. Automaticamente, senza
vedere niente, senza un pensiero, soltanto col nome di Clara che gli batteva
frenetico e ritmico nel cervello, salì i gradini e bussò alla porta. Il rumore
dei passi di lei all’interno, lo svegliarono come da un sonno profondissimo e
remoto durato oltre ogni limite di tempo, forse per secoli. Si riscosse e
all’aprirsi della porta si buttò in avanti alla cieca. Serrando Clara contro di
sé s’accorse appena che stava urlando il nome di lei in un impeto incontenibile
che solo il selvaggio aggrapparsi della bocca della donna alla sua riuscì a
frenare. Poi da una distanza enorme sentì che lei chiedeva: “Quando … quando ti
hanno”. “Poco fa” – rispose e guidato da Clara si lasciò condurre nell’altra
stanza, si sedette sul letto. E siccome notò che lei stava per chiedere ancora:
“Non dire nulla per ora” – disse. Tutto tornava ad essere miracolosamente come
prima: nella stanza c’era lo stesso odore e lo stesso disordine di quando lui
l’aveva lasciata e Clara aveva la stessa bocca rossa, lo stesso corpo dritto e
liscio, gli stessi occhi annegati nell’onda dei capelli. Ora il suo sangue
gridava. Senza parlare strinse la donna a sé e si allungò sul letto. E proprio
in quel momento gli parve che il raggio del sole sul pavimento della stanza
fosse diviso a scacchi come da un’ombra di sbarre. Ma doveva trattarsi di un
incubo perché alla finestra non c’era nessuna inferriata.
Nessun commento:
Posta un commento