Ha scritto Michela Murgia in “Nessuna neutralità, lo
sport è politica” - che di
seguito si riporta nella sua interezza -, pubblicato sul settimanale
“L’Espresso” del 4 di luglio 2021: “non esiste niente di umano che non sia
anche politico”. Orbene, una siffatta affermazione, che non può avere
smentita alcuna, è ignorata invece da quello della cosiddetta “Lega” che godeva
nel farsi indicare come il “capitano” – non degno del carattere
maiuscolo -. Nel merito ha scritto Michele Serra in “L’ideologo che non sapeva di esserlo” pubblicato sul quotidiano
“la Repubblica” di martedì 6 di luglio: Il Salvini che invita a riscrivere la legge
Zan “senza ideologia”, un secondo dopo avere invocato “la Santa Sede” e “il
Santo Padre” come testimonial, è veramente uno che trucca le carte. Nessun
leader italiano è più ideologico di lui. Ognuna delle categorie alle quali si
appella ogni minuto secondo (la famiglia tradizionale, le radici cristiane, gli
italiani intesi come entità etnico-nazionalista e non come cittadini del nostro
Paese) è puramente ideologica. È ideologico il manifesto sovranista da lui
appena sottoscritto. Ideologico comiziare con il rosario in mano. Ideologica la
sua alleanza con Orbán. Ideologica la sua predilezione per l’autocrate Putin.
Ideologico perfino citofonare a un ragazzo arabo, in favore di telecamere,
trattandolo da spacciatore in seguito a una diceria di strada. Lo fece nel
quadro della campagna elettorale più ideologica degli ultimi anni: la sua,
quando volle “liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra”. Facendo riscoprire
alla sinistra stessa di esistere. Il Salvini è un uomo della destra radicale
che, di quando in quando, per pura convenienza tattica, vedi l’appoggio al
governo Draghi, simula un pragmatismo che non gli appartiene, e che vale da
specchietto per le allodole per quella parte del suo elettorato che se la passa
da “gente che lavora e non vuole storie”. (Che poi, a ben vedere, anche
“lavorare e non volere storie” è una visione del mondo: dunque è ideologia). La
cosiddetta “fine delle ideologie” è una fola che ci siamo raccontati dopo la
caduta del Muro. Le idee si sono riorganizzate e giocano la loro partita, oggi
più che mai. Bisogna dirlo, però. Fare finta di niente è una forma di
travestimento. Ha scritto Michela Murgia sulla spinosa questione
dell’ambiguo rapporto – storicamente accertato – tra lo sport e la politica: Due
episodi ravvicinati nelle ultime settimane hanno riaperto l’annosa questione
del rapporto tra sport e diritti umani: prima abbiamo assistito al rifiuto Uefa
di colorare lo stadio in rispetto ai diritti negati alla comunità Lgbt, poi
alla brutta scena della nazionale italiana che rifiuta di fare l’atto
dimostrativo contro il razzismo. Ogni volta che un’istituzione sportiva di
qualunque livello dichiara che «lo sport non può essere usato per scopi
politici» verrebbe voglia di prendere per un orecchio chi ha parlato,
trascinarlo a forza fino a un banco di scuola media e tenercelo coattamente
fino a quando non avrà ristudiato da capo gli ultimi 2500 anni di storia, dalle
guerre persiane fino all’ascesa del Terzo Reich. Posto che non esiste niente di
umano che non sia anche politico, se c’è un ambito dove questa affermazione ha
sempre rispettato i più empirici criteri di dimostrabilità è proprio quello
dello sport. Il presidente della Uefa, uno di quelli che oggi pretendono la
neutralità del calcio rispetto alle questioni politiche, da quell’ipotetico
banco di scuola riscoprirebbe forse che la maratona, una delle più antiche
discipline olimpiche, si chiama così proprio per ragioni politiche, giacché
richiama il tratto di strada fatto dal messaggero che doveva annunciare la
vittoria militare greca sulle forze persiane. Ma se anche non volessimo
scomodare l’antichità, basterebbe ricordare quale devastante uso simbolico
hanno fatto dello sport le peggiori dittature del ’900, cogliendo chiaramente
la valenza politica del corpo umano e dei suoi standard di rappresentazione,
sia nelle forme che nelle performance. Il regime di Ceausescu usò per la
propria affermazione internazionale il corpo efficientissimo di Nadia Comaneci,
la giovane ginnasta che aveva costretto i giudici olimpici a inserire il 10 tra
le votazioni possibili, dato che per lei il 9 non bastava. Al suo rientro in
patria Nadia fu trattata da simbolo della rinascita mondiale della Romania e il
figlio di Ceausescu, Nico, la blindò nella sua villa in semi prigionia e ne
abusò per anni, forse nella convinzione che l’eccellenza della ragazza potesse
trasferirsi a una intera nazione, cominciando da lui. È però col fascismo e il
nazismo che il corpo umano e i suoi pretesi standard di perfezione si legano
indissolubilmente al tema del razzismo. Le teorie della razza, la presunta
inferiorità e la negazione dell’umanità stessa dei non ariani si serviranno
prepotentemente delle attività sportive di massa, nelle quali il corpo degli
atleti e delle atlete, ma anche delle persone comuni costrette a far ginnastica
coram populo, venne ostentato come il corpo stesso della nazione. Sbaglieremmo
però ad ascrivere solo alle dittature scomparse il problema del razzismo e
infatti gli atleti e le atlete impegnati sui diritti umani quell’errore non lo
hanno mai fatto. L’iconico gesto di protesta contro il razzismo dei tre
corridori, due afroamericani e un bianco australiano, alle Olimpiadi di Messico
’69 era rivolto alla situazione negli Stati Uniti, non alla Germania del Terzo
Reich. Vale la pena ricordare a proposito anche un altro episodio, quello delle
olimpiadi di Berlino del ’36, che riguardò la medaglia d’oro vinta da Jesse
Owens nei 100 mt piani. Per molto tempo la vulgata occidentale ha raccontato
una versione dei fatti del tutto falsa che serviva a confortare la divisione
semplicistica del mondo in buoni e cattivi: si disse infatti che Hitler non
aveva voluto stringere la mano all’atleta nero per disprezzo razziale. Oltre a
svariati testimoni, fu anche lo stesso Owens a smentire il fatto, specificando
che era stato piuttosto Franklin Delano Roosevelt a evitare di incontrarlo dopo
la vittoria: «Non mi inviò nemmeno un telegramma». Basterebbe questo episodio a
dimostrare come la questione del razzismo sia trasversale, persistente e
tutt’altro che superata e che lo sport, che per molto tempo è stato usato dai
potenti per affermare supremazie e divisioni, oggi porta una monumentale
responsabilità: non quella di non schierarsi, ma di farlo scegliendo finalmente
di farsi voce dei deboli, anziché simbolo dei forti.
Nessun commento:
Posta un commento