"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 8 luglio 2021

Notiziedalbelpaese. 19 «La cosiddetta “fine delle ideologie” è una fola che ci siamo raccontati dopo la caduta del Muro».

 

Ha scritto Michela Murgia in “Nessuna neutralità, lo sport è politica” - che di seguito si riporta nella sua interezza -, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4 di luglio 2021: “non esiste niente di umano che non sia anche politico”. Orbene, una siffatta affermazione, che non può avere smentita alcuna, è ignorata invece da quello della cosiddetta “Lega” che godeva nel farsi indicare come il “capitano” – non degno del carattere maiuscolo -. Nel merito ha scritto Michele Serra in “L’ideologo che non sapeva di esserlo” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di martedì 6 di luglio: Il Salvini che invita a riscrivere la legge Zan “senza ideologia”, un secondo dopo avere invocato “la Santa Sede” e “il Santo Padre” come testimonial, è veramente uno che trucca le carte. Nessun leader italiano è più ideologico di lui. Ognuna delle categorie alle quali si appella ogni minuto secondo (la famiglia tradizionale, le radici cristiane, gli italiani intesi come entità etnico-nazionalista e non come cittadini del nostro Paese) è puramente ideologica. È ideologico il manifesto sovranista da lui appena sottoscritto. Ideologico comiziare con il rosario in mano. Ideologica la sua alleanza con Orbán. Ideologica la sua predilezione per l’autocrate Putin. Ideologico perfino citofonare a un ragazzo arabo, in favore di telecamere, trattandolo da spacciatore in seguito a una diceria di strada. Lo fece nel quadro della campagna elettorale più ideologica degli ultimi anni: la sua, quando volle “liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra”. Facendo riscoprire alla sinistra stessa di esistere. Il Salvini è un uomo della destra radicale che, di quando in quando, per pura convenienza tattica, vedi l’appoggio al governo Draghi, simula un pragmatismo che non gli appartiene, e che vale da specchietto per le allodole per quella parte del suo elettorato che se la passa da “gente che lavora e non vuole storie”. (Che poi, a ben vedere, anche “lavorare e non volere storie” è una visione del mondo: dunque è ideologia). La cosiddetta “fine delle ideologie” è una fola che ci siamo raccontati dopo la caduta del Muro. Le idee si sono riorganizzate e giocano la loro partita, oggi più che mai. Bisogna dirlo, però. Fare finta di niente è una forma di travestimento. Ha scritto Michela Murgia sulla spinosa questione dell’ambiguo rapporto – storicamente accertato – tra lo sport e la politica: Due episodi ravvicinati nelle ultime settimane hanno riaperto l’annosa questione del rapporto tra sport e diritti umani: prima abbiamo assistito al rifiuto Uefa di colorare lo stadio in rispetto ai diritti negati alla comunità Lgbt, poi alla brutta scena della nazionale italiana che rifiuta di fare l’atto dimostrativo contro il razzismo. Ogni volta che un’istituzione sportiva di qualunque livello dichiara che «lo sport non può essere usato per scopi politici» verrebbe voglia di prendere per un orecchio chi ha parlato, trascinarlo a forza fino a un banco di scuola media e tenercelo coattamente fino a quando non avrà ristudiato da capo gli ultimi 2500 anni di storia, dalle guerre persiane fino all’ascesa del Terzo Reich. Posto che non esiste niente di umano che non sia anche politico, se c’è un ambito dove questa affermazione ha sempre rispettato i più empirici criteri di dimostrabilità è proprio quello dello sport. Il presidente della Uefa, uno di quelli che oggi pretendono la neutralità del calcio rispetto alle questioni politiche, da quell’ipotetico banco di scuola riscoprirebbe forse che la maratona, una delle più antiche discipline olimpiche, si chiama così proprio per ragioni politiche, giacché richiama il tratto di strada fatto dal messaggero che doveva annunciare la vittoria militare greca sulle forze persiane. Ma se anche non volessimo scomodare l’antichità, basterebbe ricordare quale devastante uso simbolico hanno fatto dello sport le peggiori dittature del ’900, cogliendo chiaramente la valenza politica del corpo umano e dei suoi standard di rappresentazione, sia nelle forme che nelle performance. Il regime di Ceausescu usò per la propria affermazione internazionale il corpo efficientissimo di Nadia Comaneci, la giovane ginnasta che aveva costretto i giudici olimpici a inserire il 10 tra le votazioni possibili, dato che per lei il 9 non bastava. Al suo rientro in patria Nadia fu trattata da simbolo della rinascita mondiale della Romania e il figlio di Ceausescu, Nico, la blindò nella sua villa in semi prigionia e ne abusò per anni, forse nella convinzione che l’eccellenza della ragazza potesse trasferirsi a una intera nazione, cominciando da lui. È però col fascismo e il nazismo che il corpo umano e i suoi pretesi standard di perfezione si legano indissolubilmente al tema del razzismo. Le teorie della razza, la presunta inferiorità e la negazione dell’umanità stessa dei non ariani si serviranno prepotentemente delle attività sportive di massa, nelle quali il corpo degli atleti e delle atlete, ma anche delle persone comuni costrette a far ginnastica coram populo, venne ostentato come il corpo stesso della nazione. Sbaglieremmo però ad ascrivere solo alle dittature scomparse il problema del razzismo e infatti gli atleti e le atlete impegnati sui diritti umani quell’errore non lo hanno mai fatto. L’iconico gesto di protesta contro il razzismo dei tre corridori, due afroamericani e un bianco australiano, alle Olimpiadi di Messico ’69 era rivolto alla situazione negli Stati Uniti, non alla Germania del Terzo Reich. Vale la pena ricordare a proposito anche un altro episodio, quello delle olimpiadi di Berlino del ’36, che riguardò la medaglia d’oro vinta da Jesse Owens nei 100 mt piani. Per molto tempo la vulgata occidentale ha raccontato una versione dei fatti del tutto falsa che serviva a confortare la divisione semplicistica del mondo in buoni e cattivi: si disse infatti che Hitler non aveva voluto stringere la mano all’atleta nero per disprezzo razziale. Oltre a svariati testimoni, fu anche lo stesso Owens a smentire il fatto, specificando che era stato piuttosto Franklin Delano Roosevelt a evitare di incontrarlo dopo la vittoria: «Non mi inviò nemmeno un telegramma». Basterebbe questo episodio a dimostrare come la questione del razzismo sia trasversale, persistente e tutt’altro che superata e che lo sport, che per molto tempo è stato usato dai potenti per affermare supremazie e divisioni, oggi porta una monumentale responsabilità: non quella di non schierarsi, ma di farlo scegliendo finalmente di farsi voce dei deboli, anziché simbolo dei forti.

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