Lo scritto di Umberto Galimberti di seguito riportato
– “Come si misura la capacità di
pensare?” –, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” di
sabato 10 di luglio, rappresenta, a buon vedere, il prosieguo al post numero 95
del 15 di luglio ultimo che ha per titolo «Chattando,
si ha la possibilità di realizzare virtualmente ciò che si vorrebbe ma non si
riesce a essere»: Il metro è nel numero di parole che
possediamo. Siamo tornati ai geroglifici perché ci mancano le parole. Ricordo
che nel 1976 un sondaggio aveva stabilito che un ginnasiale conosceva 1.600
parole. Ripetuto vent’anni dopo, il sondaggio constatava che un ginnasiale ne
conosceva 640. Oggi penso che ne conosca 300 o giù di lì, e impieghi una
parola, che qui non riporto, ma che tutti possono immaginare, che serve per esprimere
tutta la gamma delle emozioni: dalla gioia alla delusione, dalla vittoria alla
sconfitta, dall’ira alla noia, dall’entusiasmo allo sconforto e via dicendo. La
povertà del linguaggio denota la povertà del pensiero, perché il linguaggio,
come giustamente osserva Heidegger, non è uno strumento per esprimere i nostri
pensieri, dal momento che noi non possiamo pensare qualcosa se non disponiamo
della parola corrispondente. Noi possiamo pensare limitatamente alle parole che
possediamo. E se ne possediamo poche, pensiamo poco. Il dire comune eleva i
geroglifici al rango di simboli, perché non conosce la differenza tra un
“simbolo” che, come ci ricorda Jung, rinvia a qualcosa di ignoto o di non
ancora scoperto, e un “segno” che sta al posto della cosa segnalata. Il
tricolore, ad esempio, non è il simbolo dell’Italia, ma il segno dell’Italia,
perché è noto e senza equivoci ciò a cui rinvia. I geroglifici sono segni
utilizzati o perché non c’è tempo per rispondere a un messaggio, o perché non
si è in grado di comporre una frase che sia adeguata al messaggio ricevuto. Nel
primo caso è un segno di maleducazione che comunica all’altro “non ho tempo per
te”. Nel secondo caso il geroglifico segnala all’altro che non possediamo
sufficienti parole per comporre una frase che sia come minimo decente. Non
parliamo poi dei “vocali” che esonerano dal buon uso della grammatica e della
sintassi, oltre a costringerci a destreggiarci col telefonino, disponendolo di
fronte o all’orecchio per poterlo sentire senza perdere troppi passaggi. Ma il
geroglifico ci segnala un'ulteriore perdita di cui non siamo neppure
consapevoli. La scrittura alfabetica, infatti, obbliga il nostro cervello a
tradurre dei segni grafici in immagini. I segni grafici “c” “a” “n” “e”
nell’immagine del cane. Se invece dei segni grafici usiamo direttamente
l’immagine, il nostro cervello è esonerato dal compiere questa traduzione. E
con questo esonero si comincia fin dalle scuole elementari, con i libri che ai
miei tempi erano pieni di parole e adesso sono strapieni di immagini corredate
da poche parole. Se questo è il modo di allenare il cervello? Negli ultimi
trent’anni siamo traghettati in una fase dove le cose che sappiamo, dalle più
elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle
“lette” da qualche parte, ma semplicemente di averle “viste” in televisione, al
cinema, sullo schermo di un computer o di un telefonino, oppure “sentite” dalla
viva voce di qualcuno, dalla radio o da un auricolare inserito nelle nostre
orecchie. A questo punto vien da chiedersi: quanto la strumentazione tecnica
modifica il nostro modo di pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo
perdendo per effetto di questo cambiamento? Naturalmente “guardare” è più
facile che “leggere” (addio cari libri). L’homo sapiens, capace di decodificare
segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato
dall’homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini,
con conseguente impoverimento del capire. E com’è noto, una moltitudine che
“non capisce” è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a
manipolare le folle.
Nessun commento:
Posta un commento