A lato. "Passeggiata lungo il fiume", penna ed acquerello (2021) di Anna Fiore.
Ha scritto Maurizio Maggiani in “Il coraggio del pettirosso” - (2014),
Feltrinelli editore -: Non so che opinione voi abbiate della
musica, cosa vi piace sentire, cosa vi mette in moto dentro. Per me allora –
come oggi, immagino, se solo potessi ascoltarne – era il mare dove i miei
sentimenti potevano nuotare all’impazzata, liberi e allegri. Vi ho già detto
che mi piace immensamente nuotare; ci sapevo fare già da piccoletto, quando
tutti gli altri bambini strillano appena la schiuma della battigia gli
solletica gli stinchi. Io non so stancarmi del nuoto: è la felicità del mio
corpo, è il mio corpo che si piglia la sua libertà di rotolarsi, di stirarsi,
di fluidificarsi, leggero come un uccello. Non mi dà nessuna soddisfazione
l’acqua del fiume o del lago, voglio le onde del mare, il movimento cosmico che
abbraccia il mio movimento, un corpo di membra immense che mi prende con sé
come una balia tiene tra le pieghe morbide del suo grande corpo un neonato.
Bene, la musica fa alla mia anima quello che il mare fa al mio corpo. Io ci
nuoto dentro la musica, mi tuffo di testa e di schiena, mi immergo e risalgo,
ci vado lontano con il crawl, il dorso, la rana.
Tratto da “La rabbia e la vergogna” di Maurizio
Maggiani, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi mercoledì 28 di
luglio 2021: (…). Vallo a sapere, magari sono stati degli schiavi a stampare tutti
quanti i miei romanzi; le mie storie così colme di aneliti libertari, così
madide di empatia per gli ultimi, per i senza voce, sono finite tra le mani
delle brave persone che le hanno volute leggere perché a farne degli oggetti
acquistabili sono stati degli umani violati, picchiati, derubati e privati di
ogni dignità perché fosse contenuto al minimo possibile il prezzo di copertina.
Ho schifo, sì, ma tanto per cominciare ho schifo di me stesso. Di me che non ho
avuto mai cura di chiedermi chi li avesse materialmente fatti i miei libri, di
chi fossero le mani e le vite di quelle mani, vite di lavoratori. Ho schifo di
me, che sono così attento al Dop all'Igp, al Doc, di me che guardo bene le
etichette di scarpe e camicie onde arrivare alla quasi certezza che non si
tratti di opera di bambini, di me che coltivo io stesso i pomodori e con grande
orgoglio in casa si fa la conserva, così che non ci sia alcun dubbio
sull'estraneità allo sfruttamento della manodopera agricola, altri schiavi.
Ecco, sto attento a quasi tutto, mi è solo mancato l'interesse per ciò che più
mi dovrebbe riguardare, come se non sapessi che il mio lavoro, perché questo mi
vanto di essere, un onesto lavoratore, è parte di una catena, e posso anche
vantarmi di vendere la mia opera d'ingegno e non le mie mani, ma nella catena
niente mi autorizza a distinguermi da un altro lavoratore, niente mi autorizza
a stare sopra, o distinto, o ignaro. Ho iniziato la mia carriera di
rivoluzionario occupando la mia scuola nell'inverno del '68, una cosa piuttosto
dura, al portone non c'erano le mamme ma il battaglione della Celere, a
portarci cibo e coperte, a discutere con noi e cercare di farci ragionare un
filo più concretamente del vogliamo tutto, vennero gli operai dei cantieri
navali e dell'arsenale militare; pareva a loro che, così differenti come
eravamo, non ci fosse distanza e estraneità tra ciò che chiedevano nelle loro
lotte sindacali e ciò che noi non sapevamo che sognare e pretendere, eravamo
alla vigilia del contratto unico, delle grandi riforme sociali, vigilia di
grandi vittorie. Io vengo da lì, quello che sono è da lì che è cominciato ad
essere, e ora che siamo ai postumi delle grandi sconfitte, e a parte i pochi
privilegiati come me, il lavoro è per la massima parte venduto al peggior
offerente alle peggiori condizioni semplicemente perché non ce n'è di migliori,
come ricambio le coperte, il cibo e le parole, la generosa fraternità di un
tempo? Posso dire che non ho controllo della catena, che l'ignoranza del suo
funzionamento ne è addirittura parte essenziale, e è vero, come è vero che
neppure il mio editore e i suoi colleghi, i lettori e i librai non hanno
strumenti per sapere. Ecco, forse è venuto il momento di smetterla di non
sapere, se non ci sono strumenti cercarli, smetterla di aspettare di farci dire
come stanno le cose dai giudici e dai carabinieri, come se fossero gli unici a
poter vedere. Io non so che parlare per me, e per me posso solo dire che,
ringraziando Iddio, ho smesso da un bel pezzo di firmare appelli,
risparmiandomi almeno questa ipocrita inanità a costo zero; ma come onesto
lavoratore non ho mosso un dito per gli altri onesti lavoratori, e ho ben
ragione di farmi un po' schifo. Se poi dovessi pensare che questo che ho appena
scritto basta a poter dire che ho fatto la mia parte, allora non mi guadagno
nemmeno lo schifo. Parlo per me, ma mi permetto di porre la seguente domanda ai
miei colleghi venditori di opere di ingegno, come all'art. 53, 2° c. lett. b)
DPR 917/86, testo unico Imposta diretta: val la pena di scrivere bei libri
pieni di buoni pensieri e storie avvincenti e finali struggenti, se poi per
farli leggere abbiamo bisogno del lavoro degli schiavi?
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