Il 17 di luglio dell’anno 2019 Andrea Camilleri ci
lasciava. Di seguito, “Variazioni su di
un ritorno”, quarto “racconto breve” di Andrea Camilleri pubblicato su “L’Ora
del popolo” di Palermo dell’8 di settembre dell’anno 1949: “Lasciatemi solo”. Voltandosi,
aveva visto che i suoi vecchi soldati ancora lo seguivano quasi
automaticamente, attratti ormai in questo essergli sempre vicini non più da
quel senso di sicurezza e di guida certa che egli sapeva emanare soprattutto
nei tanti momenti difficili trascorsi, ma come da un uso inveterato, da una
abitudine ormai fattasi logora e della quale non si potesse più fare a meno. Per
una improvvisa illuminazione interiore egli aveva capito tutto questo e la
frase gli era salita da se stessa sulle labbra, troppo spontanea per essere
stata meditata. Ma ormai era troppo tardi per riparare in un modo qualsiasi e,
alzando gli occhi che aveva tenuto fissi a terra nel pronunziare quelle parole,
Ulisse guardò in viso ad uno ad uno i suoi soldati: notò allora in quei volti
che egli aveva imparato a conoscere in ogni loro minima sfumatura di
espressione, un senso di sorpresa e di attesa incerta. “Lasciatemi solo, dico”
– ripeté a voce bassa e trattenuta, la voce che i soldati sapevano essere
quella delle ore di pericolo o di tensione, per averla udita ben altre volte.
Poi voltò loro le spalle e cominciò a salire per lo stretto viottolo che
portava alla sua casa. La giornata era chiara di una bellezza quasi innaturale,
appena appena percorsa da un timido filo di vento: altre volte, vedendo delle
giornate simili a quella dall’alto del ponte di comando della sua nave, Ulisse
s’era sentito slargare il cuore nel petto e un’irrefrenabile ebbrezza
percorrergli le vene frammista al sangue; ma ora non provava questa sensazione,
anzi avvertiva una strana stanchezza pesargli addosso come se avesse finito
allora di fare una lunga corsa e proprio dal cuore gli veniva un leggero
affanno nel respiro. Sentì immediato il bisogno di riposarsi e sedette su d’una
pietra che era all’ombra di un albero, quasi un sedile. Attorno a lui si
elevavano le “sue” montagne. Quando era partito, tanti anni prima, aveva
dimenticato di guardare le montagne della sua terra perché i suoi occhi erano
rimasti come legati fino all’ultimo istante a quelli di sua moglie che lo
salutava in lacrime. Il ricordo dello sguardo d’addio di Penelope gli era
tornato alla memoria, per sere e sere prima di potersi abbandonare al sonno:
era stata insomma l’unica ricchezza che egli credeva di avere portato dentro di
sé dalla sua terra, dalla sua casa, per salpare per una guerra lunga e dubbia.
Ma una notte, sotto le mura di Troia, chiuso nella sua tenda, egli aveva
sentito da una qualche parte dell’accantonamento levarsi una di quelle tristi
canzoni dei montanari che dicono della malinconia e della bellezza delle
montagne, delle nevi su di esse, dei tremolanti falò notturni. E allora aveva
compreso come egli avesse voluto apposta dimenticare le montagne: per non
sentire un richiamo troppo forte che gli avrebbe reso impossibile la
lontananza. Ma da quella notte in poi, all’ora del rancio serale, si era seduto
tra i suoi soldati perché quella era l’ora nella quale i ricordi prorompevano e
il trattenerli faceva male al cuore. E con le semplici parole dei soldati s’era
abbeverato in una tristezza sconsolata che gli faceva male e bene nello stesso
tempo. Poche ore prima, vedendo profilarsi all’orizzonte le montagne di Itaca,
egli s’era sentito scivolare in una commozione infantile, inadatta a un uomo
come lui: ma ora che avrebbe potuto stampare i suoi passi su queste tanto
sognate montagne, la commozione se n’era andata lasciandogli un vuoto dentro.
La delusione di tutti i ritorni. Un giorno di tempesta egli ricordò, che la
nave dovesse affondare di momento in momento e tutti gli uomini si
raccomandavano al cielo perché potessero tornare a riabbracciare le spose e i
figli, s’era incontrato faccia a faccia sul ponte con Patroclo, il più giovane
dei suoi soldati. Proprio in quel momento si era levata un’onda immane a
spazzare la nave ed egli gli aveva urlato: “Aggrappati alle corde!”. E subito
aveva visto invece Patroclo abbandonare le corde e gridandogli in viso: “Non
voglio tornare” lasciarsi prendere dall’onda e sbattere in mare. Allora non aveva
capito quel gesto, ora sentiva però di comprenderlo pienamente. Si alzò adagio
e riprese a camminare per il viottolo. Non voleva pensare più a niente, ora
sapeva quanto facile fosse il suo cuore a mettersi per la china dei ricordi.
Tanto, ormai era giunto. Entrò nel cortile e lo vide deserto. Si fermò
esitante. Da un angolo allora un cane si mosse con lentezza, venne traballando
verso di lui. Ulisse subito lo riconobbe: era il suo cane, vecchissimo, un
miracolo che fosse ancora vivo. Non provò però alcun senso di contentezza e
respinse con fastidio l’animale che gli si voleva strofinare addosso. Mosse
alcuni passi e fu dentro la sua casa. Udì il suo nome gridato a voce altissima
e si trovò con Penelope tra le braccia delirante, impazzita. Sentì la gioia della
donna cozzare contro il suo corpo come contro un muro e ritornare indietro,
respinta. In quell’attimo il suo sguardo si fissò su di una finestra aperta che
era dietro le spalle di Penelope: nel riquadro, lontano, si affacciava un lembo
di mare azzurro di una dolcezza invitante.
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