Ha scritto Michela Murgia in “Noi che abbiamo visto Genova 2001” pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
del 20 di giugno 2021: È difficile spiegare lo sconcerto che si
prova quando, a tavola tra diverse generazioni, le persone più grandi parlano
di un fatto storico per loro portante e d’improvviso si rendono conto che i
ventenni presenti non sanno minimamente di cosa si tratti. Se poi l’argomento è
il G8 di Genova del 2001, di cui tra un mese esatto ricorre il ventesimo
anniversario, lo sconcerto decuplica. Come è possibile che persone nate in
Italia nello stesso anno dei fatti della Diaz e di Bolzaneto sappiano tutto
dell’attentato alle torri gemelle e niente della più grave violazione dei
diritti umani perpetrata da sedicenti servitori dello stato nell’Europa
democratica del dopoguerra? Come è potuta bastare appena una generazione per
perdere la memoria di un orrore così grande che persino i protagonisti delle
violenze lo hanno definito “macelleria messicana”? La ragione è nella stessa
incredulità delle persone della mia età, il cui stomaco si chiude ancora al
solo sentir nominare Genova. Perché noi c’eravamo. Noi abbiamo visto centinaia
di esaltati in divisa menar colpi alla cieca sulla folla inerme che
manifestava. Abbiamo presenti i volti dei corrispondenti di Indymedia ridotti a
poltiglie insanguinate dalle manganellate e dai calci alla Diaz, i loro timpani
sfondati dai colpi, le ossa rotte, i denti sul pavimento. Abbiamo visto i
tribunali decretare che le bombe molotov ritrovate nella scuola erano state
messe ad arte da poliziotti per giustificare l’assalto. Abbiamo ascoltato le
testimonianze delle torture subite da uomini e donne di tutte le nazionalità
per mano di membri delle forze dell’ordine italiane e ci risuona ancora nelle
orecchie il grido della poliziotta che all’annuncio dell’omicidio di Carlo
Giuliani esultò dicendo: «Uno a zero per noi». Siamo statǝ testimoni di tutto
questo, eppure non siamo riuscitǝ a raccontarlo nemmeno ai nostri figli e alle
nostre figlie, perché ci vergogniamo. A farci vergognare non sono le violenze e
le torture compiute da centinaia di membri delle forze dell’ordine - polizia e
carabinieri - delle quali devono vergognarsi casomai loro. L’imbarazzo che
rende difficile parlare ai più giovani di Genova è di natura democratica e
deriva dall’omertà totale che ha coperto la catena di comando che diede gli
ordini per gli assalti e i pestaggi e soprattutto dalla mancata assunzione di
responsabilità politica e istituzionale su quello che accadde. A tutt’oggi non
solo la maggioranza dei membri delle forze dell’ordine protagonisti delle
violenze non ha mai visto il carcere - grazie a prescrizioni, patteggiamenti e
a un comodo indulto approvato ad hoc cinque anni dopo - ma molti di loro dopo
le pene minime sono tornati in servizio e hanno persino fatto carriera. L’ultimo
esempio è quello di Pietro Troiani e Salvatore Gava, condannati rispettivamente
per aver messo le due molotov alla Diaz e per averne certificato il falso
ritrovamento, ma promossi vicequestori l’anno scorso con una decisione
giustificata come scatto automatico di carriera. Nessun politico si è mai
assunto la responsabilità di aver dato l’ordine dei pestaggi, sperando forse
che credessimo alla favola delle mele marce (centinaia?) nel cesto sano. La
macelleria di Genova non ha mandanti dichiarati e i vari governi succedutisi
durante i processi, indipendentemente dalla maggioranza di cui erano espressione,
hanno sempre impugnato i risarcimenti relativi alle condanne per i fatti del G8
che coinvolgevano forze dell’ordine e rappresentanti dello stato. È per colpa
di queste cose se ora ci vergogniamo. Quello che non riusciamo a dire ai nostri
figli non è che le violenze del 2001 siano accadute, ma che potrebbero accadere
ancora, perché le istituzioni non hanno preso mai la distanza necessaria per
restituirci la fiducia nel fatto che non fossero state decise a monte. Questo
silenzio va vinto, perché è nell’oblio e nella manipolazione della memoria che
il fascismo facilmente rifiorisce. Sedetevi dunque a tavola coi ventenni e
parlate, anche se dovrete farlo con lo stomaco chiuso come una noce e con
quella faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così che abbiamo noi che
abbiamo visto Genova. La “memoria” dei tristissimi giorni (19
– 22 di luglio ) di Genova dell’anno 2001 di Maurizio Maggiani - “La
tenerezza e il dolore” - pubblicata
sul quotidiano “la Repubblica” di ieri domenica 18 di luglio 2021: Io
ero lì, nel mezzo. Vivevo lì, lavoravo lì, ci amavo una donna lì, intanto che
andavo amando la città della meraviglia, intanto che esploravo palmo a palmo la
città delle complicazioni, bellezza e relitti ovunque, antica bagascia,
verginità senza fine. Vivevo nello stupore a Genova in quel tempo. Nel mezzo,
in un vico, in una fessura tra Porta Siberia e le Mura di Malapaga, una
finestra sullo splendore del Porto Antico e una sulla ruggine dei cantieri
navali. Munito del prezioso pass per residente che si è rifiutato di sloggiare,
e del pericoloso pass stampa, stavo nel mezzo della Zona Rossa. Dentro le mura
di ferro a un passo dai grandi del mondo. La città incatenata, la città del
silenzio, dal 19 al 22 luglio di vent’anni fa. Ero nel mezzo, nel posto meno
adatto per una visione, scrutare e capire, il più adatto per sapere tutto
quanto nel modo meno esemplare e più ovvio, vivendoci. E quando ci penso,
quando mi chiedono e mi ci fanno pensare, io quello che so dire di come ho
vissuto non piace a nessuno, non piace a quelli che vogliono coscienza
d’insieme dei fatti, lucida analisi, pronto giudizio su tutto ciò che è stato.
Io ho pianto, rispondo, quello che mi ricordo di più è quanto ho pianto. E non
piangevo da vent’anni, non sono facile alla frigna. Sì, il nove maggio del 1978
ho pianto al cospetto del portellone della Renault R4, al corpo riverso di un
uomo ammazzato; ho pianto di disperazione per me, per la mia generazione, ho
pianto perché con quell’uomo ogni promessa della Repubblica della mia promettente
giovinezza era morta, disdetta, annientata per sempre, fine pena mai. E dopo
due decenni ecco che mi ritrovo a piangere, irragionevolmente in un luogo di
allegria, al concerto augurale, auguri non per i Grandi del Mondo in procinto
di riunirsi per la consueta manfrina, ma per i Piccoli della Terra in assemblea
globale, i ragazzi del World Social Forum, quelli che la stampa di allora
annunciava come la terza potenza mondiale. Cantava Manu Chau, il loro
trovadore, cantava la loro ballata, Clandestino, “solo voy con mi pena sola va
mi condena, correr es mi destino para burlar la ley…”; risultò in quell’anno
2001 che fosse la canzone più cantata al mondo. Ho pianto di tenerezza quella
sera, per i figli della generazione degli sconfitti e del tradimento che si
erano dati alla vita sicuri di un nuovo destino, promettenza e candore. Li
guardavo e li vedevo uno diverso dall’altro, una complessità ignota a chi aveva
potere sul loro presente e sul loro futuro, espulsa dai conti di chi li
governava, estranea ai loro piani. Clandestini anche loro, la terza potenza
mondiale in clandestinità. Quei ragazzi erano semplicemente trasparenti; quello
che la sinistra di governo di questo Paese aveva saputo offrirgli era stato il
caldo invito a non rompere le scatole, a sparire finché non si sarebbe
provveduto, quello che offrirà la destra lo vedranno di lì a pochi giorni. E
cercavo di incontrare quanti più sguardi, quante più parole, e non trovavo
traccia di frustrazione, di rabbia, di vuoto, di violenza repressa; come è possibile?
Non era quella la generazione del niente, non erano quelli il vero problema dei
potenti della Terra che stavano innalzando una fortezza nel mezzo della città
per impedire ai loro occhi anche solo di guastarsi la vista? Tenerezza per loro
e per la città che tutti loro vedranno per la prima volta e troveranno il
deserto, e in fondo al deserto le truppe di polizia in assetto di guerra.
Tenerezza per l’orgoglio svillaneggiato della città a cui era stata sequestrata
l’occasione di un gesto di ospitalità che poteva essere ricordato ovunque nel
mondo per molto tempo. Finiti i lavori di addobbo e decoro, dileguati gli
scalpellini, i tinteggiatori, gli illuminatori, sono arrivati gli squadroni
dell’ordine e ha avuto inizio il lavoro di pulizia, il repulisti di ogni
sospetto inciampo, il sigillo a ogni tombino, l’ossessivo paranoico controllo
di ogni genere di difformità nello sguardo, nel vestiario, nella marca dello
zainetto. E hanno preso a battere casa per casa, negozio per negozio, scagno
per scagno per gentilmente insistere a dileguare, a chiudere, a sfollare a
villeggiare fuori di qui, dal perimetro d’oro, dalla Zona Incontaminabile, da
ovunque in città, perché ovunque ci sarebbe stata contaminazione. E sì, non mi
vergogno di aver pianto quando, nel cuore della notte mi hanno svegliato i
clangori dei ciclopi motorizzati che hanno eretto le barriere a prova di tutto;
da questo momento la città superba per bellezza e libertà è un di qui dove non
deve soffiare una mosca e un di là dove se ne andassero tutti a fanculo. Già
alla mattina al varco blindato di piazza Cavour ho trovato dei fiori legati a
ghirlanda tra le sbarre, alle otto una vecchia gli si era aggrappata a salutare
la figlia di là, la figlia aveva portato pane, latte e medicine, il pane non
passava le sbarre, un vecchio di qua intanto sibilava, Visnù è incazzato, loro
non lo sanno quanto si è incazzato Visnù. Di qua, nella Zona Morta, sono
rimasti solo i vecchi e i pazzi. E non mi vergogno nemmeno di aver riso fino al
pianto la mattina dopo, quando si è palesata in tutta la sua austera bellezza
via XX tirata a nuovo e cosparsa di monticelli di merda; lo squadrone della
polizia a cavallo, la guardia d’onore, si era disposto ad accogliere il corteo
delle berline presidenziali, un ufficiale urlava nel radiotelefono l’ordine per
le pale, dove sono quelle cazzo di pale? E da Sarzano arrivava musica così
forte e allegra da coprire anche la merda, l’avanguardia dei devastatori tanto
attesa stava dando festa per i cladestinos, non riuscivo a capire quanti
fossero, non riconoscevo neppure molte delle lingue che parlavano, un barbuto
mi ha messo in mano un volantino in inglese dei volontari della pace
israeliani, le suore di Boccadasse con un banchetto vendevano magliette, c’era
scritto: un solo padre, sei miliardi di fratelli. Un plotone di tute bianche si
spartisce una montagna di focaccia dell’unico forno aperto, un applauso copre
la musica, dalle finestre di una nota casa patrizia appare una lunga fila di
bucato, sono mutande, mutandine, mutandoni, è l’aristocrazia genovese che non
tollera le critiche del primo ministro al decoro cittadino, via il bucato dalle
finestre, aveva intimato a reti unificate. La sera già si sa che i Piccoli non saranno
centomila ma almeno cinque volte, intanto che dalla Grecia, dall’Olanda, dalla
Francia partivano i battaglioni neri della distruzione, indisturbati, scortati;
il coordinatore del Forum mi avvisa che i telefoni dei preposti all’ordine e
alla legalità si sono fatti muti, nessun contatto, basta parlarsi, stop. E così
ho riso alle lacrime una sola volta ancora, ed è stato venerdì mattina a
Casaregis, quando qualche poliziotto mal addestrato ha lanciato un paio di
lacrimogeni verso il niente, e ho incontrato Bruno Vespa che faceva il reporter
di strada con una cipolla al naso, l’antico rimedio contro il gas. E poi basta,
solo dolore. I fatti li sanno tutti e tutti meglio di me. Io ero nel mezzo, ero
a Manin, ero a Casaregis, ero in corso Italia, ero al Gomito, ero davanti alla
Diaz, potevo vedere solo a un palmo dal mio naso, sentire le urla e non le
voci, ho visto e sentito e toccato solo la parte e mai il tutto. In piazza
Alimonda sono stato messo in salvo da un carabiniere commilitone di quello che
ha preso a calci Giuliani morente, al Gomito mi ha salvato un portuale che mi
ha fatto entrare in casa sua, io stesso ho messo in salvo dei ragazzi
ficcandoli in un anfratto nella muraglia di corso Italia, ma tutto lì, non ho
salvato nient’altro. E niente è stato più salvo, e di questo ho pianto di
orrore. Sì, Carlo Giuliani è un buon riassunto del G8 di Genova 2001; quel
ragazzo del disordine morto sparato da un ragazzo dell’ordine è tutta la
realtà, l’unica realtà definitiva. Ma non ho pianto per lui, non so piangere
per i morti, so piangere solo per i vivi, e di loro piango ancora adesso quando
mi ci fanno pensare. In quei giorni di luglio genovese così stranamente limpidi
e freschi, la terza potenza mondiale, l’universo dei Piccoli, la generazione
che riscattava dall’ignominia del tradimento quella dei padri e testimoniava
come niente della storia fosse finito, è stata sfidata e sconfitta per mano
militare, annientata non in una battaglia campale, ma in un pogrom ben
pianificato durato tre giorni e due notti; il terreno è stata una città
saccheggiata non tanto nelle sue automobili e nelle sue banche, ma nel suo orgoglio
repubblicano, nella sua bellezza di libera comunità. E da allora so che la
sconfitta di quella nuova generazione pesa e peserà ancora per non so quanto su
quelle a venire, e pesa e peserà ancora su questo Paese la vergogna.
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