"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 19 luglio 2021

Cronachebarbare. 94 «Le suore di Boccadasse con un banchetto vendevano magliette, c’era scritto: un solo padre, sei miliardi di fratelli».

Ha scritto Michela Murgia in “Noi che abbiamo visto Genova 2001” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 20 di giugno 2021: È difficile spiegare lo sconcerto che si prova quando, a tavola tra diverse generazioni, le persone più grandi parlano di un fatto storico per loro portante e d’improvviso si rendono conto che i ventenni presenti non sanno minimamente di cosa si tratti. Se poi l’argomento è il G8 di Genova del 2001, di cui tra un mese esatto ricorre il ventesimo anniversario, lo sconcerto decuplica. Come è possibile che persone nate in Italia nello stesso anno dei fatti della Diaz e di Bolzaneto sappiano tutto dell’attentato alle torri gemelle e niente della più grave violazione dei diritti umani perpetrata da sedicenti servitori dello stato nell’Europa democratica del dopoguerra? Come è potuta bastare appena una generazione per perdere la memoria di un orrore così grande che persino i protagonisti delle violenze lo hanno definito “macelleria messicana”? La ragione è nella stessa incredulità delle persone della mia età, il cui stomaco si chiude ancora al solo sentir nominare Genova. Perché noi c’eravamo. Noi abbiamo visto centinaia di esaltati in divisa menar colpi alla cieca sulla folla inerme che manifestava. Abbiamo presenti i volti dei corrispondenti di Indymedia ridotti a poltiglie insanguinate dalle manganellate e dai calci alla Diaz, i loro timpani sfondati dai colpi, le ossa rotte, i denti sul pavimento. Abbiamo visto i tribunali decretare che le bombe molotov ritrovate nella scuola erano state messe ad arte da poliziotti per giustificare l’assalto. Abbiamo ascoltato le testimonianze delle torture subite da uomini e donne di tutte le nazionalità per mano di membri delle forze dell’ordine italiane e ci risuona ancora nelle orecchie il grido della poliziotta che all’annuncio dell’omicidio di Carlo Giuliani esultò dicendo: «Uno a zero per noi». Siamo statǝ testimoni di tutto questo, eppure non siamo riuscitǝ a raccontarlo nemmeno ai nostri figli e alle nostre figlie, perché ci vergogniamo. A farci vergognare non sono le violenze e le torture compiute da centinaia di membri delle forze dell’ordine - polizia e carabinieri - delle quali devono vergognarsi casomai loro. L’imbarazzo che rende difficile parlare ai più giovani di Genova è di natura democratica e deriva dall’omertà totale che ha coperto la catena di comando che diede gli ordini per gli assalti e i pestaggi e soprattutto dalla mancata assunzione di responsabilità politica e istituzionale su quello che accadde. A tutt’oggi non solo la maggioranza dei membri delle forze dell’ordine protagonisti delle violenze non ha mai visto il carcere - grazie a prescrizioni, patteggiamenti e a un comodo indulto approvato ad hoc cinque anni dopo - ma molti di loro dopo le pene minime sono tornati in servizio e hanno persino fatto carriera. L’ultimo esempio è quello di Pietro Troiani e Salvatore Gava, condannati rispettivamente per aver messo le due molotov alla Diaz e per averne certificato il falso ritrovamento, ma promossi vicequestori l’anno scorso con una decisione giustificata come scatto automatico di carriera. Nessun politico si è mai assunto la responsabilità di aver dato l’ordine dei pestaggi, sperando forse che credessimo alla favola delle mele marce (centinaia?) nel cesto sano. La macelleria di Genova non ha mandanti dichiarati e i vari governi succedutisi durante i processi, indipendentemente dalla maggioranza di cui erano espressione, hanno sempre impugnato i risarcimenti relativi alle condanne per i fatti del G8 che coinvolgevano forze dell’ordine e rappresentanti dello stato. È per colpa di queste cose se ora ci vergogniamo. Quello che non riusciamo a dire ai nostri figli non è che le violenze del 2001 siano accadute, ma che potrebbero accadere ancora, perché le istituzioni non hanno preso mai la distanza necessaria per restituirci la fiducia nel fatto che non fossero state decise a monte. Questo silenzio va vinto, perché è nell’oblio e nella manipolazione della memoria che il fascismo facilmente rifiorisce. Sedetevi dunque a tavola coi ventenni e parlate, anche se dovrete farlo con lo stomaco chiuso come una noce e con quella faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova. La “memoria” dei tristissimi giorni (19 – 22 di luglio ) di Genova dell’anno 2001 di Maurizio Maggiani - “La tenerezza e il dolore” -  pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di ieri domenica 18 di luglio 2021: Io ero lì, nel mezzo. Vivevo lì, lavoravo lì, ci amavo una donna lì, intanto che andavo amando la città della meraviglia, intanto che esploravo palmo a palmo la città delle complicazioni, bellezza e relitti ovunque, antica bagascia, verginità senza fine. Vivevo nello stupore a Genova in quel tempo. Nel mezzo, in un vico, in una fessura tra Porta Siberia e le Mura di Malapaga, una finestra sullo splendore del Porto Antico e una sulla ruggine dei cantieri navali. Munito del prezioso pass per residente che si è rifiutato di sloggiare, e del pericoloso pass stampa, stavo nel mezzo della Zona Rossa. Dentro le mura di ferro a un passo dai grandi del mondo. La città incatenata, la città del silenzio, dal 19 al 22 luglio di vent’anni fa. Ero nel mezzo, nel posto meno adatto per una visione, scrutare e capire, il più adatto per sapere tutto quanto nel modo meno esemplare e più ovvio, vivendoci. E quando ci penso, quando mi chiedono e mi ci fanno pensare, io quello che so dire di come ho vissuto non piace a nessuno, non piace a quelli che vogliono coscienza d’insieme dei fatti, lucida analisi, pronto giudizio su tutto ciò che è stato. Io ho pianto, rispondo, quello che mi ricordo di più è quanto ho pianto. E non piangevo da vent’anni, non sono facile alla frigna. Sì, il nove maggio del 1978 ho pianto al cospetto del portellone della Renault R4, al corpo riverso di un uomo ammazzato; ho pianto di disperazione per me, per la mia generazione, ho pianto perché con quell’uomo ogni promessa della Repubblica della mia promettente giovinezza era morta, disdetta, annientata per sempre, fine pena mai. E dopo due decenni ecco che mi ritrovo a piangere, irragionevolmente in un luogo di allegria, al concerto augurale, auguri non per i Grandi del Mondo in procinto di riunirsi per la consueta manfrina, ma per i Piccoli della Terra in assemblea globale, i ragazzi del World Social Forum, quelli che la stampa di allora annunciava come la terza potenza mondiale. Cantava Manu Chau, il loro trovadore, cantava la loro ballata, Clandestino, “solo voy con mi pena sola va mi condena, correr es mi destino para burlar la ley…”; risultò in quell’anno 2001 che fosse la canzone più cantata al mondo. Ho pianto di tenerezza quella sera, per i figli della generazione degli sconfitti e del tradimento che si erano dati alla vita sicuri di un nuovo destino, promettenza e candore. Li guardavo e li vedevo uno diverso dall’altro, una complessità ignota a chi aveva potere sul loro presente e sul loro futuro, espulsa dai conti di chi li governava, estranea ai loro piani. Clandestini anche loro, la terza potenza mondiale in clandestinità. Quei ragazzi erano semplicemente trasparenti; quello che la sinistra di governo di questo Paese aveva saputo offrirgli era stato il caldo invito a non rompere le scatole, a sparire finché non si sarebbe provveduto, quello che offrirà la destra lo vedranno di lì a pochi giorni. E cercavo di incontrare quanti più sguardi, quante più parole, e non trovavo traccia di frustrazione, di rabbia, di vuoto, di violenza repressa; come è possibile? Non era quella la generazione del niente, non erano quelli il vero problema dei potenti della Terra che stavano innalzando una fortezza nel mezzo della città per impedire ai loro occhi anche solo di guastarsi la vista? Tenerezza per loro e per la città che tutti loro vedranno per la prima volta e troveranno il deserto, e in fondo al deserto le truppe di polizia in assetto di guerra. Tenerezza per l’orgoglio svillaneggiato della città a cui era stata sequestrata l’occasione di un gesto di ospitalità che poteva essere ricordato ovunque nel mondo per molto tempo. Finiti i lavori di addobbo e decoro, dileguati gli scalpellini, i tinteggiatori, gli illuminatori, sono arrivati gli squadroni dell’ordine e ha avuto inizio il lavoro di pulizia, il repulisti di ogni sospetto inciampo, il sigillo a ogni tombino, l’ossessivo paranoico controllo di ogni genere di difformità nello sguardo, nel vestiario, nella marca dello zainetto. E hanno preso a battere casa per casa, negozio per negozio, scagno per scagno per gentilmente insistere a dileguare, a chiudere, a sfollare a villeggiare fuori di qui, dal perimetro d’oro, dalla Zona Incontaminabile, da ovunque in città, perché ovunque ci sarebbe stata contaminazione. E sì, non mi vergogno di aver pianto quando, nel cuore della notte mi hanno svegliato i clangori dei ciclopi motorizzati che hanno eretto le barriere a prova di tutto; da questo momento la città superba per bellezza e libertà è un di qui dove non deve soffiare una mosca e un di là dove se ne andassero tutti a fanculo. Già alla mattina al varco blindato di piazza Cavour ho trovato dei fiori legati a ghirlanda tra le sbarre, alle otto una vecchia gli si era aggrappata a salutare la figlia di là, la figlia aveva portato pane, latte e medicine, il pane non passava le sbarre, un vecchio di qua intanto sibilava, Visnù è incazzato, loro non lo sanno quanto si è incazzato Visnù. Di qua, nella Zona Morta, sono rimasti solo i vecchi e i pazzi. E non mi vergogno nemmeno di aver riso fino al pianto la mattina dopo, quando si è palesata in tutta la sua austera bellezza via XX tirata a nuovo e cosparsa di monticelli di merda; lo squadrone della polizia a cavallo, la guardia d’onore, si era disposto ad accogliere il corteo delle berline presidenziali, un ufficiale urlava nel radiotelefono l’ordine per le pale, dove sono quelle cazzo di pale? E da Sarzano arrivava musica così forte e allegra da coprire anche la merda, l’avanguardia dei devastatori tanto attesa stava dando festa per i cladestinos, non riuscivo a capire quanti fossero, non riconoscevo neppure molte delle lingue che parlavano, un barbuto mi ha messo in mano un volantino in inglese dei volontari della pace israeliani, le suore di Boccadasse con un banchetto vendevano magliette, c’era scritto: un solo padre, sei miliardi di fratelli. Un plotone di tute bianche si spartisce una montagna di focaccia dell’unico forno aperto, un applauso copre la musica, dalle finestre di una nota casa patrizia appare una lunga fila di bucato, sono mutande, mutandine, mutandoni, è l’aristocrazia genovese che non tollera le critiche del primo ministro al decoro cittadino, via il bucato dalle finestre, aveva intimato a reti unificate. La sera già si sa che i Piccoli non saranno centomila ma almeno cinque volte, intanto che dalla Grecia, dall’Olanda, dalla Francia partivano i battaglioni neri della distruzione, indisturbati, scortati; il coordinatore del Forum mi avvisa che i telefoni dei preposti all’ordine e alla legalità si sono fatti muti, nessun contatto, basta parlarsi, stop. E così ho riso alle lacrime una sola volta ancora, ed è stato venerdì mattina a Casaregis, quando qualche poliziotto mal addestrato ha lanciato un paio di lacrimogeni verso il niente, e ho incontrato Bruno Vespa che faceva il reporter di strada con una cipolla al naso, l’antico rimedio contro il gas. E poi basta, solo dolore. I fatti li sanno tutti e tutti meglio di me. Io ero nel mezzo, ero a Manin, ero a Casaregis, ero in corso Italia, ero al Gomito, ero davanti alla Diaz, potevo vedere solo a un palmo dal mio naso, sentire le urla e non le voci, ho visto e sentito e toccato solo la parte e mai il tutto. In piazza Alimonda sono stato messo in salvo da un carabiniere commilitone di quello che ha preso a calci Giuliani morente, al Gomito mi ha salvato un portuale che mi ha fatto entrare in casa sua, io stesso ho messo in salvo dei ragazzi ficcandoli in un anfratto nella muraglia di corso Italia, ma tutto lì, non ho salvato nient’altro. E niente è stato più salvo, e di questo ho pianto di orrore. Sì, Carlo Giuliani è un buon riassunto del G8 di Genova 2001; quel ragazzo del disordine morto sparato da un ragazzo dell’ordine è tutta la realtà, l’unica realtà definitiva. Ma non ho pianto per lui, non so piangere per i morti, so piangere solo per i vivi, e di loro piango ancora adesso quando mi ci fanno pensare. In quei giorni di luglio genovese così stranamente limpidi e freschi, la terza potenza mondiale, l’universo dei Piccoli, la generazione che riscattava dall’ignominia del tradimento quella dei padri e testimoniava come niente della storia fosse finito, è stata sfidata e sconfitta per mano militare, annientata non in una battaglia campale, ma in un pogrom ben pianificato durato tre giorni e due notti; il terreno è stata una città saccheggiata non tanto nelle sue automobili e nelle sue banche, ma nel suo orgoglio repubblicano, nella sua bellezza di libera comunità. E da allora so che la sconfitta di quella nuova generazione pesa e peserà ancora per non so quanto su quelle a venire, e pesa e peserà ancora su questo Paese la vergogna.

Nessun commento:

Posta un commento