Tratto da “La chiesa antica non condannava l'omosessualità” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di ottobre dell’anno 2015:
Tratto da “La chiesa antica non condannava l'omosessualità” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di ottobre dell’anno 2015:
A lato. Foto di Simone Weil adolescente.
Tratto da “Le confidenze intime di Simone Veil” di Simonetta Fiori, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 28 di ottobre: (…). Si erano conosciute il 13 aprile del 1944 nel vagone che dal campo di Drancy le conduceva ad Auschwitz-Birkenau. Simone Jacob (poi sposata Veil) aveva 16 anni, Marceline Loridan-Ivens appena più piccola. A distanza di tanto tempo i ricordi appaiono confusi, ma la mappa del lager è scolpita nella testa. "Forse il primo incontro risale al blocco 9". "Alle docce o ai tatuaggi?". "No, ai tatuaggi eravamo lontane". Insieme hanno condiviso l'imbestiamento, la paura, la fame, gli schiaffi delle SS, il corpo denudato e spiato, gli stracci infestati dai parassiti, le scarpe spaiate, le notti troppo brevi e i giorni troppo lunghi, ma quando s'incontrano preferiscono parlare delle viole del pensiero che fiorivano vicino al crematoio. Sorridono al ricordo dei fiori cresciuti nell'odore persistente delle carni bruciate. Sanno entrambe che solo chi ha conosciuto "l'altro lato degli esseri umani" è capace di trovare le parole necessarie. Noi e loro, un limite invalicabile. Neppure con la sorella maggiore Denise, imprigionata negli stessi mesi a Mauthausen ma da partigiana non perché ebrea, Simone riusciva a parlare di Auschwitz. Deportati ebrei e resistenti non condividevano la stessa storia. Con lei poteva evocare i ricordi famigliari prima del lager - i posti a tavola, la maglia che piaceva alla mamma, il villino costruito a Nizza dal papà architetto, anche l'incredulità ostinata con cui erano scivolati nella tragedia - ma non il campo di sterminio né le difficoltà del ritorno, perché quella era un'esperienza unica e irripetibile. Solo Milou avrebbe potuto capire, l'altra sorella sopravvissuta insieme a lei a Birkenau e poi morta nel 1952 in un incidente stradale. "Sono convinta che non siamo mai ridiventate normali. In apparenza abbiamo vissuto come tutti, ma le nostre reazioni intime sono rimaste diverse". Bastava poco per riprecipitare nell'inferno, "un odore particolare, una certa sensazione di freddo, anche l'immagine felice di bambini vestiti a festa, visioni belle e insieme insopportabili" perché richiamavano l'assenza di quei milioni di fratellini morti da cui Simone Veil non volle mai separarsi. "Per tanto tempo ho avuto paura di imbattermi in un'uniforme o di attraversare la frontiera. Come se avessi costantemente qualcosa da nascondere". Fino alla fine ha evitato il contatto con gli altri, perfino la fila davanti al cinema, tanto era stata intollerabile la costrizione del corpo dentro i pagliericci del campo. "Prima ero gaia, vanitosa, spesso frivola. Dopo essere tornata mi ripetevo sempre: ma davvero è importante?". Ne è scaturita una corazza, l'abito altero di cui non è più riuscita a spogliarsi. "Sono diventata più severa rispetto agli altri. E più sensibile a questioni a cui prima non davo importanza". È una testimonianza toccante e irrituale, quella rilasciata dall'ex presidente del Parlamento Europeo, fin dal suo primo incontro con il regista Teboul che da anni progettava un documentario. "Cosa le interessa di me?", gli chiese una mattina con l'intento di scoraggiarlo. "Il suo chignon, signora". Improvvisamente Simone Veil apparve turbata. Senza saperlo Teboul aveva toccato un punto cruciale della deportazione, il fatto che lei e altre compagne del convoglio numero 71 non erano state completamente rasate, condizione che le avrebbe assicurato la salvezza. Era stata Stenia, una delle kapò più feroci, a notare il suo portamento pieno di grazia e dignità: "Sei troppo bella per morire. Ti troverò un posto dove tu possa sopravvivere". Insieme alla mamma e alla sorella, Simone fu trasferita a Bobrek, considerato dai prigionieri alla stregua di un "sanatorio". Per anni si sarebbe tormentata su quel gesto inesplicabile e su quella donna crudele poi morta impiccata: spietata con tutti, non con lei. Con la domanda sullo chignon, Teboul aveva aperto un varco sul mondo segreto di Simone che per la prima volta si sarebbe confidata sulla sua vita, sulle ferite mai rimarginate. Sull'intreccio inestricabile tra il suo vissuto e l'impegno nelle istituzioni. Anche la costruzione europea aveva molto a che vedere con la sua dimensione esitenziale e l'urgenza della riconciliazione. "Come potevamo vivere dopo quello che era accaduto? Come potevamo vivere tutti insieme? L'Europa unita era l'unica risposta possibile, a patto di non dimenticare". Al padre intellettuale doveva la scoperta dell'ebraismo come "condizione imprescindibile", legata alla sapienza e alla cultura acquisite dagli ebrei nel corso di secoli. Ma ancora più del genitore, perduto nel campo lituano di Kaunas insieme al fratellino Jean, fu Yvonne il lutto perpetuo della sua vita, la madre morta di tifo a Bergen-Belsen. "In fondo non ho mai accettato la sua morte. Ogni giorno della mia vita è stata qui con me. Quando mi chiedono dove abbia trovato la forza per studiare, sposarmi, avere tre figli, fare il concorso in magistratura, ecco credo che sia stata mia madre a spingermi nel futuro".
Generazioni a confronto al tempo della “peste”. 2- Tratto da “Nonni contro nipoti, le generazioni divise dalla pandemia” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi martedì 27 di ottobre: (…). Vecchiaia e giovinezza hanno necessità differenti, e di conseguenza costumi difformi. La clausura pesa meno a chi ha già potuto vivere i suoi anni promiscui, già sperimentato i suoi eccessi, già compiuto i suoi bagordi. Mentre chi si affaccia alla vita ha urgenza di viverla, impazienza di consumarla. E dunque sì, la frenesia dei giovani non si concilia con l’incolumità dei vecchi, e non per malvagità o per distrazione, ma perché la vita ha un’inerzia invincibile, spesso sorda e cieca. E questa inerzia, in tempi di contagio, è tutta a svantaggio dei vecchi e della loro fragilità. Ma questo, come dire, è la parte inevitabile (una delle tante parti inevitabili) della catastrofe chiamata Covid. Evitabile, magari, è che su quella zattera tutto sommato ancora solida e quasi confortevole che è la società contemporanea (con le ambulanze, gli ospedali, la ricerca medica, i vaccini e tutto il resto) ci si accapigli e ci si azzanni come i naufraghi del Medusa. Di un sindacato dei vecchi, e di un sindacato dei giovani, non abbiamo proprio bisogno. (…). Sabato 19 settembre passai, di sera tardi, in piazza delle Erbe a Verona, che era gremita di migliaia di ragazzi, molti senza mascherina, tutti col bicchiere in mano. Già si contavano, precisi come sentenze, i primi numeri nefasti, il contagio stava risalendo giorno dopo giorno. Già si sapeva tutto, dunque, a meno di essere un negazionista, dunque un ebete o un farabutto. Una parte di me augurò a quei ragazzi che lo spritz gli andasse di traverso, perché era evidente la loro incoscienza, evidente che quel gregge non solo non era incolume: era a disposizione del virus. Era il banchetto del demonio, per dirla come la direbbe un virologo di Radio Maria. Ma un’altra parte di me ha pensato che quell’adunata, e altre consimili, era arginabile solo fino a un certo punto. Cioè non più di tanto. Faceva parte, quell’adunata, della natura, proprio come il coronavirus.
Quadro secondo. Tratto da “Le nostre vite sfilacciate nella città ripiombata nel silenzio” di Natalia Aspesi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi lunedì 26 di ottobre: (…). Che fare? Visto che le buone maniere democratiche non solo non migliorano la situazione ma consentono a una quantità di pazzi di dire la loro diventando star del web e della televisione e peggiorando quindi sia il morbo che le persone, oso pensare che senza arrivare a Beria (che risolverebbe tutto in mezza giornata), un polsino meno fragile si potrebbe immaginare, per esempio: tralasciando oltre all'avanti e indietro di chiusure e aperture a vari orari, smettere di fantasticare-promettere quando questa vita di nebbia finirà: tra una settimana, tra trenta giorni, a Natale, la prossima estate... Non lo sappiamo noi sempliciotti, non lo sanno i cretini e i saccenti, non lo sanno i governi, non lo sa la scienza, forse non lo sa nemmeno il Covid-19 stesso. Nei secoli ci si è abituati a vivere con le guerre di religione, le guerre tra nazioni, le carestie, la peste e tutte le maledizioni della terra, perché non attrezzarsi anche adesso per convivere con questa pandemia, difendendosi al meglio sino a quando, se gli umani non troveranno un'arma definitiva, per ignoti incantesimi riprenderà la sua astronave e se ne andrà a far fuori gli abitanti, animali o vegetali o minerali di un altro sistema solare? Ci vorrebbe però quella disposizione d'animo ignota agli italiani che si chiama disciplina, e una anche peggio, detta ubbidienza: ma pure, e qui siamo dei maghi, una delle nostre virtù massime è proprio quella di violare anche la legge meno fastidiosa, perché fregare gli altri ci rende importanti, in quanto siamo quelli che non si fanno fregare. Oppure seguire l'istinto di sopravvivenza, non ritenere uno stupro disinfettarsi spesso le mani, una galera star qualche sera a casa, un attentato alla libertà portare la mascherina (quando per la moda si è disposti a ogni tortura tipo tacco a spillo o tatuaggio anche nei luoghi meno esposti allo sguardo). Sarà mortalmente noioso tanto da creare depressione e violenza rinunciare alla movida, quando a noi vecchi pare noiosissimo stare in piedi con un bicchiere in mano davanti a un bar a chiacchierare con uno sconosciuto di cose prive di interesse e rigorosamente solo dopo mezzanotte. E le palestre? Non ne ho mai vista una in tutta la mia vita, ma nella pubblicità e nei film si vedono ambosessi di ogni età solitari, senza nessuno vicino, che sudano orribilmente sballonzolando su congegni da tortura: se però poi fanno una doccia con qualche disinfettante bruciantissimo sono a posto. E i teatri e i cinema e i musei e quei luoghi dove si fa cultura presentando libri o altro? Si sa che non contano nulla perché non interessano a chi conta ma proprio per questo perché chiuderli?
A lato. "Rocamadour" - Francia - (2019). Acquarello di Anna Fiore.
Mi implorò: - Non schiacciarmi -. E sì che l’avrei potuto schiacciare facilmente; poggiato e bene in vista sullo sgabello stava quell’arnese, oggi di plastica, pensato e fabbricato per schiacciare le mosche. Ed è pur vero che nella calura della giornata non l’avevo ancora utilizzato; avevo scansato le mosche con gesti indolenti, di un’indolenza dovuta all’eccessiva calura della mattinata. È pur vero che per un po’ di refrigerio mi ero riparato sotto una specie di pergolato ove a malapena fluiva il lento, per quanto meno caldo, alito della giornata; ma pur sempre pativo, al pari di tutti gli altri esseri viventi, l’inclemenza torrida della stagione. – Non schiacciarmi - tornò a dirmi, e la sua implorazione si perdeva nell’alto frinire della stagione. Io non riuscivo a capacitarmi alla vista di quell’animaletto che, posatosi sullo sgabello che utilizzavo a mo’ di tavolinetto, mi si rivolgeva con parola umana. Mi veniva di rassicurarlo, ché mai e poi mai lo avrei schiacciato a mo’ di una mosca qualsiasi. Ma non era una mosca affatto; era un grilletto, piccolo, di quelli che si vedevano saltare per i prati tutt’attorno. Lo sbalordimento mio fu in verità enorme: come fare a credere che quell’animaletto potesse proferire umana parola? Ma le cose stavano proprio così. Ma ancor più sbalorditiva appariva la sua preoccupazione; ché avesse riconosciuto la finalità propria dell’arnese che mi ero premurato di portare con me e che non avevo utilizzato? Preoccupazione veramente sorprendente, più di quanto mi avesse sorpreso la sua vocina che si levava netta dalle pagine aperte del libro che stavo leggendo con interesse e sulle cui pagine si era posato con leggerezza senza che io me ne accorgessi. Dovetti necessariamente stropicciarmi gli occhi dopo aver rimosso gli occhiali che inforcavo. E per prendere tempo, e per meditare come se nulla fosse, mi detti alla pulizia delle lenti; nel frattempo mi ponevo ancora una volta la questione, ovvero come fosse possibile che un grillo potesse comunicare con linguaggio umano. Non trovavo conforto nell’operazione di accurata pulizia delle lenti nella quale mi ero votato, né tanto meno mi pareva giusto rompere per qualsivoglia motivo quell’incantamento che all’improvviso si era creato. Il grillo intanto se ne stava comodo comodo sulle pagine del mio libro, quasi a volersi godere anche esso la frescura del pergolato. Mi sforzavo di ricordare tutti i grilli della letteratura, o dei film di animazione, ed in verità l’unico grillo che mi attraversasse prontamente la mente fu il grillo saggio della magnifica storia di Pinocchio. Che fosse anche il presente grillo un grillo saggio? Solo che quel povero grillo della storia di Pinocchio, se non ricordavo male, il burattino tentò pure di schiacciarlo. Era necessario comunque che io riprendessi in mano la situazione intricata e singolare che si era venuta a creare. E tutto d’un fiato ebbi a dirgli: - Ma tu, sei veramente un grillo? – E per tutta risposta ebbe a dirmi: - Perché, ne dubiti forse? -. Era effettivamente un grillo, un grillo parlante d’altra parte.
Ma l'attenzione all'ambiente non esclude la battaglia contro le diseguaglianze, al contrario. Come dimostrano i ragazzi del Friday for future. "Certo! Ma a me pare che Sassoon tenda a sottovalutare le diseguaglianze, considerandole fisiologiche".
Non direi questo. Sassoon parte da una considerazione più generale difficilmente contestabile: il capitalismo trae le la sua legittimazione dal fatto che i bisnipoti dei proletari inglesi della rivoluzione industriale stanno molto meglio dei loro avi. "Dal punto di vista dei consumi è una riflessione fondata. Ma perfino i lavoratori della prima industrializzazione - le cui descrizioni ci facevano rabbrividire - stavano meglio degli schiavi. Questo però non è un indicatore del livello di civiltà. Insieme agli elementi economici ci sono questioni che riguardano il senso della vita e della comunità: il processo di spoliazione dell'attuale capitalismo fa impressione. E le crescenti diseguaglianze sono la cifra prevalente di questo sistema: come se fossero lenti di ingrandimento sulla natura specifica del nuovo capitalismo".
Correva con il cuore gonfio e gli occhi pure; sentiva le gambe venirgli meno, eppure riusciva ancora a correre. Spesso alzava il braccio libero e con la manica del cappotto asciugava le lacrime che come rivoli prima distinti, si univano poi a gocciolare sotto il naso.
Come spiega la coincidenza di mostra, libri, film? Non c'è neppure il pretesto dell'anniversario a cifra tonda: mancano tre anni all'ottantesimo compleanno. "Appunto: non me lo spiego. Se non con le parole profetiche che mi disse tantissimi anni fa Alberto Breccia, un grande disegnatore argentino pluripremiato: non è gloria, ma vecchiaia".
A lato. "Pier 39. San Francisco" (2019), acquarello di Anna Fiore.
Aveva lasciato da quasi un’ora quel mondo relegato, secondo lui, ai confini della civiltà; ci ripensava ancora col naso schiacciato al finestrino della corriera e più volte si era fatto male a stare in quella posizione, poiché la corriera subiva quei sussulti allorquando si viaggia o si cammina per le strade polverose, pietrose e solitarie dei nostri luoghi. Aveva lasciato ogni cosa, anzi gli sembrava di avere scordato tutto, almeno per ora; tutto, dalle lise sue manichette che usava per l’ufficio per non sciupare le maniche della giacca, ai suoi libri preferiti, che tanta noia gli levavano quando l’ufficio gli lasciava del tempo libero. Lui era fatto così; strano forse per un mondo quale era quello del paese in cui lo avevano mandato. Cercava costantemente qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che avrebbe potuto giustificare tutto ciò che faceva; eppure si guardava attorno e non trovava nulla che lo potesse aiutare, che lo potesse sorreggere. Una speranza del resto gli era rimasta in cuore; poter vivere tranquillamente, senza fastidi, come tutti gli uomini del resto! Ma come? Gli mancava la cosa essenziale, ciò a cui egli teneva sopra ogni cosa, con un attaccamento quasi morboso e selvaggio. Da quando la povera mamma era andata via per sempre, egli si era sentito più solo, solo in mezzo alle strade, solo in mezzo alla gente che si affatica, che gode, che soffre; e lui aveva sofferto in un primo momento, poiché l’amore materno, il ricordo di quegli occhi teneri, di quei capelli bianchi, di quelle mani benedette, faceva tardi a lasciarlo. Ma poi si era ripreso e non aveva più sentito nulla, né godeva né soffriva, e questo lo preoccupava. Proprio nulla egli sentiva a questo mondo? Capiva che il suo cuore era oramai come un ramo secco che non partecipa più alla bellezza della natura e che chiunque può servirsene; così il suo cuore era divenuto ora che quell’ultimo amore lo aveva per sempre lasciato. Aveva abbandonato la casa, la città perché gli facevano noia ed a volte anzi sentiva come un odio inusitato per il suo animo buono e sensibile. Così era andato via, con quella speranza propria di sostituire a quell’amore mancato quello di una brava donna, che a lui tutta si dedicasse, che gli desse il conforto della sua vicinanza, della sua tenera amicizia; con la speranza di formare finalmente quella famigliola, quieta, onesta, che forse l’affetto per la mamma non lo aveva spinto a formare. Il tempo del resto era trascorso ed egli non aveva ancora trovato ciò che tanto desiderava, quella calma, quella pace e non aveva trovato soprattutto quell’amore che avrebbe potuto riempire il vuoto del suo cuore, del suo letto, della sua casa. Ora ripensava, guardando per i campi che si svegliavano al nuovo giorno, mentre i contadini salutavano la corriera che strombazzando passava per le strade polverose, pensava che avrebbe potuto anche combinare qualcosa, poiché in verità le occasioni gli si erano presentate. La Lucia, per esempio, una buona donna sui trent’otto anni che, con sua meraviglia, non si sapeva spiegare come non avesse ancora trovato marito; una buona donna l’aveva egli definita tutte le volte che, nel buio della notte, con gli occhi fissi verso l’alto, la sua immagine era andata ad occupare i suoi pensieri. Del resto in paese la conoscevano tutti, anche perché era la sarta che aveva quella vasta clientela di provincia, che paga poco e si contenta di poco. Il parroco stesso certe volte aveva buttato lì per lì delle voci che commentavano i rapporti che sembravano correre tra lui e la Lucia; e sempre lo aveva incoraggiato a concludere, dicendogli ch’era un buon partito, onesto e sicuro e così avrebbero potuto fare un bel banchetto, di quelli che non se ne vedevano da dieci anni a quella parte. Ma lui no, ogni volta a ripetere che con la Lucia non c’era nulla, poiché erano tutti dei pettegolezzi. Però ora pensava alla sera in cui si era presentato alla sua porta, aveva aggiustato la cravatta, mentre si guardava attorno e il paese tutto taceva; aveva esitato dapprima, pensando di sbagliare, ma in cuor suo era sicuro che la Lucia al mattino gli avesse fatto intendere che alla sera lo avrebbe atteso. E lui ci era andato, impacciato e timido, poiché sapeva che alla fine avrebbe potuto rimediare. La Lucia del resto aveva proprio fatto intendere che lo aspettava alla sera, poiché aprì la porta prima che il campanello squillasse. È stato bene, si scusava lei, poiché le orecchie che origliano sono tante, e il buon nome di loro due valeva tale precauzione. La cena fu buona, preparata con mani esperte e con quella premura particolare che la donna interessata sa mettere in ogni sua cosa. Si erano poi intrattenuti a parlare del più e del meno, su come l’annata era stata ed alla fine si erano accordati di vedersi la sera seguente. Al mattino uno stordimento lo aveva colto al primo svegliarsi, non aveva dormito bene, anche perché il suo stomaco non era poi abituato a quelle abbondanti e succose cenette. E poi aveva fatto un sogno strano, con mille voci che si rincorrevano, che si scambiavano mille segreti; ed alla fine si era visto lui, rannicchiato su una sedia quasi spagliata e gli altri del paese che intorno gridavano e lo indicavano a dito. Svegliandosi si era trovato sudato e stordito; pensò subito a ritirare la bottiglia del latte, ma preferì ingurgitare un poco d’acqua con bicarbonato. In ufficio del resto non rese come sempre; si scopriva spesso a pensare a cose diverse, lontane e poi, se dapprima si era rimproverato, se ne compiaceva. Vagava ecco, ma sempre gli tornava alla mente la serata trascorsa con la Lucia, risentiva ciò che si erano detti e pensava alla sera che sarebbe venuta. Sentiva però che qualcosa la sera innanzi non era andata bene; era sempre sul punto di rammentarsene, ma poi gli sfuggiva quasi per incanto. Per giunta i colleghi di camera quel mattino gli sembravano strani; si porgevano strane occhiate, e strano a dirsi, lo richiamavano sempre quando veniva ripreso dai suoi pensieri. Cosa potevano sapere? Qualcuno forse lo aveva visto entrare dalla Lucia? Ma la strada era vuota, e così si rassicurava e scacciava quei fastidiosi pensieri come si scacciano d’estate le mosche. Quando uscì dall’ufficio corse a comprare qualcosa per la Lucia; poca roba, ma che si sentiva in dovere di portare. Nel pomeriggio, mentre riposava, gli venne alla mente, come una illuminazione ed una sorpresa assieme, ciò che al mattino lo aveva tormentato; ecco, la Lucia aveva tirato la mano a sé quando egli aveva cercato di prendergliela! Finalmente ciò che lo aveva torturato egli lo conosceva. Se dapprima scoprire ciò era stato il suo più grande impegno poiché sperava che, dopo averlo scoperto si sarebbe calmato e riappacificato con sé stesso, questa scoperta gli metteva ora in corpo una strana sensazione. Si sentiva certo in colpa per avere osato tanto con la Lucia, ma del resto si spiegava che lo aveva fatto in un momento di pazzia e che quindi si sarebbe scusato con lei. Anche questa spiegazione però non gli portò alcun giovamento, poiché continuò a pensare a ciò che aveva fatto; perché, cosa avrebbe voluto fare dopo con la Lucia? Certamente nessun pensiero gli era passato per la mente la sera innanzi, anzi era stato calmo, controllato, quasi assaporasse la gioia di una vita a due. Ed allora, perché lo aveva fatto? Forse gli aveva dato lo spunto la Lucia? Del resto la sera innanzi lei gli era sembrata diversa, più eccitata e ripensandoci gli era parso anche che la Lucia avesse quindici anni di meno. E sì che si era abbellita, ma spirava dal suo corpo maturo un’aria ed una sensazione diversa che egli non aveva mai sentito e mai provato in tutte le volte che le era stato vicino. Del resto era stata lei a volere quell’improvviso incontro, da lei tutto era partito; ed allora perché aveva ritratto la mano quando la sua l’aveva cercata? Che forse un senso di pudicizia albergasse in quell’animo di donna? Per la qualcosa egli si trovava già con la coscienza a posto poiché sapeva di doverle chiedere scusa. O forse l’aveva ritirata per altri motivi, forse perché lo detestava e lo aveva invitato solo per farsi burla di lui con le sue amiche ogni volta che poi lo avrebbero incontrato? O forse aveva scoperto in quel primo incontro che non era quello che lei sperava, un uomo quale una donna vuole incontrare? Per la qualcosa egli avrebbe dovuto riparare, farle capire che egli era un uomo nel vero senso di tale parola, con tutti i crismi della mascolinità; ma poi, guardando torvo come se la Lucia gli fosse davanti, ripensò alla possibilità che lo avesse invitato per burlarsi di lui. Allora sì, doveva fargliela pagare, perché lui non era un uomo da burlare e tantoméno per finire nel ridicolo del paese. Anzi ora pensava al comportamento strano che i suoi colleghi avevano tenuto al mattino e ne conveniva che la Lucia gli avesse tirato un brutto scherzo. Saltò allora su tutte le furie ed in un primo momento decise che quella sera non sarebbe andato da lei. Si sentì più libero dopo aver preso tale decisione ma poi lo assalì un dubbio, quel dubbio che tanto dispiaceva al suo orgoglio di uomo; che la Lucia avesse trovato in lui un debole e non un vero uomo? Ciò lo fece subito trasalire ed egli abbandonò il partito che prima aveva preso; sì, egli ci sarebbe andato, soprattutto per avere uno schiarimento sulla cosa. Ne aveva tutti i diritti del resto, poiché aveva rischiato la sera innanzi di passare per un dongiovanni da strapazzo, agli occhi del paese. Al tramonto lasciò il letto e si diede a pulirsi per farsi più attraente; ci teneva che la Lucia si ricredesse, qualora avesse pensato in modo sbagliato sul suo conto. Quella toeletta da scapolo durò più del solito, tanto che quando andò alla finestra era già buio. Attese ancora al bar con i rari amici che si era fatto in tutti quegli anni e quando poi restò solo nel locale anche egli andò via, con quell’animazione caratteristica che anima coloro che stanno per intraprendere un’avventura. Giunse più presto del solito alla porta della Lucia e scorse per la finestra che la camera era in una penombra che ami aveva notato in quella casa; un lume infatti la rischiarava appena. Con un leggero tocchettìo bussò alla finestra e dopo poco la porta gli si aprì. Con un dito in atteggiamento tale da imporre il silenzio, la Lucia lo invitò ad entrare, ed egli sentì un odore particolare che quella casa emanava in quella sera. Ed il ritrovarsi in quell’ambiente familiare gli fece svanire tutti quei propositi di schiarimento che intendeva avere. Seguì la Lucia in cucina e notò sottola luce, che qui non era fioca, quanto lei si fosse abbigliata per quell’incontro: era bella e soprattutto gli ispirava una strana e nuova avvenenza. Notò che si muoveva nella cucina con leggiadria e sicurezza ed allora sentì in cuore accendersi la nostalgia di una donna, di una casa e di una famiglia. Forse la Lucia sarebbe stata la sua donna ideale. Estasiato quasi la seguiva con lo sguardo in tutti i suoi movimenti per carpire tutti i pregi che ancora non si erano svelati agli occhi suoi. L’adorava con gli occhi ed intanto un sommesso desiderio di possesso si impadroniva di lui. La Lucia di sottecchi osservava lui che, appoggiato allo stipite della porta, la osservava mentre si affaccendava attorno ai fornelli. D’improvviso qualcosa lo scosse, i pensieri si affollarono nella sua mente ed uno parve imporsi agli altri: la Lucia era pur sempre una donna, lui un uomo che avrebbe dovuto dimostrarle di essere tale. Ché forse con il gesto della sera innanzi la Lucia non avesse voluto porre in dubbio la sua validità? Scosse il capo come per allontanare una mosca fastidiosa che però puntuale tornava a posarsi sul naso, sulla bocca, sulle orecchie. Ora sì, era certo, la Lucia voleva una prova; forse gliela aveva chiesta ed egli non lo aveva compreso; o forse no, lei che era donna, doveva attendere la mossa di lui. Allora si mosse come un automa e gli sembrò una distanza grandissima raggiungere la Lucia dalla parte dei fornelli, dove lei accudiva serenamente. Le giunse di dietro, la prese attorno alla vita, la portò a sé con violenza mentre lei faceva cadere un piatto in cui stava frullando delle uova. La strinse con passione, prese a baciarla sul collo, sul mento, sulle labbra, sulla fronte; sentiva che non si sarebbe più fermato, sentiva che una forza superiore faceva sì che la stringesse sempre più forte. Sentiva quei seni schiacciarsi al suo petto e ne provava gioia immensa. Quella serenità familiare era stata infranta ormai; egli si sentiva forte, virilmente forte, che non aveva il coraggio di abbandonarla. Un solo pensiero gli attraversò la mente in quei momenti; ecco, la Lucia ora lo conosceva e non avrebbe potuto più dubitare di lui. Del resto lei era stata docile, anzi quando si lasciarono era rossa in viso, con il grembiule sporco delle uova che aveva rovesciato. Con la femminilità propria delle donne mature non avvezze a tali avventure, si mise a pulire dove era sporco, raccattò i cocci del piatto e poi si rallindò con una mano i capelli scomposti. Lui, era andato nella camera attigua e si sentiva svuotato, senza pensieri e quasi senza peso. Una nausea lo prese improvvisamente, si sentì venir meno; sentì la testa girargli forte, forte come una trottola. Aprì allora la finestra per prendere una boccata d’aria fresca e rianimarsi; anche questo espediente però non servi a nulla, anzi si sentiva sempre più male. Indossò il cappotto e senza dir nulla lasciò quella casa che tanto gli era sembrata ospitale e serena. Attraversò le strade buie camminando rasente ai muri: una inquietudine lo aveva assalito e gli sembrava che la gente del paese fosse alle finestre per parlare di lui, per indicarselo. Ecco il sogno, il sogno della notte avanti; ora lo rammentava. Si sarebbe detto che lui quella sera avrebbe voluto approfittare di una donna sola, buona ed indifesa; forse l’avrebbe anche pagata alla fine e lui sarebbe stato l’inizio di una tragedia per quella donna. Con questi pensieri giunse a casa, si buttò sul letto con la testa che gli doleva, spossato come se avesse sostenuto una impari lotta con avversari più forti di lui ed alla fine ne fosse uscito vincitore. Non pensò più a nulla e si addormentò presto; le preghiere per la mamma quella sera non furono dette. Al mattino si sentì meglio, anche perché l’aria della domenica gli faceva sempre un certo effetto. Non ricordò più nulla della sera innanzi, si lavò, si vestì, fece una magra colazione e poi decise; sarebbe andato in città, avrebbe voluto prendersi una giornata diversa dalle altre, diversa da quelle giornate lunghe, noiose e che non presentano nulla di nuovo nella vita di un uomo qualunque.
“Evasione”, “racconto breve” (1966) di Aldo Ettore Quagliozzi.
Non finiranno di stupirci i cosiddetti “esperti” chiamati a dipanare la matassa del Covid. A parte quelli che vivono perennemente sul piccolo schermo e che ad ogni loro “strambata” pubblicano un ponderoso testo che pochi o pochissimi leggeranno, tutti gli altri si barcamenano sulle ipotesi più o meno plausibili su di un Covid divenuto “diverso”, più “buono” e via discorrendo.
A lato: "Saint Ives" (Cornovaglia), "acquarello" (2019) di Anna Fiore.
Tratto da «Siamo
abitati dal nostro Io e dalla nostra Specie» di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di settembre
2020: E i loro interessi sono in naturale conflitto. Ma la nostra infelicità
sta anche nel non saper esprimere noi stessi per ciò che siamo.