Soleva sostenere l’indimenticato Giorgio Gaber: “Non
temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Solo per dire quanto, al
Suo tempo, l’uomo venuto da Arcore rappresentasse solamente un “bubbone” seppur
purulento e ben in vista ma niente in confronto allo stato infettivo che quel “bubbone”
mascherava. È che, con il passare degli anni e degli uomini, quel “bubbone”
purulento è pur sempre pronto ad erompere continuando così a mascherare la malattia
grave che vi sottostà. Ma quella malattia ha un nome: “italianità”. Un vezzo? No,
un tumore profondo che corrode al suo interno una società affetta da quei
malanni che sono il “pressappochismo” e quel “familismo amorale” studiato e ben approfondito
dal sociologo inglese Edward C. Banfield - amoral familism - nel Suo libro celeberrimo
volume “The Moral Basis of a Backward
Society” pubblicato nell’anno 1958 e tradotto con il titolo “Le basi morali di una società arretrata”
(1976). Scriveva Paolo Sylos Labini in “Diario
di un cittadino indignato”:
(…). La cultura è l’elemento unificante di una società e nella cultura rientra l’arte. (…). Ma, per la società, non meno importante è l’onestà civile della gente di ogni livello; è l’onestà civile diffusa che rende vivibile una società. L’autostima a livello popolare e la stima degli altri paesi sono la base dell’amor di patria e dell’orgoglio di appartenere ad una comunità. Esortazioni, gare sportive e festeggiamenti non sono inutili, ma senza quella base sono addirittura dannosi, perché pongono in risalto il contrasto fra l’apparire e l’essere, e l’amor di patria, quando c’è ipocrisia, invece di crescere diminuisce ulteriormente. (…). È per questo motivo che la “cultura” è stata sempre più invisa agli occasionali reggitori della cosa pubblica. Un Paese acculturato non avrebbe prodotto di continuo tanti e tali “bubboni” purulenti. È la malattia degenerativa, mascherata sotto quel “bubbone” purulento che è stato ad un tempo l’uomo di Arcore, come pure successivamente l’uomo venuto da Rignano sull’Arno, ed oggigiorno magnificamente interpretato da quel Salvini Matteo inopinatamente divenuto ministro della Repubblica, che Alessandro Robecchi intuisce in “Salvini è un sintomo: chiediamoci qual è la causa della malattia”, riflessione pubblicata su “il Fatto Quotidiano” dell’1 di agosto 2018: Il ministro del disonore Matteo Salvini, quello che cita Mussolini, nega l’escalation razzista nel paese, teorizza l’autodifesa a colpi di pistola, comunica come un troll provocatore, leone da tastiera di rara ignoranza ma con in mano il ministero della sicurezza, copre il paese di vergogna in tutto il mondo e ci deve quarantanove milioni di euro rubati dai soci suoi predecessori, è un sintomo grave della febbre italiana. Attenzione, non la causa della malattia, un sintomo. Ciò non significa sminuirne la portata: anche un feroce mal di testa è un sintomo, e infatti lo si combatte, ma un bravo medico non si limiterà a farvi passare il mal di testa con qualche aspirina, ne cercherà la causa in modo che il mal di testa non vi venga più. Salvini è il prodotto, confezionato con fiocchetti e bandierine tricolori (quella con cui il suo ex capo si puliva il culo), di tutti i cucchiaini di merda ingurgitati in anni e anni di storia italiana, di tattiche cretine, di strategie miopi e fascistogene che premiavano ricchi, benestanti e classi dirigenti a discapito di poveri, proletari e piccola borghesia. Il classismo implacabile e accuratamente innaffiato in decine di anni (e Berlusconi, e Monti, e Renzi… molte chiacchiere e molti distinguo, ma la curva delle diseguaglianze è rimasta perfettamente costante), ha acceso piccoli fuochi, e ora arriva Salvini a soffiarci sopra per mera convenienza politica e cinismo. Le classi dirigenti che ci hanno ammorbato per decenni con le loro parole d’ordine campate per aria, meritocrazia, competizione, mercato, liberismo, o negando qualunque dignità al conflitto di classe, o introducendo la favoletta bella che “siamo tutti sulla stessa barca”, industriali e lavoratori, start-up miliardarie e precari, finte cooperative e schiavi, hanno indebolito l’organismo, e ora che arriva il virus e non trova anticorpi, fingono preoccupazione. Capisco che tirare in ballo la cultura, la letteratura, il grande cinema, al cospetto di coloro che ritengono gli intellettuali un ingombro fastidioso e privilegiato sia tempo perso. Ma va ricordato lo stesso che i migranti economici di Steinbeck che andavano dall’Oklahoma alla California venivano bastonati da sfigati poveracci come loro; e quando, in Mississippi Burning, l’agente federale Gene Hackman andava a fare il culo ai razzisti che linciavano i neri, non trovava agrari e latifondisti, ma povericristi spiantati e ignoranti come la merda. Sono proprio le basi, porca miseria: se hai vissuto nel continente del nazifascismo dovresti sapere già dalle elementari che il trucco per tener buoni i penultimi è renderli furiosi con gli ultimi e aizzarglieli contro. Questo è quello che sta facendo il ministro del disonore Salvini: portare taniche di benzina verso l’incendio, che arde già da un bel po’. Ora, è vero, bisogna eliminare il sintomo. Lo si fa applicando coi fatti quello che per anni si è detto a parole, cioè contrastando la barbarie strada per strada, autobus per autobus, fila alla posta per fila alla posta. Zittendo quelli che credono di sollevarsi dalla loro condizione prendendosela con chi sta peggio di loro, invece di rivendicare reddito e diritti da chi sta meglio. Significa parteggiare in modo militante per chi cerca dignità, e non essere indifferenti o distratti quando qualcuno gliela vuole togliere. Intanto – non invece, intanto – bisogna ricostruire dalle basi. Che significa costruire davvero, non rimettere in piedi con il nastro adesivo strutture già crollate. Se Salvini e i suoi arditi sono un problema – lo sono – è perché le élite di questo paese hanno miseramente fallito, lavorando unicamente per la salvaguardia di se stesse e non per tutti quanti. Combattere loro e combattere Salvini è la stessa battaglia. Che sia lunga e difficile non è un buon motivo per non farla.
(…). La cultura è l’elemento unificante di una società e nella cultura rientra l’arte. (…). Ma, per la società, non meno importante è l’onestà civile della gente di ogni livello; è l’onestà civile diffusa che rende vivibile una società. L’autostima a livello popolare e la stima degli altri paesi sono la base dell’amor di patria e dell’orgoglio di appartenere ad una comunità. Esortazioni, gare sportive e festeggiamenti non sono inutili, ma senza quella base sono addirittura dannosi, perché pongono in risalto il contrasto fra l’apparire e l’essere, e l’amor di patria, quando c’è ipocrisia, invece di crescere diminuisce ulteriormente. (…). È per questo motivo che la “cultura” è stata sempre più invisa agli occasionali reggitori della cosa pubblica. Un Paese acculturato non avrebbe prodotto di continuo tanti e tali “bubboni” purulenti. È la malattia degenerativa, mascherata sotto quel “bubbone” purulento che è stato ad un tempo l’uomo di Arcore, come pure successivamente l’uomo venuto da Rignano sull’Arno, ed oggigiorno magnificamente interpretato da quel Salvini Matteo inopinatamente divenuto ministro della Repubblica, che Alessandro Robecchi intuisce in “Salvini è un sintomo: chiediamoci qual è la causa della malattia”, riflessione pubblicata su “il Fatto Quotidiano” dell’1 di agosto 2018: Il ministro del disonore Matteo Salvini, quello che cita Mussolini, nega l’escalation razzista nel paese, teorizza l’autodifesa a colpi di pistola, comunica come un troll provocatore, leone da tastiera di rara ignoranza ma con in mano il ministero della sicurezza, copre il paese di vergogna in tutto il mondo e ci deve quarantanove milioni di euro rubati dai soci suoi predecessori, è un sintomo grave della febbre italiana. Attenzione, non la causa della malattia, un sintomo. Ciò non significa sminuirne la portata: anche un feroce mal di testa è un sintomo, e infatti lo si combatte, ma un bravo medico non si limiterà a farvi passare il mal di testa con qualche aspirina, ne cercherà la causa in modo che il mal di testa non vi venga più. Salvini è il prodotto, confezionato con fiocchetti e bandierine tricolori (quella con cui il suo ex capo si puliva il culo), di tutti i cucchiaini di merda ingurgitati in anni e anni di storia italiana, di tattiche cretine, di strategie miopi e fascistogene che premiavano ricchi, benestanti e classi dirigenti a discapito di poveri, proletari e piccola borghesia. Il classismo implacabile e accuratamente innaffiato in decine di anni (e Berlusconi, e Monti, e Renzi… molte chiacchiere e molti distinguo, ma la curva delle diseguaglianze è rimasta perfettamente costante), ha acceso piccoli fuochi, e ora arriva Salvini a soffiarci sopra per mera convenienza politica e cinismo. Le classi dirigenti che ci hanno ammorbato per decenni con le loro parole d’ordine campate per aria, meritocrazia, competizione, mercato, liberismo, o negando qualunque dignità al conflitto di classe, o introducendo la favoletta bella che “siamo tutti sulla stessa barca”, industriali e lavoratori, start-up miliardarie e precari, finte cooperative e schiavi, hanno indebolito l’organismo, e ora che arriva il virus e non trova anticorpi, fingono preoccupazione. Capisco che tirare in ballo la cultura, la letteratura, il grande cinema, al cospetto di coloro che ritengono gli intellettuali un ingombro fastidioso e privilegiato sia tempo perso. Ma va ricordato lo stesso che i migranti economici di Steinbeck che andavano dall’Oklahoma alla California venivano bastonati da sfigati poveracci come loro; e quando, in Mississippi Burning, l’agente federale Gene Hackman andava a fare il culo ai razzisti che linciavano i neri, non trovava agrari e latifondisti, ma povericristi spiantati e ignoranti come la merda. Sono proprio le basi, porca miseria: se hai vissuto nel continente del nazifascismo dovresti sapere già dalle elementari che il trucco per tener buoni i penultimi è renderli furiosi con gli ultimi e aizzarglieli contro. Questo è quello che sta facendo il ministro del disonore Salvini: portare taniche di benzina verso l’incendio, che arde già da un bel po’. Ora, è vero, bisogna eliminare il sintomo. Lo si fa applicando coi fatti quello che per anni si è detto a parole, cioè contrastando la barbarie strada per strada, autobus per autobus, fila alla posta per fila alla posta. Zittendo quelli che credono di sollevarsi dalla loro condizione prendendosela con chi sta peggio di loro, invece di rivendicare reddito e diritti da chi sta meglio. Significa parteggiare in modo militante per chi cerca dignità, e non essere indifferenti o distratti quando qualcuno gliela vuole togliere. Intanto – non invece, intanto – bisogna ricostruire dalle basi. Che significa costruire davvero, non rimettere in piedi con il nastro adesivo strutture già crollate. Se Salvini e i suoi arditi sono un problema – lo sono – è perché le élite di questo paese hanno miseramente fallito, lavorando unicamente per la salvaguardia di se stesse e non per tutti quanti. Combattere loro e combattere Salvini è la stessa battaglia. Che sia lunga e difficile non è un buon motivo per non farla.
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