Tratto da “Nessuna operazione di
polizia fermerà milioni di migranti” di Salvatore Settis, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 19 di agosto 2018: Nell’arduo tentativo di sorpassare in
vaniloquio il suo collega di governo Salvini, il vicepresidente Di Maio ci ha
spiegato dove hanno sbagliato i 136 emigranti italiani morti nella miniera
belga di Marcinelle nel 1956: “Questa vicenda insegna che non bisogna partire
dall’Italia, che non bisogna emigrare”. Venendo dal ministro del Lavoro, questo
alto monito sarà certo rivolto non solo (retrospettivamente) ai trenta milioni
di emigranti italiani in America, Australia, Europa dal 1860 al 1990, ma anche
ai 5 milioni di italiani che oggi lavorano all’estero, nonché ai circa 170.000
italiani che si ostinano a emigrare ogni anno, facendo dell’Italia l’ottavo
Paese dell’Ocse per tasso di emigrazione (2,4%), non poi troppo lontano dal
Messico col suo 2,7% (dati Comuniverso). Non sapevano che era meglio starsene a
casa, i nostri emigranti i cui discendenti sono oggi metà della popolazione
argentina e quasi il 10% di quella statunitense. E se per caso i cinque milioni
di lavoratori italiani iscritti all’Aire (anagrafe dei residenti all’estero),
convinti dall’argomentare del ministro, rientrassero domani in Italia, troverebbero
lavoro (o reddito di cittadinanza) per tutti? La migrazione di esseri umani è
un fenomeno globale di enorme portata e complessa interpretazione, e non è con
facili boutade o con fandonie improvvisate che lo si può affrontare. Ma le
parole di Di Maio vanno prese sul serio anche se estemporanee. Messe insieme
con le invettive di Salvini contro i migranti, sono il sintomo di una
concezione del mondo che sarà forse popolare (visto che i due vicepremier
gareggiano per suscitare vampate di consenso), ma è soprattutto lontanissima
dalla realtà. Dà per scontate due cose che, viceversa, non sono mai accadute
negli ultimi centomila anni: primo, che le comunità degli umani possano (anzi
debbano) restar ferme dove sono, senza mai muoversi, senza mescolarsi fra loro,
senza cercare altrove condizioni di vita migliori. Secondo, che quando si
verificano flussi migratori sia non solo giusto e necessario, ma possibile e
fattibile arrestarli ricacciandoli indietro con operazioni di polizia. Perciò
la dichiarazione di Di Maio è il rovescio e l’identico di quella che Renzi ci
regalò un anno fa : “Aiutiamo i migranti a casa loro”. Ognuno a casa propria,
di qua gli italiani che non emigrano, di là i migranti che l’Italia respinge.
Tutti “padroni in casa propria”, secondo lo slogan di Berlusconi che Renzi
ripeteva senza pudore. La cultura al cloroformio di chi ci governa è a quel che
pare ancora e sempre nutrita di miraggi autarchici. Due pilastri megalitici di
un tempio di Tarxien (Malta), del 1500 a.C. circa, hanno in merito qualcosa da
dirci. Sono coperti di graffiti che rappresentano almeno 38 battelli in
navigazione fra la Sicilia, le isole maltesi e l’Africa. Allora come oggi. I
primi abitanti di Malta vennero dalla Sicilia intorno al 5000 a.C., e
nell’arcipelago maltese svilupparono una civiltà particolarissima,
caratterizzata da sorprendenti e gigantesche costruzioni templari. I graffiti
di Tarxien, opera di migranti scampati al naufragio (Woolner), raccontano una
storia molto semplice: ci dicono che il Mediterraneo non è una barriera da
fortificare, ma una strada da percorrere. E che da migliaia di anni il flusso,
in tutte le direzioni, è inarrestabile. È vero, i migranti di Tarxien erano
pochi, mentre l’enorme incremento della popolazione mondiale ha moltiplicato i
movimenti di popolo fino a proporzioni quasi apocalittiche. Ma chi emigra con
enormi rischi e sacrifici non lo fa perché non aveva capito che era meglio
starsene a casa né perché è un criminale (meno che mai perché migrare è “una
pacchia”). Le cause immediate della migrazione che preme alle porte dell’Europa
sono conflitti militari, carestie, guerre civili, talvolta pulizia etnica:
tutte eliminabili in linea di principio, anche se per eliminarle l’Ue fa ben
poco, e molto ha fatto per rinfocolarle (come in Libia). Ma c’è una causa di
fondo che non si elimina con interventi di breve periodo: l’enorme squilibrio
economico fra le varie parti del mondo. A un tale squilibrio c’è un rimedio
vecchio di migliaia di anni: l’emigrazione. Nulla può arrestare le folle latino-americane
che premono ai confini sud degli Stati Uniti, nulla può arrestare la marea di
popolo che da oltre il Mediterraneo guarda verso l’Europa. Anzi, i drammatici
cambiamenti climatici innescheranno nuove ondate migratorie, a cui siamo
ciecamente impreparati. Perciò i placebo escogitati da Salvini e Di Maio sono
patetici tentativi di rimozione (dall’attenzione pubblica, ma anche dalla loro
responsabilità politica) di un problema che non sanno come affrontare.
Eliminare gli squilibri che causano i movimenti migratori è necessario, ma
richiede un progetto di lungo periodo di cui non s’intravvede nemmeno
l’abbozzo. Ma i migranti, le donne e uomini e bambini e vecchi che salgono oggi
sui barconi, non possono aspettare decenni per salvarsi la vita. Una strategia
di lungo periodo è urgente, e dovrebbe includere la possibilità (non l’obbligo)
di trovare lavoro “a casa propria”. Ma altrettanto necessaria e urgente è una
strategia di accoglienza sui tempi brevi, rivolta ai nostri fratelli che
migrano proprio come i nostri nonni cent’anni fa. Una minima informazione e
consapevolezza storica servirebbe anche ai nostri ministri, corrivi inventori
di slogan senza coraggio e senza futuro. Come diceva uno dei grandi storici del
Novecento, Eric Hobsbawm, abbiamo l’obbligo di protestare contro chi vuol
spingerci a dimenticare.
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