Alti lai si sono innalzati all’indirizzo dell’indifferente
cielo da quella martoriata riviera di ponente. Le prefiche hanno come sempre convenientemente
intonato gli immancabili lamenti funebri. Diciamoci la verità: non frega a
nessuno. Non un grido di stizza e si è levato da quell’immenso bagnasciuga che
è divenuto lo stivale d’Italia. Tutti indifferentemente a crogiolarsi al
solleone come inconsapevoli lucertole. Lo è stato puranco per Ustica; lo è
stato per piazza Fontana; lo è stato per Bologna il cui triste anniversario
cade nel periodo del solleone, per l’appunto; lo è stato per Brescia e per le
stragi di mafia. Non frega a nessuno se non a quel ristrettissimo gruppo di
umani che con le vittime ha intessuto rapporti parentali, amicali o
sentimentali. È inutile girarci intorno. Quell’atroce avvenimento è servito come
sempre alla (mala)politica per gli affari suoi. Ed i soliti turiferari ad
intonare le prediche prescritte per il caso, a far sentire la voce dei padroni
mimetizzati ben bene. Avviene che in “Il
ground zero dell’Italia” Ezio Mauro sul quotidiano la Repubblica del 17 di
agosto 2018 pensosamente scriva: (…). Annunciando la sospensione della
concessione il premier Conte ha spiegato che il nuovo governo non può aspettare
"i tempi della giustizia". Ma i tempi della giustizia sono i tempi
del diritto, e delle sue garanzie per reperire gli elementi d'accusa e per
predisporre gli strumenti di difesa. Sono quindi i tempi del giudizio e della
responsabilità in ogni Paese civile. Non avrà pensato, sopraffatto
dalla foga, il celebre columnist che anche nelle stragi precedentemente
elencate si è atteso tanto che la giustizia facesse il suo corso senza guardare
in faccia nessuno. Non lo è stato, tanto è vero che si brancola tutt’oggi nei
tanti misteri assoluti che avvolgono quegli avvenimenti seppur gli stessi siano
approdati al verdetto finale della giustizia. Si dirà che “la sospensione della concessione”
da parte dello Stato sovrano sarà un dato negativo nei rapporti tra
quello stesso Stato ed i mercati in generale, così come tra quello stesso Stato
ed il popolo da esso amministrato. Andrebbe così a cadere quel rapporto
fiduciario che si identifica nel rispetto reciproco di accordi sottoscritti. È qui
che l’illustre Autore sembra non voler prendere in considerazione quel dato
antropologico che permea la vita in tutte le contrade dell’italico stivale.
Quel rapporto fiduciario non esiste, non è mai storicamente esistito, tanto è
vero che sulle stesse pagine di quel quotidiano lo scrittore Paolo Di Paolo - il
giorno prima dei luttuosi fatti di Genova (il 13 di agosto) - in “Quel vanto italiano di farsi furbi”
(rifacendosi ad un altro tipico italiota fatto di cronaca) ha potuto scrivere: (…). È
l'unica soluzione. “Farsi furbi" rappresenta la felice via d'uscita, la
rivalsa, la rivincita. Parte dell'autobiografia della nazione sta in questa
convinzione e in questa frase: se non hai ragione, te la prendi come puoi; se
non hai ciò che pretendi, lo agguanti con l'astuzia. Si potrebbe riscrivere una
storia d'Italia giocata su tale principio, senza nemmeno insistere sul
grottesco e sul caricaturale, sul presunto "carattere" di un popolo.
Basterebbe attenersi, diciamo pure così, ai fatti. O, ancora una volta, alle
parole. Per cogliere tutte le sfumature connesse, nell'italiano colloquiale,
alla parola "fesso", uno scrittore, Giuseppe Pontiggia, aveva
riaperto il ponderoso Grande dizionario Battaglia. E aveva registrato che
"fesso" è chi non sappia o non voglia approfittare delle "facili
e vantaggiose occasioni"; chi è incapace di farsi valere, "spesso per
mantenersi fedele ai propri ideali di giustizia e onestà". Di qui le
espressioni "fare il fesso", "non fare il fesso". Pontiggia
citava un suo acuto e aspro collega del passato, Giuseppe Prezzolini, evocando
la distinzione categorica su cui impostò un surreale (e lucidissimo) Codice
della vita italiana poco meno di cent'anni fa. "I cittadini italiani -
scriveva Prezzolini - si dividono in due categorie: i furbi e i fessi".
Cavare suggestioni letterarie in proposito - dalla commedia dell'arte a
Pinocchio, con l'infingarda e meschina Volpe in cui inciampa - risulta
superfluo. (…). …Prezzolini, con una punta di cinismo, si era convinto che a
mandare avanti l'Italia fossero dunque i fessi ("che lavorano, pagano,
crepano"), (…). L'Italia la mandano avanti quelli che si fanno furbi.
Quelli, cioè, che non si fanno fare fessi. Poco conta se quella
"furbizia" produca danni a terzi, abbia conseguenze pericolose,
effetti collaterali pesanti. L'importante è aver guadagnato il traguardo, no? Il
fatto è che dentro quella piccola frase è accesa una spia che dovrebbe
inquietarci. Non al passato, ma al presente. Lampeggia nelle notti di questo
tempo che è nostro e non è solo italiano, affollato di cittadini non solo
"a basso tasso di informazione" ma incapaci di riconoscere i limiti
del proprio sapere. "Tutti siamo rimasti intrappolati a una festa o a una
cena in cui la persona meno informata tra i presenti ha tenuto banco",
senza mai dubitare della propria intelligenza e competenza. L'immagine l'ha
usata lo studioso americano Tom Nichols nel recente La conoscenza e i suoi
nemici. Ma la festa è diventata cupa, se non perfino macabra. Il furbo viene
confuso con l'intelligente; i nemici della conoscenza vedono solo nemici, e
quelli che credono di avere vinto fanno perdere tutti. Ecco allora che
la sgangherata navicella italiota, col suo fasciame cadente e corroso, si trovi
oggi, di fronte a questa nuova sciagura, a doversi destreggiare come tra i
marosi mitologici di Scilla e Cariddi, laddove quei mostri possono ben rappresentare
l’esigenza del rispetto dei patti dello Stato sovrano verso i mercati (così
come il rispetto dei patti da parte dello stesso Stato verso la generalità dei
suoi cittadini), ma al contempo quella voglia di giustizia rapida e sicura che
quello stesso Stato sovrano non è riuscito mai a soddisfare. E quel “farsi
furbi" è un dato antropologico e sociale che ha condotto la
maggioranza della “ggente” a diffidare se non addirittura a temere il proprio
Stato. A starne possibilmente lontani. Ad utilizzarlo furbescamente alla
bisogna e non oltre. Scrive ancora il famoso columnist:
È tipico del populismo sfruttare le emozioni dopo una tragedia in termini di propaganda più che di governo, facendo da specchio all'indignazione popolare invece di risolverla emancipandola. Per riuscirci sono necessarie due cose: scaricare tutte le responsabilità sul sistema, presentato come un insieme fradicio e marcio di élite, baronie, vecchi partiti, istituzioni e poteri economici e finanziari forti; e presentare se stessi come perennemente estranei al sistema, anche quando si siede al suo vertice, governandolo da palazzo Chigi. Ma è stato proprio quel “sistema” ad aver creato tutte le condizioni per le quali diffidare del “sistema” è divenuta l’ultima spiaggia sulla quale andrà ad arenarsi quella sgangherata navicella. Ecco allora la intravista scorciatoia che hanno imboccato gli attuali reggitori della cosa pubblica per dare una risposta a quell’attesa di giustizia. Populismo? Pressapochismo? Ma populismo e pressapochismo sono dati – e dico dati – incontrovertibili dell’antropologia italiota. Poiché populisti e pressappochisti lo sono stati tutti, e storicamente da sempre. Non per niente Alessandro Robecchi in “Il treno delle polemiche sulle privatizzazioni è in ritardo (ovviamente)” su “il Fatto Quotidiano” del 22 di agosto scrive di ricordare “molto bene (ahimé facevo già questo mestiere) le accuse a chi si opponeva alle privatizzazioni di tutto e di tutti. Le accuse di comunismo, di statalismo, di arretratezza e miopia riservate a chi si opponeva alle svendite di patrimoni pubblici e alle concessioni donate in allegria. Di contro, ricordo le odi al mercato che tutto sistema e tutto regola come per magia. C’è stato un periodo, nella nostra storia recente, in cui se solo ti azzardavi a dire che lo Stato doveva fare lo Stato e gestire i suoi beni (possibilmente con correttezza, senza assumere per forza i cugini dei cognati), venivi trattato come un VoPos della Germania dell’est posto a difesa del muro, un pericoloso comunista pronto a entrare nel Palazzo d’Inverno sfasciando i preziosi lampadari e sporcando i tappeti. Fu in quegli anni che si diffuse come l’epidemia di Spagnola l’uso indiscriminato della parola “liberale”. Tutto diventava liberale, così come tutto doveva diventare privato, e se qualcuno si metteva un po’ di traverso niente sconti: l’accusa terribile era quella di essere contro la modernità, reato gravissimo. “Statalista” suonava come “pedofilo”, come “brigatista”: pubblico ludibrio e risate di scherno. Non se ne fa qui una questione di schieramenti: destra e sinistra unite nella lotta, chi più chi meno, chi a suo modo, chi tentando di umanizzarlo e chi spingendolo al massimo dei giri, chi dicendo che andava regolato almeno un poco, chi diceva che era meglio lasciarlo libero e bello. Ma il pensiero unico di cui tanto si parla cominciò lì: il mercato non era una cosa discutibile, prendere o lasciare. Cadevano muri e ideologie, e ne rimaneva in piedi una soltanto: il mercato. Ora che anche fior di liberali ammettono che “alcune privatizzazioni” sono state fatte male, in fretta, con l’ansia di far cassa e senza alcuna strategia o prospettiva storica, con pochi controlli, con un orribile consociativismo tra chi concedeva e chi prendeva le concessioni, non c’è da provare nessuna soddisfazione: i buoi sono scappati, la stalla è stata spalancata per trent’anni, chiudere le porte ora sarà probabilmente una pezza piccola su un buco enorme. E anche questa concessione all’evidenza rischia di sembrare furbetta e funzionale: si ammette che qualcosa è andato storto per affermare, in sostanza, che il disegno è giusto ma c’è stata qualche sbavatura. Intanto il famoso mercato lo abbiamo visto in azione: in trent’anni ci ha regalato un paio di crisi durate dieci anni ognuna, un restringimento dei diritti (non ultimo quello di passare un ponte senza pregare tutti i santi), una precarizzazione di massa, la proletarizzazione dei ceti medi e tutto il resto che sappiamo. Il tutto accompagnato – in Italia – dalla vulgata (oggi si direbbe “narrazione”) che il pubblico era antico e il privato moderno. Poi, oggi, si trasecola apprendendo dagli schemini dei giornali che in Germania le autostrade sono pubbliche e gratuite, per dirne una, e nessuno si sogna, lassù, di pensare ai Land tedeschi come a repubbliche staliniste pronte a fucilare i dissidenti o a mandarli in Siberia. Oggi pare che si possa ricominciare a parlarne, ma il timore è che lo si faccia solo perché bisogna rimettere a posto i guasti dei famosi privati. Insomma, privato quando c’è da incassare e pubblico quando c’è da rimettere insieme i cocci. Come sempre nella penisola italiota tutto si fa “in ritardo”. Furbescamente, appositamente “in ritardo”.
È tipico del populismo sfruttare le emozioni dopo una tragedia in termini di propaganda più che di governo, facendo da specchio all'indignazione popolare invece di risolverla emancipandola. Per riuscirci sono necessarie due cose: scaricare tutte le responsabilità sul sistema, presentato come un insieme fradicio e marcio di élite, baronie, vecchi partiti, istituzioni e poteri economici e finanziari forti; e presentare se stessi come perennemente estranei al sistema, anche quando si siede al suo vertice, governandolo da palazzo Chigi. Ma è stato proprio quel “sistema” ad aver creato tutte le condizioni per le quali diffidare del “sistema” è divenuta l’ultima spiaggia sulla quale andrà ad arenarsi quella sgangherata navicella. Ecco allora la intravista scorciatoia che hanno imboccato gli attuali reggitori della cosa pubblica per dare una risposta a quell’attesa di giustizia. Populismo? Pressapochismo? Ma populismo e pressapochismo sono dati – e dico dati – incontrovertibili dell’antropologia italiota. Poiché populisti e pressappochisti lo sono stati tutti, e storicamente da sempre. Non per niente Alessandro Robecchi in “Il treno delle polemiche sulle privatizzazioni è in ritardo (ovviamente)” su “il Fatto Quotidiano” del 22 di agosto scrive di ricordare “molto bene (ahimé facevo già questo mestiere) le accuse a chi si opponeva alle privatizzazioni di tutto e di tutti. Le accuse di comunismo, di statalismo, di arretratezza e miopia riservate a chi si opponeva alle svendite di patrimoni pubblici e alle concessioni donate in allegria. Di contro, ricordo le odi al mercato che tutto sistema e tutto regola come per magia. C’è stato un periodo, nella nostra storia recente, in cui se solo ti azzardavi a dire che lo Stato doveva fare lo Stato e gestire i suoi beni (possibilmente con correttezza, senza assumere per forza i cugini dei cognati), venivi trattato come un VoPos della Germania dell’est posto a difesa del muro, un pericoloso comunista pronto a entrare nel Palazzo d’Inverno sfasciando i preziosi lampadari e sporcando i tappeti. Fu in quegli anni che si diffuse come l’epidemia di Spagnola l’uso indiscriminato della parola “liberale”. Tutto diventava liberale, così come tutto doveva diventare privato, e se qualcuno si metteva un po’ di traverso niente sconti: l’accusa terribile era quella di essere contro la modernità, reato gravissimo. “Statalista” suonava come “pedofilo”, come “brigatista”: pubblico ludibrio e risate di scherno. Non se ne fa qui una questione di schieramenti: destra e sinistra unite nella lotta, chi più chi meno, chi a suo modo, chi tentando di umanizzarlo e chi spingendolo al massimo dei giri, chi dicendo che andava regolato almeno un poco, chi diceva che era meglio lasciarlo libero e bello. Ma il pensiero unico di cui tanto si parla cominciò lì: il mercato non era una cosa discutibile, prendere o lasciare. Cadevano muri e ideologie, e ne rimaneva in piedi una soltanto: il mercato. Ora che anche fior di liberali ammettono che “alcune privatizzazioni” sono state fatte male, in fretta, con l’ansia di far cassa e senza alcuna strategia o prospettiva storica, con pochi controlli, con un orribile consociativismo tra chi concedeva e chi prendeva le concessioni, non c’è da provare nessuna soddisfazione: i buoi sono scappati, la stalla è stata spalancata per trent’anni, chiudere le porte ora sarà probabilmente una pezza piccola su un buco enorme. E anche questa concessione all’evidenza rischia di sembrare furbetta e funzionale: si ammette che qualcosa è andato storto per affermare, in sostanza, che il disegno è giusto ma c’è stata qualche sbavatura. Intanto il famoso mercato lo abbiamo visto in azione: in trent’anni ci ha regalato un paio di crisi durate dieci anni ognuna, un restringimento dei diritti (non ultimo quello di passare un ponte senza pregare tutti i santi), una precarizzazione di massa, la proletarizzazione dei ceti medi e tutto il resto che sappiamo. Il tutto accompagnato – in Italia – dalla vulgata (oggi si direbbe “narrazione”) che il pubblico era antico e il privato moderno. Poi, oggi, si trasecola apprendendo dagli schemini dei giornali che in Germania le autostrade sono pubbliche e gratuite, per dirne una, e nessuno si sogna, lassù, di pensare ai Land tedeschi come a repubbliche staliniste pronte a fucilare i dissidenti o a mandarli in Siberia. Oggi pare che si possa ricominciare a parlarne, ma il timore è che lo si faccia solo perché bisogna rimettere a posto i guasti dei famosi privati. Insomma, privato quando c’è da incassare e pubblico quando c’è da rimettere insieme i cocci. Come sempre nella penisola italiota tutto si fa “in ritardo”. Furbescamente, appositamente “in ritardo”.
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